C’è una scena bella potente alla fine della docuserie sui Beatles Anthology, quando George Harrison riflette sul futuro della band. «I Beatles andranno avanti all’infinito», prevede. «In quei dischi e in quei film, nei video e nei libri, nei ricordi e nella testa della gente. I Beatles ormai sono diventati una cosa a sé. I Beatles esistono anche senza di noi». Sorride e cita un verso del vecchio amico John Lennon: “Play the game existence to the end of the beginning, tomorrow never knows”.
Aveva ragione. Le sue parole, dette nei primi anni ’90, sono una profezia perfetta per riassumere l’importanza dei Beatles. Nessuno negli anni ’60 poteva immaginare quanto sarebbero stati enormi i Fab Four nei ’90. Allo stesso modo nessuno nei ’90 poteva prevedere loro grandezza nel 2025. Anthology è uscita come miniserie televisiva nel novembre 1995 ed è stato il picco di una celebrazione globale che comprendeva tre album antologici finiti ai vertici delle classifiche e un libro illustrato. Oggi siamo lontani dalla Anthology originale tanto quanto la Anthology lo era da Rubber Soul o da Revolver, eppure la musica dei quattro è ancora vitale e influente. Tomorrow never knows, davvero.
La Beatles Anthology torna oggi su Disney+, con tre episodi resi disponibili al giorno. È stata restaurata digitalmente e arricchita dal team della WingNut Films di Peter Jackson che hanno usato la stessa tecnologia impiegata per Get Back. Giles Martin ha rimasterizzato la musica e prodotto la nuova Anthology 4. C’è anche un nuovo, emozionante e intenso episodio, il numero 9, incentrato sull’incontro negli anni ’90 dei tre membri per lavorare al progetto.
Era e resta il documentario più autorevole sui Beatles che vengono raccontati attraverso le loro stesse parole. Ieri era innovativo e oggi è ancora interessante proprio perché ci sono solo loro. Nessun narratore, niente esperto, zero testimonianze di celebrità. Solo Paul McCartney, Ringo Starr, George Harrison, più interviste d’archivio di John Lennon. Descrive bene la follia di una band di ragazzi che hanno segnato un decennio. Come mi dice il regista del nono episodio Oliver Murray, «mi ha sconvolto realizzare che George aveva 24 anni ai tempi di Sgt. Pepper. Io a 24 anni probabilmente ero lì che cercavo di ricavare un bong da una patata».
Ci è voluto del tempo prima che gli ex Beatles si decidessero a ritrovarsi per la Anthology un quarto di secolo dopo la fine burrascosa della band e a raccontare la storia della loro amicizia long and winding. «È stato un gesto coraggioso», dice oggi Giles Martin. «È stata una sorpresa per tutti, loro compresi, e una catarsi per tanti. Credo si fossero dimenticati com’era, perché da quando si erano sciolti era volato parecchio fango. È stato un po’ come ritrovare un vecchio album, guardare le foto, rendersi conto che in realtà avevi un rapporto incredibile con quelle persone».
Anthology ha rappresentato uno scossone culturale. Ha definito i Beatles per come li conosciamo adesso e cioè non come un evento accaduto negli anni ’60, ma come un fenomeno in corso, che continua a crescere e ad evolversi. Nel nono episodio i membri sopravvissuti confessano che neppure loro sanno spiegare l’incredibile vita postuma della band e sono sinceramente colpiti da quanto il mondo li ama. «Essendo successa 30 anni fa, sta diventando una cosa leggendaria», dice Paul. «Un po’ troppo leggendaria per i nostri gusti, perché noi la stiamo ancora vivendo».
Il progetto Anthology ha salvato i Beatles dagli anni ’60. Per troppo tempo, la loro storia è stata ammantata da un nauseante senso di nostalgia, una fiaba dei bei tempi andati. Ai tempi c’era una nuova generazione di fan troppo giovani per essere nostalgici o per considerare quella musica una cosa del passato e questo perché i Beatles erano più vibranti, influenti e stimolanti che mai, non solo nel rock. Come ha detto Raekwon del Wu-Tang Clan, «sono senza tempo e fanno cose senza tempo».
All’epoca tutti si aspettavano di amare Anthology, ma non così tanto. Era (ed è) una gioia da guardare, che ti capiti di vedere la serie per caso o che ti spari tutte le dieci ore di fila. Contiene tantissime storie. E tante risate. Ha trasformato fan occasionali in fanatici. I tre album contenenti outtake, demo, esecuzioni sbilenche dal vivo e chiacchiere in studio avuto successo in tempi in cui la gente pagava ancora per comprare musica. Non è un caso che il 1997 sia stato uno dei migliori anni di sempre per gli album rock: le band hanno cominciato a fare dischi sotto l’incantesimo della Anthology.

Foto: Apple Corps Ltd
La serie aveva però un gran bisogno di un aggiornamento di tipo tecnico. La maggior parte dei fan probabilmente non la guarda da anni, essendo disponibile solo su vecchie VHS e DVD dove il materiale d’archivio appare sempre più logoro col tempo. La nuova versione è scaturita dal progetto Get Back, quando Jackson e il suo team hanno preso ore di filmati che si pensava inutilizzabili e li hanno ripuliti. Martin dice che «la Anthology deriva da Get Back. Sono stati Peter Jackson e il team a dire: “Forse dovremmo pensare a rifare Anthology 30 anni dopo”». Martin ha usato la stessa tecnologia di demixaggio per la musica. Il famoso concerto allo Shea Stadium, con la musica soffocata dalle urla di 56 mila fan, ora suona sorprendentemente bene. «Mi piacerebbe dire “Suona come se tu fossi lì”, ma ovviamente se fossi stato lì, non avresti sentito nulla».
