Quicksand, la recensione di 'Interiors' | Rolling Stone Italia
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I Quicksand e la macchina del tempo anni ’90

Ma insomma, che fine hanno fatto gli emo? 'Interiors', il nuovo disco della band americana, fa rivivere quella stagione in bianco e nero

Che fine hanno fatto i ciuffi piallati sugli occhi, i lunghi bracciali neri a nascondere (o implicare) incisioni autoinflitte con lamette da barba? Il trucco nero abbondante e i look ispirati a scacchiere in black and white? Che fine hanno fatto gli emo, insomma?

Di loro ricordo quel video che circolava su YouTube – comitive esistenzialiste e confusissime riprese all’ombra delle Colonne di San Lorenzo di Milano – e i miei ripetuti (e disperati) tentativi di capire come si fosse arrivati a quel movimento giovanile dallo stile musicale omonimo, figlio più o meno legittimo della felice stagione post-hardcore vicina alla Dischord di Washington. Ma forse il legame alla fine era semplicemente l’enfasi sull’emotività: il post-punk aveva smesso di occuparsi di politica e di sociale, per concentrarsi sull’introspettivo e sul personale. Una specie di riflusso alternativo, insomma.

‘Interiors’ è un’occasione per rivivere gli anni ’90

I Quicksand erano sicuramente della partita: solidi e serrati come imponevano le influenze di una certa tipologia di grunge. Urlati, ma allo stesso tempo iper-sensibili. Questo ritorno dei Quicksand con il loro ultimo Interiors è una specie di macchina del tempo: una piacevole occasione per chi volesse (ri)vivere per un’ora circa quella stagione caratteristica della metà degli anni ’90. Una pura curiosità per chi, invece, non ne sentisse il bisogno.

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