Mi viene in mente una cosa pazza. In questi giorni circolano nuove foto dell’incontro tra i Pink Floyd e Syd Barrett agli Abbey Road, durante le registrazioni di Wish You Were Here. Si è sempre creduto che quella di Syd fosse stata un’apparizione estemporanea. Si era come materializzato, aveva scioccato tutti per la trasformazione a cui era andato incontro, da giovane bello e carismatico a uomo grasso e calvo, e poi, così come era arrivato, era svanito lasciando tutti amareggiati e con molti sensi di colpa. Adesso si scopre che in realtà Barrett si è fermato in studio, forse ci è tornato più volte. Così mi viene in mente una cosa: se i Pink Floyd avessero mentito su alcune fasi della loro storia? Se Syd, invece di sparire dai radar come hanno sempre dato a intendere, fosse rimasto a fare da mentore/consigliere? Del resto, quando era andato fuori di testa, Waters e gli altri avevano pensato di confinarlo al ruolo di autore dietro le quinte, lasciando alla band le incisioni e i concerti. Le quattro note di chitarra più famose del mondo, quelle della Part 2 di Shine On You Crazy Diamond, si chiamano Syd’s Theme. E se questo tema non fosse dedicato a Syd, ma fosse di Syd? Chiaramente è solo una fantasia, ma non è un segreto che la presenza di Barrett aleggi ovunque in Wish You Were Here.
Si pensava che il box Immersion del 2011 avesse messo sul piatto tutto il materiale disponibile relativi al disco del 1975, ma ci sbagliavamo. Per il cinquantesimo anniversario stanno per uscire provini inediti, si è messo mano a un bootleg e si è remixato il disco in stereo e Atmos. Per non parlare della confezione deluxe, con tutti i gadget e memorabilia del caso: un libro con foto inedite, una riproduzione del tour programme, un poster del concerto di Knebworth, una replica del singolo giapponese di Have a Cigar. Ma tutto ’sto bendidio ci dice qualcosa che non sapevamo su Wish You Were Here? Forse no, ma a ben guardare (ascoltare), è come se mettesse maggiormente a fuoco uno dei momenti topici della storia dei Pink Floyd.
Wish You Were Here è l’ultimo disco dei Pink Floyd intesi come band compatta. Poi ci saranno quelli a dittatura Waters, in seguito (ahimè…) quelli a dittatura Gilmour. Il gruppo come entità a quattro teste smette di esistere con l’album che segue il mastodontico The Dark Side Of The Moon, opera di capitale importanza nella storia del rock nonché smisurato successo che ancora oggi fa sentire la sua eco. A seguito di tali consensi la band intasca fiumi di danaro e si chiude in sé. Come muoversi dopo un exploit del genere? Waters ha un’idea: fanculo a tutto, facciamo quello che nessuno ha mai fatto prima, un album che sfrutti unicamente i suoni di utensili da cucina. Il gruppo se ne frega di bissare un successo pazzesco e sceglie la strada della sperimentazione dura e pura. Tornando a quanto detto sopra, magari un giorno scopriremo che era una pensata di Syd.
Dopo qualche settimana però i quattro si stufano. Cercare di tirare fuori musiche interessanti usando pentole e forchette è arduo, forse è meglio dare retta a quelli della EMI, che già temono il peggio: si faccia un altro disco “vero”, che bissi (e magari surclassi) il successo di quello col prisma in copertina. Marcia indietro, quindi. Le file si ricompattano e i Pink Floyd sono più Pink Floyd che mai. Wish You Were Here è infatti l’emblema del suono dei Pink Floyd. Come se avessero deciso di compilare un catalogo di tutto ciò che li caratterizzava, anche più di Dark Side. Chiaro, anche quello è un perfetto beverone di succo Floyd, ma Wish lo è anche di più. Meno tormentato, più arioso, atmosferico, languido, maestoso. Senza però esagerare, tutto è misurato, rarefatto. È l’opera che tutti aspettano, con ciò che i fan dell’ultima ora (quelli dell’era psichedelica storcono il naso già da tempo) amano: musica sulle ali di un sogno, con grandi tappeti di tastiere sui quali si muove la chitarra malinconica di Gilmour e gli ancora più malinconici testi. È un disco di commiato che riunisce per l’ultima volta quattro teste che creano insieme proprio quando sembra che le idee scarseggino, che la passione sia finita, che cavalcare la tigre abbia fagocitato ogni desiderio di mettersi in gioco.
Mentre tutti si godono la ricchezza, il compagno Waters si sente in colpa. I Money hanno vinto, portano felicità ma anche problemi, ti allontanano dal mondo reale. Ecco quindi la sensazione di vuoto che il bassista avverte e che riversa in testi che parlano dell’assenza (vera o presunta) di Syd, dell’assenza di umanità nella tecnologia e nell’industria discografica. Tanto era empatico il testo di Echoes (“And I am you and what I see is me”), quanto è disillusa la materia poetica di Wish You Were Here. Ma queste sono tutte cose che già si sapevano, non c’era bisogno di aspettare il mezzo secolo per ricordarle. Però lo scavo tra le sessioni, il concerto alla Los Angeles Sports Arena del 26 aprile del 1975 (ottimamente rivitalizzato dal sempre più tentacolare Steven Wilson) e i remix, un po’ di stimoli nuovi li mettono in campo.
