Tony Boy, la recensione di 'Trauma' | Rolling Stone Italia
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Tony Boy vuole flexare i propri traumi

Il 2 gennaio uscirà ‘Trauma’, l’album in cui il rapper mescola paranoie e capi firmati, attacchi di panico e videogiochi. Il contesto: la separazione da una influencer, madre di suo figlio. La recensione

Tony Boy vuole flexare i propri traumi

Tony Boy

Foto: press

È possibile flexare i propri traumi? Possono paranoie, problemi di autostima e attacchi di panico convivere in un racconto vestito con scarpe costose e abiti firmati, tra una canna e un partita ai videogiochi, il tutto in diretta su Instagram? Sì, se a farlo è Tony Boy, il soggetto trap più indecifrabile per chi abbia superato i vent’anni e forse per questo il più interessante. Il rapper padovano esce con un nuovo album, Trauma, il 2 gennaio, a soli sei mesi dal precedente Uforia – a conferma della sua prolificità – ma questa volta senza featuring e col produttore di sempre Wairaki, cultore di un sound cupo e ipnotico pieno degli arpeggi in minore cari al mumble/Soundcloud rap: «Non se ne era mai andato, siamo sempre stati insieme a caccia di beat», ha detto Tony ieri alla presentazione del disco, anche se in mezzo c’è stata la parentesi con Sadturs e Kiid.

Trauma non è un disco ambizioso, si rivolge alla fanbase che già conosce i primi capitoli della sua saga emo trap e che si riconosce nello struggimento emotivo – “stare nel mio cervello è un bel casino” canta Tony – compresso dentro un balletto TikTok da fermo dove si muovono solo le braccia a bilanciere. Questo nuovo episodio vede Tony giovane padre separato a 26 anni dopo una lunga storia, raccontatissima su tutti i social della Gen Z, con una nota influencer, Gaia Bianchi, e già queste note biografiche fanno di lui il più americano dei nostri provincialissimi rapper: non popolarissimo, zero sanremese, sempre in bilico tra entrare e uscire nel fugace pantheon dei ragazzini, scisso tra trap e pop, tra un sé stesso reale e uno virtuale.

La somma – o la sottrazione, guaio a capirlo! – è un un flusso di mumble rap, di parole strascicate, pimpate nel ronzio dell’Auto-Tune, sovrastate dai bassi, che spesso si fa fatica a decifrare, e per questo ripetute ad libitum, tipo mantra, “trauma trauma trauma trauma” canta nel pezzo che apre il disco. Quanto ai testi, a volte si ha la sensazione di essere dentro a un lungo vocale WhatsApp di confessioni tra post adolescenti (“Ho perso tempo a raccontarti i miei problemi / Manca l’aria se non ci sei”), altre dentro a un torpore chimico autoindotto (“Vago dentro il lean”) che non ha perimetri né riferimenti: Generazione X – titolo dell’ultimo brano – non parla del libro di Douglas Coupland, o dei 40/50enni di oggi, ma dei suoi coetanei, che non sanno e forse non vogliono definirsi, o meglio che non accettano che siano gli altri a farlo. Tony Boy, vestito con una sgargiante felpa rosa, dice di essere «uno molto emotivo, che non progetta a tavolino cosa scrivere, ma agisce d’istinto, a flussi di pensiero, facendo emergere così i suoi traumi». Chissà che ne pensa quel boomer di Recalcati, oggi che si fa analisi con ChatGPT – non funzionerà, almeno è gratis! – e la piscosi più diffusa riguarda l’autostima…

Nessuno è Tony Boy, nascosto spesso sotto al cappuccio della felpa, e tutti sono Tony Boy, niente è normale e tutto è normalissimo: su queste apparenti contraddizioni fluttuano le 14 canzoni, un documentario in lingua originale e senza sottotitoli su un ragazzo consapevole del Trauma – personale e generazionale – e della sua incapacità di elaborarlo, venendoci a patti, se non incidendolo su una traccia musicale per un numero imprecisato di volte, e di album. C’è infine un côté romantico, quasi sexy, nell’idea antichissima e universale che non si possa fare buona arte senza sofferenza, non importata se sia vera o artificiale.

Se non fosse chiaro, l’emotività è la cifra di Tony Boy, e Trauma ne è il suo manifesto, forse perché il più carico di pathos a livello musicale, quasi a trascendere e sovrastare le parole, proprio come fanno solitamente alcune delle sue reference d’oltreoceano tipo Lil Wayne e Young Thug. Ed è cosi che finalmente arriva a svelarci la sostanza: non è il significato delle parole, né il racconto, a fare l’album bensì il suono che le parole hanno, le emozioni che tramettono, che sia un pianto o un momento di euforia dopata. E questo non è rap, è una sorta di antitesi, ma poco importa, fondamentale è l’impatto e la caduta su chi ascolta.

Scopro dalla rete, che nulla nasconde soprattutto se di Tony (che è un suo prodotto) si parla, che la mamma del rapper è una bibliotecaria e con lui si comporta come se fosse «una farmacista di libri, per ogni problema c’è un libro che ne contiene la soluzione». A Tony piacciono soprattutto le biografie, una delle ultime che ha letto è sulla vita della rockstar Slash. Forse l’evoluzione è questa: quando le parole per raccontare la propria vita rischiano di perdersi tra le milioni di info da cui siamo bombardati ogni giorno, la soluzione è diventare suono, ipersonico e gommoso, come un mumble rap di Tony Boy.

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