Frankenstein
Guillermo del Toro
Guillermo del Toro è tornato con un melodramma goth fatto della stessa materia di cui è fatto lui stesso. Non un adattamento reverente, ma un classico reso urgente dalla domanda stessa della scrittrice Mary Shelley, autrice del romanzo fonte dell’adattamento: che cosa ci rende umani? La risposta è veicolata attraverso un’opera totalizzante, un mondo intero ricostruito da zero, set montati per intero, favolosi tableaux vivants, scenografie vive che diventano personaggi. E in questo kolossal artigianale, la vittoria è portata a casa da una Creatura umanissima: Jacob Elordi con accento Yorkshire e trucco imponente. Gigante, sullo schermo e, be’, nello scheletro.
L’attachement – La tenerezza
Carine Tardieu
Una grande Valeria Bruni Tedeschi brilla a fianco di Vimala Pons, Pio Marmaï e Raphaël Quenard in questo adattamento by Carine Tardieu del romanzo L’intimité di Alice Ferney. Il suo è il ruolo della donna libera da sempre, femminista e engagée che, per i casi e le tragedie della vita, si dovrà confrontare con una “maternità” imprevista. Protagonista migliore non c’era. L’accoppiata Bruni Tedeschi-Tardieu apre ancora di più questa storia, e ci mette tutti in discussione. Facendoci pure, naturalmente, emozionare.
Weapons
Zach Cregger
Zach Cregger torna dopo Barbarian e conferma di voler lavorare su storie del terrore-orrore alternative, tra l’ossessivo, il magico e gli stilemi classici del genere. All’incrocio di tutto nasce Weapons, che ci ha gelato la stagione estiva e ci ha fatto innamorare, come al solito, di un villain perfetto: la zia Gladys (Amy Madigan), che presto ritroveremo in un prequel a lei dedicato. Per ora, a stregarci è stata questa storia di bimbi sperduti intersecata alla bravura di Julia Garner, nel ruolo della protagonista. E il futuro promette solo che bene.
A Complete Unknown
James Mangold
Oscar mancato per Timothée Chalamet nei panni di Bob Dylan, il quale (cioè l’attore protagonista) impara a suonare e cantare come Mr. Zimmerman e restituisce un’immagine piuttosto in purezza di uno dei maggiori cantautori contemporanei (e premio Nobel, ricordiamolo!). La narrazione della “svolta elettrica” di Dylan procede svelta, complici anche le brave Elle Fanning e Monica Barbaro. Un ottimo riferimento per qualsiasi biopic: hats off to James Mangold.
I peccatori
Ryan Coogler
Il vero film-rivelazione di quest’anno. Con quasi 370 milioni di dollari raccolti al box office internazionale, è entrato nel ristretto olimpo di lungometraggi horror basati su storie originali che possono vantare di aver sbancato. Ha incassato più di Scappa – Get Out (337 milioni di dollari se fosse uscito nel 2025, il dato è aggiustato sull’inflazione), ma meno di A Quiet Place (440 milioni di dollari). «Volevo che questo film fosse un pasto completo: amuse-bouche, antipasto, portata principale e dolce»: così aveva dichiarato Coogler, già conosciuto per aver firmato Black Panther. E la sua storia di vampiri, religione e violenza ambientata a inizio Novecento con protagonista Michael B. Jordan ce l’ha fatta. Con tutto l’eccesso di cui aveva bisogno.
Giovani madri
Jean-Pierre e Luc Dardenne
I fratelli Dardenne sono in splendida forma. E ci regalano un film con pochi eguali nella loro opera, che esplora un distinguo sottile ma sempre più impellente, nel mondo a rotoli di oggi: qual è la sottile linea rossa tra l’essere figlie e l’essere madri? E che cosa succede se una condizione prevarica l’altra anzitempo? Premio per la sceneggiatura all’ultimo Festival di Cannes, è un film che non giudica e non salva, ma semplicemente accompagna le giovani protagoniste nel loro viaggio più difficile. Per i Dardenne è sempre stato questo il gesto davvero radicale: osservare, stare vicino, persino addosso ai personaggi.
After The Hunt – Dopo la caccia
Luca Guadagnino
Nessuno ha la coscienza bianca, nel mondo di Luca Guadagnino. Che all’ultima Mostra di Venezia ha presentato un film (di produzione USA, a differenza dell’italiano Queer: vedi qui) senza sconti sulla verità, su quelli che la Gen Z chiama boundaries (cioè i confini tra pubblico e privato) e, soprattutto, non tanto sul #MeToo ma sulla natura del dibattito #MeToo. Il film colpisce nel segno, anche grazie ai tre pesi massimi scelti per occupare lo schermo: Julia Roberts, Andrew Garfield e Ayo Edebiri. E ci fa venire voglia di non mettere mai piede né in America, né in un’università della Ivy League.