Detto che l’ennesimo remaster del disco originario non aggiunge nulla a un suono che era già perfetto (anche se la registrazione della batteria, a mio personale gusto, non è mai stata perfetta), c’è da capire cosa dei Floyd 1975 ancora sfuggiva. Che una delle composizioni con gli oggetti casalinghi (bicchieri colmi a diverse altezze per creare armonie fatti risuonare con le dita) fosse stata utilizzata per la Part 1 di Shine On You Crazy Diamond lo avevamo scoperto con la Immersion. Ed è svelato il giochetto: a ogni anniversario esce un cofanetto con materiale già pubblicato più gocce di inediti. Al 60esimo ne spunteranno altri. E va bene, in qualche modo i dischi si devono vendere. In più adesso sappiamo che nei demo di Waters Welcome to the Machine era già quasi definita, ma l’ausilio degli altri l’aveva rimpolpata a livello sonoro e aggiunto cambi di tempo (dai 4/4 del cantato ai 6/8 dello strumentale). La voce tesa del chitarrista aveva inoltre preso il posto di quella cavernosa del bassista. C’è Shine On You Crazy Diamond senza Part 1 e 9, senza assoli e senza voci che ne mettono in luce le texture di tastiere e il corposo basso (sarà Waters o Gilmour? Per il tocco e l’essenzialità propenderei per il primo).
Wish You Were Here (la canzone), poi, è presente nella versione con Stéphane Grappelli, già nell’Immersion, che in fondo era stato giusto cassare. Anche se il violinista era un mostro di bravura il suo strumento distrae. Il brano va bene così, spoglio, essenziale. In aggiunta ci sono le versioni inedite con pedal steel guitar in evidenza, con sezioni poi tagliate e le parti vocali ancora da sistemare. Sono i Floyd semi-acustici, quelli che da Cirrus Minor a Fearless hanno svelato la parte più delicata (ma non esente da inquietudini) della loro proposta. C’è Have a Cigar cantata da Waters e si capisce quanto sia stato giusto affidarla a Roy Harper. Non che Roger non ce la facesse, ma Harper gli ha dato quel non so che in più, quel tono cinico che serviva per impersonare uno spietato discografico.
Altra cosa è ascoltare i nostri suonare dal vivo qualche mese prima che Wish fosse pubblicato. Qui ci si si rende conto che i Pink Floyd se ne fregavano bellamente di rifare in concerto paro paro le parti dei dischi. Ci sono Raving and Drooling e You’ve Got to Be Crazy (che poi saranno Sheep e Dogs su Animals) e una Shine On You Crazy Diamond ancora da sistemare, con parti di chitarra che appaiono dove non devono e viceversa (ma va bene così, era ancora un work in progress), con Waters che a tratti stona, Gilmour che canta di par suo ma non eccelle e un Mason assai più nervoso che su disco. Infine Richard Wright: il suono Floyd poggia quasi tutto su di lui. Dark Side dal vivo ha diverse parti improvvisate, e sul bis di Echoes ci piazzano il sassofono di Dick Parry, che è una vera eresia. Il tutto per dire che oggi un gruppo che ha venduto milioni di copie, ma dal vivo è così traballante non avrebbe storia. Ma li si ama anche perché erano così: sporchi, slabbrati, disinteressati alla resa perfettina. Recentemente Mason ha dichiarato che la resa live dei Pink Floyd è migliorata dopo che Waters se ne è andato. Certo, col click, le backing tracks e un esercito di chitarre, tastiere e percussioni è facile ottenere un suono pulito. Ma ai veri Floyd quella levigatezza non apparteneva e il live di Los Angeles li mostra nella loro versione più viva e irregolare.
Dal mio punto di vista la cosa più bella del cofanetto è un remix (a cura di James Guthrie) di Shine On You Crazy Diamond. La suite risplende in tutta la sua bellezza in un collage che mette insieme tutte le nove parti per un totale di oltre 25 minuti. Il remix dà più enfasi alle parti vocali e agli interventi solisti di Gilmour e Wright, la batteria suona meglio, il tutto è più compatto. Non che l’originale non lo fosse, ma qui tutto è maggiormente definito. E ben vengano certe operazioni di remix se mettono in luce sfumature inedite e rendono ancora più comprensibile ciò che in alcune registrazioni anni ’70 (non solo dei Floyd) era un po’ offuscato. Rispetto alle altre suite – Atom Heart Mother, grandemente frastagliata e sinfonica, ed Echoes a viaggiare nello spazio – Shine si addentra nella nostalgia e la trasforma in suono, con il finale da brividi della Part 9, in cui il minimoog di Richard Wright riprende frammenti di See Emily Play. Ecco che infine tutto torna, tutto si ricompone.














