In questa epoca di streaming permanente l’industria musicale è una forma di «neo-feudalesimo digitale» in cui i signori sono i proprietari delle piattaforme, le major e i fondi di investimento sono i vassalli, i giornalisti, i curatori di playlist e gli influencer rappresentano il clero, mentre i servi della gleba sono i musicisti. Lo dice Corrado Rustici in Il musicista transmoderno, un podcast mensile che nasce, come ci ha spiegato in questa intervista, «da un mio bisogno» e da una serie di riflessioni usate come bussola per «tornare a frequentare lidi più sani per i musicisti e anche per me personalmente». Ma che, fin dal primo episodio, diventa qualcosa di più ampio: una radiografia dell’industria musicale contemporanea.
Non è una provocazione, perché Rustici parla con l’autorevolezza di chi ha attraversato tutte le ere della musica popolare moderna, «dalla bolla di come la musica è stata intesa dagli anni ’30 in poi», passando dai floridi anni ’50 e ’60, fino all’esplosione degli anni ’80 e ’90. In seguito qualcosa si è rotto a metà degli anni 2000 e ora «è sparita la classe media», quella che con 15 mila copie di un disco poteva viverci decentemente, mentre adesso con un milione di stream ricava a «a malapena 3000 euro». Un sistema che lui definisce apertamente «un disastro», governato dalla logica winner take all e dove «l’1% degli artisti prende il 90% degli stream». È da qui che nasce l’urgenza del podcast: «Sono sassolini che andavano tolti, perché diventano sempre più grandi. Ho deciso di farlo soprattutto per i giovani».
Il tempismo non è casuale. Mentre smonta pezzo per pezzo la retorica della «meritocrazia algoritmica», Rustici è anche protagonista del ritorno dei Cervello. A cinquant’anni dall’album di culto Melos, la band ha prodotto Chaire, pubblicato esclusivamente in formato fisico. È costruito su tredici brani scritti tra il 1974 e il 1983 e rimasti sepolti «su cassette e bobine mai pubblicate». Al centro, la voce originale di Gianluigi Di Franco, scomparso nel 2005, rigenerata grazie alla tecnologia: «Ci ha commosso risentirlo». Mettendo in chiaro luci e ombre delle possibilità attuali: «Non sarebbe stato possibile senza tecnologia che ha ridato vita alle sue performance».
Così, podcast e disco dialogano sullo stesso asse: critica radicale del presente, che ha dimenticato l’aspetto artistico, e fedeltà assoluta all’idea di musica come atto culturale. Da una parte la denuncia di un’industria che «trasforma la musica in asset, come nel real estate», dall’altra la dimostrazione che il tempo, la memoria e la comunità possono ancora produrre senso: «La musica non può fermarsi perché l’umanità ne avrà sempre bisogno».
Intanto, perché un podcast?
L’ho realizzato, come tutto quello che faccio in musica, partendo da un mio bisogno personale. Sono pensieri e riflessioni che ho maturato nel tempo e che cerco di utilizzare per tornare a frequentare lidi più sani per i musicisti e anche per me personalmente.
Nel primo episodio, che si intitola “Dai menestrelli agli algoritmi: l’ordine neofeudale dell’industria musicale contemporanea”, parli apertamente di un neo-feudalesimo digitale applicato all’industria musicale. Perché questa metafora descrive meglio di altre il funzionamento attuale del sistema dello streaming?
Non è una boutade, è la realtà. Per mia fortuna ho vissuto la musica per come era intesa dagli anni ’30 in poi, con la fioritura negli anni ’50 e ’60 e la definitiva esplosione negli ’80 e ’90. Ora è degenerata, non tanto a livello di business. Perché questo è la base di ogni mercato. Ma prima c’era un metodo per vendere che riusciva a riflettere e a valorizzare la natura artistica o culturale di ciò che veniva veicolato. Oggi invece l’ordine neofeudale è dominato dai proprietari delle piattaforme che dettano legge, che sono i veri signori. Poi ci sono i vassalli, che sono diventate le major e i fondi di investimento. Non manca il clero, rappresentato da curatori di playlist, influencer, social media manager e giornalisti. Per arrivare ai servi della gleba che, purtroppo, sono i musicisti.
