‘Buen Camino’: la recensione del nuovo film di Checco Zalone | Rolling Stone Italia
in viaggio con papà

Checco Zalone è diventato buono?

Sì, ma per fregarci un’altra volta. ‘Buen Camino’ è un “family movie” che non perde la cattiveria, anzi. E che sa ancora dirci chi siamo. La recensione

Checco Zalone è diventato buono?

Checco Zalone con Letizia Arnò in ‘Buen Camino’

Che cosa si aspetta l’Italia intera da Checco Zalone? A questo punto, tutto. L’uomo-che-la-faccia-ridere che non si trova più manco su Tinder, la salvezza di tutto il comparto cinema (questo in realtà solo i poveri esercenti e i romani amici miei), il ripristino del dibattito socioculturale sui quotidiani o quel che ne rimane (del dibattito socioculturale e dei quotidiani), e quest’anno pure una più liscia digestione del pranzo di Natale, visto che arriva in sala il 25 dicembre.

Che cosa si aspetta Checco Zalone da sé stesso? A questo punto, direi le stesse cose (una in particolare: «Ci aspettiamo di fare dei soldi», ha detto timidamente ma candidamente – e con una franchezza che in questo Paese nessun altro può adoperare – durante la conferenza stampa di lunedì mattina). Più una: il desiderio di essere come tutti. È la parabola di molti colleghi illustri, da Sordi a Benigni: da nuovo mostro in cui (è meglio non) riconoscersi a padre della patria trasversalmente incontestabile – forse perché, per direttissima e indirettamente, tutti ci siamo riconosciuti: ormai è fatta, tanto vale amarlo (e amarci).

A sei anni dall’uscita in sala dell’ambiziosissimo (e a tutt’oggi da molti incompreso) Tolo Tolo, il Checco da arcitaliano a padre d’Italia torna con un film che, prima che una satira, è un family movie o, come ha più efficacemente detto lui stesso in quella stessa conferenza stampa, «una roba ruffiana». Perché se sei Luca Medici/Checco Zalone e scrivi una storia edificante (ma non è poi così semplice) su un padre assente e una figlia adolescente che imparano a conoscersi e a volersi bene, non puoi non sapere di essere (anche e volutamente) ruffianissimo.

Buen Camino | Trailer Ufficiale | Dal 25 dicembre al cinema

Buen Camino di Gennaro Nunziante, ritrovato dopo la regia in solitaria di Tolo Tolo, racconta di un supercafone che si direbbe disegnato su Vacchi – villozza in Sardegna con piramide in giardino, sventola messicana per fidanzata, corte di amici a sbafo sullo yacht, colf e camerieri che fanno i balletti a uso TikTok – che s’incammina verso Santiago de Compostela sulle tracce della figlia (e qui è un po’ Jay Kelly di Baumbach con George Clooney sui regionali europei); a differenza della generazione ladrona dei padri, la ragazza vuole riscoprire i valori autentici, che non sono le Ferrari e i Patek Philippe (e qui invece c’è più lo scontro alla Cinque secondi di Virzì, anche se lì Mastandrea era in fondo ecosostenibile pure lui).

La maschera Zalone non perde i vizi (l’ignoranza esibita, l’egoismo sbracato, il “fobismo” di fronte a tutto e tutti, il patriarcato incancrenito, e soprattutto un certo fascismo più delle intenzioni che, di fatto, delle azioni), ma c’è uno slittamento evidente. «Checco Zalone è come Barbie: in ogni film fa un lavoro diverso», dice un commento di Letterboxd riportato in una paginetta Instagram (commento, evidentemente, di un Gen Z che non capisce il ruolo delle maschere della commedia, avendo forse visto giusto Cado dalle nubi: c’è sempre l’attenuante “sono troppo giovane”).

Ma ecco, se prima Checco era sempre la “Barbie italiano medio” parassitario e para-statale, qui parte da bambolo ricchissimo (grazie ai soldi di famiglia, come quasi sempre da noi) che basta a sé stesso. Non c’è sovrastruttura che gli serva più, se mai tutti i sistemi precedenti sembrano arnesi novecenteschi di cui bisogna solo disfarsi – cfr. l’ex moglie (Martina Colombari!) passata da modella ad attrice di teatro «cagna», ci tiene a precisare Checco in una scena, e che, da brava pasionaria di sinistra ora sposata a un intellettuale palestinese, ha smesso di tingersi i capelli. (La solita sinistra che non capisce più niente è ancor meglio e più cinicamente massacrata con l’inserto dell’Internazionale dentro la bachata che accompagna le scene di vita smeralda in motoscafo).

Checco Zalone in una scena del film. Foto: Medusa Film

Pure i film precedenti procedevano, prima ancora che per accumulo di gag, secondo lo schema dell’operetta morale, anche se Medici/Zalone la morale non l’ha voluta mai fare a nessuno, se mai solo a sé stesso. Qui l’impianto è più chiaro ancora, ma le battute per cui si ride per poi sentirsi sporchi (parlo sempre dei pasionari di sinistra novecenteschi, che già mi figuro in grande crisi per essersi sganasciati davanti agli affondi su Gaza, Schindler’s List e 11 settembre) restano l’ossatura del suo modo di guardare noi, tutti eticamente specchiati finché non si aprono le nostre chat di WhatsApp.

Checco Zalone è diventato buono, sì, ma solo per fregarci un’altra volta. Il Cammino che ci riporta ai valori autentici, e il cristianesimo sociale, e l’ecumenismo come strada famigliare e sociale (ma a colpi di Pata Negra del ristorante tristellato), e persino una specie di campagna di prevenzione del cancro alla prostata. Tutto vero, tutto sincero, ma anche, sottotraccia (manco troppo sotto), ancora più cattivo di prima, perché per leggere il mondo bisogna restare «intelligentemente scorretti» (unico commento in proposito che s’è lasciato scappare nella solita conferenza stampa Medici/Zalone, che per il resto si guarda bene dall’entrare nel dibattito di cui sopra; o peggio, da comico superiore qual è, dallo spiegarci le sue stesse battute).

Che cosa si aspetta questo Natale da Checco Zalone? Di far uscire milioni di italiani dalle sale facendoli sentire migliori, anche se tutti sanno che si è rimasti, serenamente, gli stronzi di prima. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che Checco Zalone (non) cambi. Mai.