Kanye West, Lil Wayne e la fine di un’era | Rolling Stone Italia
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Kanye West, Lil Wayne e la fine di un’era

Hanno definito presente e futuro dell’hip hop per più di un decennio. Ora, con l’uscita di ‘Tha Carter V’ e ‘Yandhi’, il capitolo si chiude

Kanye West, Lil Wayne e la fine di un’era

Graduation, il terzo album in studio di Kanye West, vendette 957mila copie in una settimana. Un anno dopo Lil Wayne ne vendeva un milione con Tha Carter III. Due dischi, due talenti della stessa generazione al massimo del successo commerciale. Nel 2007 erano come due incoronazioni, e il picco di una nuova era del rap. Adesso, dopo un decennio turbolento, sembra che quell’era sia finita.

Al loro meglio, Kanye e Wayne hanno trasformato il rap attraverso due archetipi diversi e iconoclasti. Wayne era il rapper dei rapper che viveva solo per fare musica, Kanye cercava di convincere il mondo intero che l’hip hop potesse diventare pura arte. Wayne ha costruito la sua carriera pubblicando tutto quello che registrava, finché non è stato divorato dalla macchina. Kanye era il rapper più riflessivo del mondo, poi è diventato l’opposto. I personaggi che interpretavano hanno reso l’immagine popolare dei rapper indistinguibile da quella delle popstar più grandi del pianeta, e l’uscita di un loro album significava guidare tutto l’hip-hop verso nuove rotte.

Un decennio dopo, i sei anni d’attesa per Tha Carter V e l’apparente remake di Yeezus rappresentano la fine del periodo in cui i due avevano un impatto commerciale e creativo tale da guidare tutto il movimento. Sono due album che alludono all’influenza che hanno avuto sul genere.

Wayne ha costruito il suo personaggio mostrando tutta la sua imperfezione incontrollata. Fluido, casuale, difettoso. Prima che i social media e lo streaming imponessero all’umanità il bisogno di condividere tutto, Wayne pubblicava ogni cosa – Droughts, Dedications, No Ceiling. Era l’unico candidato sensato al titolo di Best Rapper Alive. Certo, c’erano anche Jay-Z e Mike Jones, ma li avrebbe distrutti entrambi comunque.

Tha Carter V cerca di mitizzare quell’era. Un discorso di Barack Obama del 2009 (“Non possiamo tutti aspirare a diventare LeBron o Lil Wayne”) e il video virale di una deposizione sono le instantanee che incorniciano i primi brani in scaletta. Un sample di 2 Chainz commemora la fase di Dedication. La sua figlia biologica (Reginae Carter) e quelli metaforici (Kendrick Lamar, Nicki Minaj, Travis Scott) fanno visita per porgere i loro omaggi. Sono momenti sorprendenti, che riescono a dare calore e profondità all’atto di puro egoismo di Wayne, che ha scritto un disco per celebrare la sua stessa influenza sul genere. Funziona più o meno come quando Kanye, qualche anno fa, si auto-proclamava miglior rapper del mondo, incoronandosi da solo prima che qualcun altro potesse farlo al posto suo. Prendetela come volete.

Al contrario, il personaggio interpretato da Kanye per tutto lo scorso decennio era un perfezionista sfrenato. Un narcisista rigido ed emotivo. La fase post-Graduation della sua carriera sembra quasi guidata dall’ossessione di cambiare il paradigma pop quanto umanamente possibile. 808s & Heartbreak, My Beautiful Dark Twisted Fantasy e Yeezus presentavano il rap in tutte le sue sfumature – minimalista, massimalista, classico, d’avanguardia. Non era mai abbastanza. Wayne voleva essere il miglior rapper del mondo, Kanye voleva che l’hip hop diventasse il genere.

J. Cole e Travis Scott, i suoi discepoli, sono le star più popolari del pianeta e, inseguendo la narrativa da rapper-producer di Ye, hanno pubblicato due tra gli album più venduti dell’anno. Tra tutti i generi. Chance the Rapper si sta abituando al ruolo dell’erede, e con Good Ass Job cerca di resuscitare “l’album”, una forma d’arte che credevamo perduta per sempre. E poi c’è Drake. L’artista che più di tutti è in debito con Kanye e Wayne, e la più grande star hip-hop del pianeta. L’influenza di Drake su tutta la cultura popolare è probabilmente uno dei fattori che hanno determinato la crisi d’identità di Kanye.

«Non sono più “il re”, non ho più la corona», ha detto West al New York Times per spiegare come la sua nuova statura l’abbia cambiato. «E mi sono detto ok, non sei più il rapper n.1, è Drake il rapper n.1».

La strada verso Yandhi è stata caotica e offensiva tanto quanto quella per Ye, e minaccia di distruggere il suo personaggio una volta per tutte. È tornato alla sua versione più avvelenata, quella con il cappellino Make America Great Again sulla testa durante la testimonianza di Christine Blasey Ford. Il suo 2018 sembra un continuo agitarsi per stare al centro dell’attenzione. Ha ceduto il trono delle vendite a Lil Wayne, ma non riesce ad accettare che Logic, uno dei suoi “discendenti”, riuscirà prima o poi a batterli entrambi.

Tha Carter V, invece, funziona proprio perché fotografa quell’epoca passata in cui Wayne era il re. Non ha scritto un disco sulle nuove possibilità del genere – ci sono brani che starebbero bene in una qualsiasi uscita hip hop degli ultimi 5 anni -, ma è a suo agio nella stasi. Nostalgico, trionfale, il quinto capitolo di Tha Carter racconta la storia di un uomo derubato dell’unica cosa che sognava di fare da ragazzo. Nel brano di chiusura – Let it All Work Out – racconta nei dettagli di quando a 12 anni ha cercato di suicidarsi perché sua madre non voleva che continuasse con il rap.

Wayne è un pugile sul ring, e sa che il pubblico si sta domandando se sia ancora forte come un tempo. Ha passato sei anni combattendo con la sua label per riavere il controllo della sua carriera, e non ne è uscito sconfitto. Il miglior rapper del mondo è tornato, e per questa notte il titolo è ancora suo.

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