In questo modo, racconti, è sparita la classe media nel settore. Se fino a qualche anno fa vendere 15 mila copie di un disco poteva permettere a un musicista di guadagnare dai 15 ai 30 mila euro, oggi con un milione di stream ricava a malapena 3000 euro.
È così che si è trasformato il mercato. Tra l’altro sto preparando un’altra puntata del podcast sul tema del mondo post musica, cioè dopo l’avvento dell’intelligenza artificiale. Non tanto dal punto di vista creativo, perché la tecnologia verrà sempre utilizzata da qualche genio per creare qualcosa di meraviglioso, ma di come l’industria si è appropriata di questa nuova scoperta e di come la sta usando per costruire prodotti gratuiti che porteranno il mercato a inflazionarsi. È un lato oscuro della musica con cui dovremo fare i conti nei prossimi anni.
Parli anche di una legge di potenza che governa le piattaforme, dove l’1% degli artisti prende il 90% degli stream e il resto si dividono il 10% rimanente. Viene definita economia winner take all. Che conseguenze ha questo modello?
È un disastro. Funziona per il momento, perché le label, come i duchi e baroni feudali, si sono inchinate a queste nuove realtà visto che conviene e guadagnano tantissimo senza molti sforzi. Inoltre, questa situazione riflette anche una condizione globale, dove in generale la classe media è sparita dalla nostra società. È ancora più triste che tutto questo si manifesti nella musica, perché è da questo settore che sono sempre arrivate le idee più belle e di cambiamento. Ancor di più dagli artisti indipendenti, di nicchia e liberi, che dopo un disco venduto in 15 mila copie e con i concerti potevano viverci dignitosamente e continuare a sperimentare.
Quanto questo meccanismo incide sulla libertà personale?
In tanti sono costretti a inchinarsi, altrimenti non lavorano. Io che sono chitarrista, so quanto i musicisti siano vittime del proprio mito, del manierismo e della vanità. Oggi tanti miei colleghi per lavorare fanno cose che nulla hanno a che vedere con la tecnica che hanno acquisito nel tempo. Sono sassolini che andavano tolti, perché nel tempo diventano sempre più grandi e ho deciso di fare questo podcast soprattutto per i giovani. Loro devono conoscere altri modelli possibili e capire che l’unico obiettivo non è il diventare una superstar. Se sei un artista puoi anche finire a morire di fare. Non tutti sono artisti e farlo credere è la fregatura.
Alcuni sono poi stati rivalutati in seguito.
L’ho vissuto in prima persona con la band Cervello. Dopo il primo disco, 50 anni fa, non ci filò nessuno. Perché eravamo troppo prog per i prog e dei marziani per chi ascoltava la canzone leggera italiana. Ma poi, in questo arco di tempo, abbiamo avuto segnali e stima da ogni parte del mondo, tanto che ci siamo decisi a pubblicare Chaire, il disco con 13 inediti scritti tra il 1974 e il 1983 e rimasti nascosti per decenni su cassette e bobine mai pubblicate.
Nonostante questo neo feudalesimo, c’è ancora spazio per la musica?
C’è spazio perché la musica non può fermarsi, l’umanità ne avrà sempre bisogno. È una manifestazione naturale dell’essere umano. Tutti gli artisti sono sempre ignorati all’inizio, perché l’arte sposta il focus e gli orizzonti un po’ più avanti, che è l’opposto della familiarità della musica che ci propongono negli ultimi anni. Tutto sembra uguale o simile, altrimenti l’algoritmo ti sfavorisce, ma l’espressione artistica ci sarà sempre. Chi è veramente artista continua a esserlo, perché non ne può fare a meno a prescindere dal ritorno economico.
Con la tecnologia avete ricostruito le parti musicali e cantate di Gianluigi Di Franco, scomparso nel 2005.
