Aerosmith e Yungblud, la recensione di ‘One More Time’ | Rolling Stone Italia
Chiodi

Che disastro il dischetto degli Aerosmith con Yungblud

Le cinque canzoni dell’EP ‘One More Time’ danno ragione a Justin Hawkins che parlava di «rock visto attraverso un filtro di Instagram». Se Steven Tyler e Joe Perry hanno ‘Nine Lives’, questa deve essere la decima

Che disastro il dischetto degli Aerosmith con Yungblud

Steven Tyler, Joe Perry e Yungblud

Foto: Ross Halfin

Avete presente la reazione sdegnata della Pina e della signorina Silvani di fronte alla pesca miracolosa di Fantozzi e Filini sulle rive del “paradiso terrestre” in cui li ha portati Franchino? Ecco, è stata più o meno così la reazione della comunità rock/hard/metal di fronte alla notizia della collaborazione tra Aerosmith e Yungblud. Ancora prima dell’uscita del primo singolo, in molti hanno bollato l’operazione come schifosamente commerciale, quasi uno scandalo, una svendita della legacy della band di Boston a favore di chi è percepito come un prodotto più per TikTok che per qualche club malfamato. Club che però, va detto, pure i Toxic Twins Steven Tyler e Joe Perry non frequentano da decenni. I social si sono riempiti dei peggiori insulti immaginabili e c’è chi se l’è presa persino con il povero Ozzy Osbourne, reo di aver parlato di Yungblud come del nuovo alfiere di un certo immaginario.

Dopo la performance agli ultimi MTV Video Music Awards, che aveva visto insieme proprio Aerosmith e Yungblud, Dan Hawkins dei Darkness non era andato per il sottile, definendo lo show una vera merda, «un altro chiodo sulla bara del rock’n’roll». Il fratello Justin ha poi spiegato che «è rock’n’roll, ma non come lo conosciamo noi. Sopra c’è una sorta di patina Disney, come se fosse rock’n’roll visto attraverso un filtro di Instagram». Se la storia del rock ci ha insegnato qualcosa, però, è che certi matrimoni artistici fanno storcere il naso oggi per diventare cult domani. Gli Aerosmith ne sanno qualcosa: la loro partnership con i Run-D.M.C. a metà anni ’80 venne accolta come una bestemmia, un’eresia per entrambi i mondi, eppure quella versione di Walk This Way oggi è un monumento rock e rap e ha cambiato per sempre le regole del gioco.

Tornando all’immagine fantozziana iniziale e al netto dei gusti personali («Ad ogni modo, a me la frittura di pesce ratto piace da morire»), come sono dunque le cinque canzoni One More Time? I preconcetti si sono trasformati in premonizioni. L’EP è saturo di produzione digitale, l’effetto sulle voci è così onnipresente che quella di Tyler (sicuramente ritoccata) sugli acuti finisce per sembrare parodistica, mentre quella di Yungblud sembra diventare quella di Tyler. Forse un espediente inconscio per avvalorare la teoria del passaggio di consegne tra vecchi e nuovi teen idol? Peccato perché dal vivo, proprio al commovente addio alle scene di Ozzy, i due avevano rappresentato le sorprese più grandi. Senza contare il fatto che si tratta della prima registrazione a nome Aerosmith dai tempi dello sfortunato Music from Another Dimension! datato 2012 e che Tyler ha annunciato il ritiro a causa dei problemi alle corde vocali. Dunque, le aspettative erano piuttosto alte. Purtoppo, la gioia immensa di risentirlo cantare dura poco in un lavoro così plasticoso che ti chiedi se qualcuno ci abbia suonato davvero. A onor del vero, anche negli ultimi album dello stesso Ozzy era evidente che la voce era supportata dalla tecnologia, ma tutto il resto era suonatissimo e, soprattutto, le canzoni erano buone, spesso ottime. Qui è proprio il songwriting a non reggere il peso di tanto hype.

Fa male al cuore dirlo, ma se gli Aerosmith hanno davvero avuto nove vite, questa, iniziata ahimè col lontanissimo Just Push Play, è quella dove non sanno più scrivere canzoni e dove nemmeno trovano più autori in grado di farlo (cosa in cui sono sempre stati eccelsi). My Only Angel è ruffiana, con un ritornello decisamente Aerosmith, ma è dannatamente ripetitiva. Non ne faccio una questione di paraculaggine, il gruppo è paraculo da decenni, ma prima le canzoni, sia le ballate che quelle ad alto voltaggio, erano fighe, ora ti stancano dopo un paio di minuti. L’esempio più lampante è forse Wild Woman, che parte anche bene col suo incedere un po’ alla Stones e poi si trasforma in una specie di Wanted Dead or Alive dei Bon Jovi, spalmato di pop-rock da playlist per palestre style rock. Il duetto che sulla carta poteva promettere bagliori intergenerazionali si riduce spesso a una gara di chi riesce a mimetizzarsi meglio nell’universo sonoro dell’altro, senza mai centrare il bersaglio né inventare qualcosa di nuovo.

La parte centrale di Problems è la prima cosa che mi ha fatto sobbalzare, con quel gusto quasi primi Guns, quindi decisamente vecchi Aerosmith, che però è preceduta e seguita da strofe decisamente piatte. Insieme alla semi-ballad A Thousand Day, decisamente a fuoco e unico indizio su cosa poteva essere questa collaborazione, restano gli unici bagliori nella notte. Se a questo avessero aggiunto la versione acustica di My Only Angel con Steve Martin al banjo, forse avremmo potuto augurarci di ascoltare un vero e proprio album dopo questo EP. Peccato che quella versione non sia nella tracklist, ma sia uscita solo come alternativa all’originale accompagnata da un video in studio.

Il compromesso di Aerosmith e Yungblud non scuote né la storia del rock, né le abitudini dei nuovi ascoltatori. Le leggende che nascono per caso o fra mille polemiche diventano immortali solo quando riescono a suonare vere, fuori dal tempo e dalle mode. Questa, invece, è un’occasione mancata, dove il peggio delle paure iniziali si è realizzato. A chiudere paradossalmente la questione sono i commenti esageratamente entusiasti sotto ogni brano caricato su YouTube. Forse hanno ragione loro e gli sbandati hanno definitivamente perso.