The Ugly Stepsister
Emilie Blichfeldt
Emilie Blichfeldt ha avuto una gran bella intuizione: e se la storia di Cenerentola fosse raccontata dal punto di vista di una delle sorellastre? Ecco The Ugly Stepsister, una fiaba moderna e (body) horror su quanto sia terrificante, nella società occidentale di tutte le epoche, essere bruttini, anzi, bruttine. Uno studio sul rapporto con il corpo, sulle ossessioni, e in ultima analisi anche una storia di coraggio estremo e di masochismo. Racchiusa in una cornice di impostazione quasi teatrale. Che bella scoperta.
Bird
Andrea Arnold
Andrea Arnold non è mai andata per il sottile, quando si trattava di raccontare i grandi dolori e le gioie effimere della classe operaia del suo Paese, il Regno Unito. L’approccio non cambia, ma una vena fiabesca si introduce imprevista, e gradita. Con Franz Rogowski nei panni di un uomo-uccello forse vero forse no, sparring partner salvifico della giovanissima Bailey (Nykiya Adams), impegnata nel lavoro più complesso del mondo: capire chi si è, e collocarsi in tutto questo casino.
Highest 2 Lowest
Spike Lee
Un bravissimo Spike Lee, un eccezionale Denzel Washington. La quinta collaborazione regista-attore è il remake di un classico vero (Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa) ma pure una dichiarazione politica rivolta all’America di oggi (e anche all’industria musicale e cinematografica). Travestendosi da film di genere, pulp-thriller per la precisione. Manca il kick finale per diventare uno dei grandi joint di Spike, ma, ehi, chi siamo noi per non celebrare un grande regista? Spike Lee lo è. E il sottovalutato, quasi invisibile Highest 2 Lowest è un ottimo film, diciamola dritta.
La trama fenicia
Wes Anderson
Grazie a Dio è arrivato La trama fenicia, a farci godere come solo il bel (e buon) cinema di Wes Anderson sa fare. I minuti volano, le risate abbondano, l’assurdo non manca, in una storia che ci riporta alla tenerezza di Moonrise Kingdom e alle sue quest sconclusionate. È Wes Anderson, l’arte per l’arte di cui abbiamo bisogno. Grazie anche all’ottima accoppiata Benicio del Toro-Mia Threapleton, è un bersaglio centrato in pieno.
Bugonia
Yorgos Lanthimos
Il vostro vicino complottista andrebbe rinchiuso in manicomio, o forse siete voi a essere stati blupillati e a non voler vedere la Matrice per quello che è. Bugonia affronta tutto questo, e oppone Jesse Plemons a Emma Stone in una disfida di talenti da manuale. Il nuovo film di Lanthimos tocca tutti noi, e in alcuni piccoli lampi sa unire la grandeur della sua produzione “seconda” alla brutalità veterotestamentaria dei primi lavori “alla greca”. Non un kolossal, ma un film colossalmente rappresentativo del presente. Ci vediamo su Andromeda?
A Real Pain
Jesse Eisenberg
Kieran Culkin did it: la sua interpretazione nell’ultimo film di Jesse Eisenberg gli ha fruttato il suo primo Oscar (come attore non protagonista), e ha fatto gioire sinceramente tutti noi, che tifiamo da sempre per gli underdog e che non vedevamo l’ora di vederlo celebrato oltre il fratello Macaulay (o il fratello di Succession). Il film è una sorpresa estremamente arguta e godibile, tra racconti di Olocausto e devastazioni famigliari da ricucire in una volta sola. E chissà che non possa essere l’inizio di un vero, solido sodalizio artistico Eisenberg e Culkin. Per noi è una ship.
Io sono ancora qui
Walter Salles
In Brasile, Fernanda Torres era già monumento nazionale. Per far svegliare il resto del mondo c’è voluto il film di Walter Salles, poi vincitore dell’Oscar come migliore film internazionale. Che riesce in un’impresa molte volte tentata e altrettante fallita (da altri): unire il ritratto di una grande protagonista a quello di tutta una nazione. La violenza politica serpeggia, delle vicende del Brasile potremmo non sapere nulla e comunque ne saremo toccati, le comprenderemo nell’intimo. È la magia delle grandi storie, da vedere e rivedere.