Assolutamente sì, perché io non sono contro la tecnologia. Sono convinto che determini, da sempre, il sound delle varie ere musicali. Anzi, questo album non sarebbe stato possibile senza una tecnologia che ci ha permesso di ridare vita alle performance di Gianluigi Di Franco. Non per mettergli addosso qualcosa di nuovo, ma per sanare la qualità delle registrazioni di 50 anni fa che oggi, se riproposte senza qualche aiuto, sarebbero improponibili. Oggi si possono rigenerare le voci originali e ci ha commosso risentirlo.

Cervello. Foto press
Un altro fenomeno che si è innescato è l’acquisizione dei cataloghi. Da Bob Dylan che ha venduto i suoi a Taylor Swift che, invece, ha riacquistato la proprietà dei master.
E non ne parla nessuno, non è strano? Non c’è major che non abbia acquisito il catalogo di un grande artista, ma perché sono in grado di restituirgli una credibilità, oltre a introiti fissi, che rischiano di perdere. Tanta musica che esce in questo periodo è già fatta con AI e spesso è migliore di quella fatta da esseri umani, per cui corrono ai ripari in questo modo. Questo permette dei ricavi enormi dalla musica come asset, un po’ come nel real estate in cui si ricava profitto da beni più difficilmente deperibili. Parallelamente, però, continuano a vedere musica che non serve a nulla e non ha futuro.
Nel podcast segnali come, a causa dell’omologazione musicale, spariscono anche le diversità regionali. Tu che hai contribuito alla sua carriera, pensi che Zucchero oggi sarebbe più in difficoltà ad affermarsi con le sue caratteristiche peculiari?
Oggi non verrebbe valorizzato come era stato fatto allora. Zucchero, come altri, sono stati supportati da un settore con logiche completamente diverse rispetto ad adesso. Parlando di major, Zucchero all’epoca rappresentava un investimento artistico, prima ancora che economico. Ci sono ancora artisti così, ma fuori dalle major. Sono ribelli che, prima o poi, riusciranno ad affermarsi, magari con nuove logiche che metteranno in discussione il settore.
Hai lavorato negli Stati Uniti e preso parte ai primi dischi di Whitney Houston, una delle voci più belle di sempre. Anche lei oggi dovrebbe confrontarsi con l’Auto-Tune?
Whitney era unica, aveva una delle voci più potenti mai sentite. Non sbagliava mai, come tutti i grandi di quel periodo perché, altrimenti, non avevi nemmeno una chance di farcela. Quella era un’epoca in cui portavi la chitarra e facevi i provini cantando e suonando di fronte ai presidenti o ai responsabili delle label, in quel modo capivano se ci fossero delle potenzialità. Attualmente abbiamo artisti come Adele, che è bravissima, ma un po’ di Auto-Tune lo usa anche lei. Però, almeno, diciamo che ha di base una bellissima voce.
Nel finale del podcast aggiungi anche qualche soluzione per i giovani e per un nuovo mercato della musica più equo. Non tutto è perduto?
Non sono speranzoso nei sindacati o nelle istituzioni, anche se saranno parte di un processo nella regolazione dell’antitrust. Ma prima sarebbe utile sviluppare sistemi blockchain decentralizzati per le royalty. Un modo che permetterebbe a chi scrive musiche e canzoni di ricevere i diritti nel modo e nelle quantità adeguate. Poi credo molto anche in un ritorno delle comunità. Com’era avvenuto durante il sistema feudale, quando un modello non risponde più ai nostri bisogni di base, allora è in quel momento che è messo in discussione e viene creata un’alternativa. Però ci tengo anche a ribadire un concetto che avevo già espresso nel mio libro, Breviario del produttore artistico: non siamo tutti artisti. La percezione della democratizzazione dell’arte, perché abbiamo tutti accesso grazie alla tecnologia a certe dinamiche, è scorretta. Rimarrà sempre un’attività per pochi.








