Niente spettatori inseguiti per la sala, niente provocazioni (anche personali) ai presenti, giusto alcune bricioline di ansia e adrenalina. Alcuni degli spettatori attratti dalla fama della storica compagnia catalana o presenti a spettacoli passati sono usciti spiazzati da SONS, il nuovo spettacolo della Fura Dels Baus che ha iniziato le sue rappresentazioni italiane venerdì 28 novembre a Milano.
Questo non significa che gli attori si siano risparmiati fisicamente, anzi: hanno lottato a colpi di bottiglioni di plastica, hanno volteggiato sospesi sugli spettatori, si sono arrampicati su piloni d’acciaio, hanno strisciato infangati in mezzo al salone della Fabbrica Del Vapore, sono persino corsi fuori dal teatro, inseguiti dalle telecamere e proiettati in tempo reale sulle pareti, per imbucarsi rapidamente a una festa in una struttura vicina.
Ma il coinvolgimento “immersivo” del pubblico si è rivelato molto contenuto, e limitato a qualche carezza fangosa ad alcuni spettatori e a un po’ d’acqua spruzzata/sputata (nebulizzata?) da un paio di performer. Se volete assistere ma non rischiare nemmeno di essere guardati negli occhi dagli attori – alla fine, è un vostro diritto – basta stare vicini alle pareti, è come un segnale convenuto.
Forse non dovrebbe essere questo il punto da cui partire nel parlare di una rappresentazione teatrale. E tuttavia se un gruppo storico, famoso per il senso di minaccia – anche fisica – della sua proposta decide di fare un passo in una direzione meno aggressiva e più filosofica, viene da farsi qualche domanda, anche perché la fama della Fura è pur sempre quella.
Dato che il 66enne Carlus Padrissa, fondatore della compagnia, è un estimatore degli Einstürzende Neubauten, proviamo a fare un paragone rock’n’roll. Perché viene in mente quando tanti anni fa i Led Zeppelin, che si stavano facendo una reputazione come gruppo hard rock e blues, pubblicarono un album che a quanto pare i loro ascoltatori dell’epoca ritennero troppo acustico e folk (Led Zeppelin III, 1970).
Probabilmente anche i Led Zeppelin, tantissimi anni fa, avrebbero potuto fare proprio uno dei messaggi centrali di SONS, ovvero un’invettiva contro ogni Comfort Zone che arriva a metà spettacolo come una parentesi non strettamente legata al resto della rappresentazione – che è invece costruita sull’Amleto di Shakespeare (come esplicitato anche dal sottotitolo, Ser o no ser). Potrebbe essere proprio ciò che Padrissa e i suoi coautori hanno cercato di fare: uscire dalla comfort zone di far uscire il pubblico dalla propria comfort zone. E magari, provare ad accreditarsi presso una parte di critica teatrale vecchia scuola, che non gli riconosce serietà.
Ma sono nostre congetture, forse la spiegazione è più prosaica: oggi alcune cose underground in auge nei decenni scorsi non si possono più fare, nemmeno tra adulti relativamente consenzienti. È un attimo, che qualcuno ti trascini in tribunale perché gli hai causato un attacco di panico, o sporcato le scarpe, o attaccato il Covid.
Quel che pare di poter dire, comunque, è che SONS non stupisce il borghese. In compenso si sobbarca il mai semplice compito di metterlo a confronto con la vita e la morte, sostenendo l’attualità del più classico dei personaggi del teatro mondiale. Ovvero il principe di Danimarca Amleto, pensato più di quattrocento anni fa da un vulcanico inglese.
In SONS, Amleto è inserito in un mondo cyberpunk piagato da virus e penuria di risorse vitali che, a ben guardare, è semplicemente questo mondo. Con lui ci sono altri emblematici defunti del dramma shakespeariano, come Ofelia o il buffone Yorick (o quel che ne rimane). E malgrado i citati momenti di iperfisicità, il momento cruciale dello spettacolo resta il fatidico monologo dell’Atto III, scena prima, dell’originale di quattro secoli fa: “Essere, o non essere?”.
Padrissa prima della “prima” ci ha riferito che anche oggi, anzi, “Soprattutto oggi, questo è il dilemma. Essere è difficile, implica lottare per la vita; non essere comporta rinunciare, ma in fondo anche accettare il mondo”. La differenza, sottolineano sia Amleto che un componente della compagnia che fa da interlocutore con il pubblico, la fanno le nostre aspettative su quanto possa capitare “nel sonno della morte”: sogni, incubi, oppure niente del tutto.
Ed è suggestivo pensare che a fine spettacolo anche gli spettatori di SONS, confrontandosi con le proprie aspettative, si interroghino su cosa hanno visto: un incubo, o un sogno, o niente del tutto. Evidentemente, dopo quanto abbiamo scritto fin qui, riteniamo che quest’ultima sia una tesi un po’ estrema. Ma proprio perché estrema, ha una certa componente “furista”, quindi è anche lei perfettamente accettabile.