La voce di Hind Rajab
Kaouther Ben Hania
Il film di Kaouther Ben Hania ha scioccato il mondo e tinto di nero il tappeto rosso di Venezia 82. Il 29 gennaio 2024, una bambina di sei anni, Hind Rajab, rimase intrappolata in un’auto crivellata da 355 proiettili dell’IDF a Gaza, circondata dai cadaveri dei suoi familiari, mentre i volontari tentavano invano di salvarla. La storia è quella, senza mezzi termini, della sua morte. Raccontata con il devastante stratagemma emotivo di una conversazione telefonica in tempo reale, che il pubblico dovrà patire in sala per tutta la durata del film. Se qualcuno avesse avuto dubbi sulla gravità del conflitto tra Hamas e Israele, questa è l’opera che non lascia spazio a malintesi. Diventando un polso inaudito per la gravità storica del momento presente.
Aragoste a Manhattan
Alonso Ruizpalacios
Correte a vedere Aragoste a Manhattan (La cocinain originale), per la miseria, vi dicevamo questo giugno. E vi ridiciamo di vedervelo in qualche modo, perché il film del messicano Ruizpalacios (Güeros, A Cop Movie, Museo – Folle rapina a Città del Messico: tutti da recuperare) passa dal cibo e da uno dei suoi luoghi, una sgangherata tavola calda per turisti di Manhattan, per raccontare l’oggi in punta di macchina da presa. Affondando il colpo in temi come l’immigrazione, la maternità, la libertà di autodeterminazione. E facendo tirare a tutti noi spettatori affranti un sospirone di sollievo: ah, ma allora il cinema qualcuno ancora lo sa fare!
Emilia Pérez
Jacques Audiard
A un passo dal podio mettiamo Emilia Pérez, il “film narco” di quel profeta di Jacques Audiard. Che si ibrida con il musical, il melodramma, la telenovela e l’opera lirica. E che è, in un certo senso, tutto quello che si chiede oggi al cinema perché possa restare vivo. Zoe Saldaña trionfa agli Oscar come miglior attrice non protagonista con grande merito, Selena Gomez si rivela per la brava attrice che è veramente, e nemmeno la vicendaccia dei tweet di Karla Sofía Gascón oscura (ma come potrebbe?) la prova di forza fuori dal comune di Audiard & Co. (vedi anche le musiche e le canzoni di Clément Ducol e Camille). Bravò!
The Brutalist
Brady Corbet
Sì, The Brutalist, in Italia, è uscito nel 2025. Ed è con il film(one) di Brady Corbet che apriamo il nostro podio per l’anno appena passato. Per Adrien Brody (secondo Oscar da lead), naturalmente, ma anche per la dichiarazione estremamente politica che l’autore porta sullo schermo, nell’approccio al filmmaking prima ancora che nella storia. Che infatti è stata letta da ognuno un po’ come voleva, fino ad arrivare all’apologia di antisemitismo. Non è quello il punto e non lo sarà mai, per Corbet. Che è uno di quelli che oggi, il cinema, lo prendono ancora sul serio, e che lo vogliono rigorosamente artigianale e il più possibile indipendente.
Un semplice incidente
Jafar Panahi
Il nuovo capolavoro di uno dei massimi registi viventi, pure certificato (se mai servisse) dalla Palma d’oro vinta all’ultimo Festival di Cannes, ha molto di kafkiano e pochissimo di europeo. La trama di un castigo che non si spiega è tratta dall’esperienza reale e dolorosa del regista, perseguitato e arrestato dal regime iraniano con l’accusa di mettere in cattiva luce il suo stesso Paese. Comincia così: un uomo in auto con la sua famiglia mette sotto un cane randagio; si ferma a un’officina e il meccanico riconosce in lui il suo torturatore al tempo di quand’era in prigione, detenuto dal regime. Lì comincia l’architettura di una vendetta che porterà a… Ma che, ve lo diciamo noi? Non pensate sarebbe meglio vedere da voi il secondo film migliore dell’anno?
Una battaglia dopo l’altra
Paul Thomas Anderson
Il film dell’anno, forse del decennio. Paul Thomas Anderson firma un’opera incendiaria e irresistibile. Tra rivoluzione e melodramma famigliare, satira e tragedia, tra spavento e divertimento. Tra l’essere galvanizzati e disarmati. E che trasforma il caos del presente in Cinema puro, complice un cast che definire stellare sarebbe riduttivo: Leo DiCaprio, Sean Penn, Benicio del Toro, Teyana Taylor e la rivelazione Chase Infiniti. Senza mai diventare un pamphlet, Una battaglia dopo l’altra si rivela radicalissimo: se Il petroliere era una tragedia americana, se The Master era un duello filosofico, se Licorice Pizza era una lettera d’amore adolescenziale, qui c’è tutto, tutto insieme: manifesto, farsa, melodramma, satira, epopea familiare, tragedia contemporanea. God bless PTA.