Per Martin è la chiusura di un cerchio. Era l’apprendista adolescente del padre ai tempi della prima Anthology. «La prima volta che ho messo piede ad Abbey Road con mio padre è stato proprio per la Anthology. Ho ascoltato i nastri dei Beatles per la prima volta e sono rimasto come ipnotizzato. Non riuscivo a credere a quanto fossero belli, ricordo A Day in the Life su un nastro a quattro piste, riprodotto in quella stanza. È una cosa che mi tocca particolarmente perché da allora la mia ambizione in tutto ciò che ho fatto coi Beatles è stato ricatturare quella sensazione».
In un certo senso è stato il braccio destro della band Neil Aspinall a dare il via al progetto Anthology nel 1970, assemblando filmati in un documentario che intendeva chiamare The Long and Winding Road. Ma all’epoca l’ultima cosa che gli ex Beatles volevano era rivisitare il passato. «Eravamo in stato di guerra», dice Paul nell’ultimo episodio. George gli siede accanto e aggiunge: «Non dialogavamo granché» (tranne che in canzoni come Sue Me Sue You Blues, How Do You Sleep?, Dear Friend, Early 1970, God e in altre soliste in cui si prendevano vicendevolmente di mira). Il tempo ha rimarginato le ferite e quando John e Yoko si sono separati momentaneamente, lei ha mandato Paul a Los Angeles per dargli consigli su come riconquistarla. George, Paul e Ringo hanno suonato insieme al matrimonio di Eric Clapton nel 1979 (John era incazzato per non essere stato invitato).
Sembra assurdo, ma non c’è stato un solo momento dopo il 1969 in cui tutti e quattro i Beatles si sono ritrovati nella stessa stanza. Pensavano di avere tempo. Non l’hanno avuto. E il sogno di una reunion, privata o pubblica, è svanito nel dicembre 1980 con la morte di John. Nel 1991 i registi britannici Bob Smeaton e Geoff Wonfor hanno iniziato a trasformare il film accantonato da Aspinall in qualcosa di nuovo, coi Beatles sopravvissuti finalmente pronti a raccontare la loro versione della storia.
«Ogni tanto George e Paul cenavano assieme», dice Martin. «Sicuramente erano in contatto. E questo è ciò che la gente non capisce, pensa siano stati lontani per tutti quegli anni. Detto questo, fare la Anthology era un altro paio di maniche perché si trattava di mettersi alla pari. Si vede che era qualcosa che li appassionava perché, come hanno sempre detto, solo quattro persone al mondo sapevano cosa significava essere un Beatle».
C’erano ancora dei conflitti, certo in fondo erano passati solo un paio d’anni da quando Paul aveva boicottato la cerimonia d’ingresso nella Rock and Roll Hall of Fame a causa di dispute di tipo economico. Il documentario è stato intitolato Anthology invece di The Long and Winding Road perché George non sopportava di chiamarlo come una canzone di Paul. E Yoko l’ha guardato col cronometro in mano per misurare quanto tempo sullo schermo fosse dedicato a Paul e quanto a John. Eppure c’era ancora un legame indissolubile. «Una volta superati i problemi legati agli affari» spiega Ringo nel film «abbiamo capito che forse potevamo provare a raccontare la storia definitiva dei Beatles. Visto che altri ci avevano provato, abbiamo pensato che poteva essere bello raccontarla dall’interno invece che dall’esterno. Avete sentito questa storia dagli altri, ora la sentirete da noi».
Il nono episodio mostra i Threatles che si ritrovano nei ’90 per lavorare ad Anthology e finire alcuni brani incompiuti di John. Free As a Bird, Real Love e Now and Then erano demo casalinghi registrati al Dakota alla fine degli anni ’70 su una cassetta che Yoko ha dato ai tre. «È stato emozionante ascoltare quel nastro per la prima volta», dice Paul. «Ho avvisato a Ringo: “Tieni pronto il fazzoletto”. È emozionante sentire il nostro vecchio amico cantare questa piccola canzone».
Hanno finito Free As a Bird e Real Love, diventati poi singoli di successo, ma non Now and Then. Gli altri due e il produttore Jeff Lynne non condividevano l’entusiasmo di Paul per il pezzo. Nessuno riusciva neppure a capire cosa ci sentisse, ma con la tenacia tipica del Macca più cocciuto non ha mollato. «Con chiunque altro sarebbe stata la fine», ammette, «ma non coi i Beatles. C’è sempre una sorpresa dietro l’angolo. Quel pezzo potrebbe non sparire». Aveva ragione. Decenni dopo, ha trasformato quella bozza nella canzone dei Beatles che aveva sempre saputo meritava di diventare, un tributo sentito al vecchio amico. Now and Then è l’ultimo brano della band, un successo mondiale nel 2023.

Paul, George e Ringo a Friar Park negli anni ’90. Foto: Apple Corps Ltd
L’episodio 9 si chiude con la stessa scena emozionante dell’Anthology originale: George, Paul e Ringo seduti in un campo che strimpellano chitarre e cantano sotto il sole. «È stata una bella giornata, ragazzi», dice Ringo. Gli altri due rispondono facendo dello spirito, ma Ringo è assolutamente sincero, non c’è ironia. «È stato molto bello e toccante. Mi piace passare il tempo con voi due».
È ancora più toccante oggi vederli suonare la chitarra nel sole di quella bella giornata, sul prato della tenuta di Friar Park di George. Magari pensavano che lo avrebbero rifatto ogni dieci anni per il resto della vita. Non potevano sapere che solo qualche anno dopo George sarebbe stato aggredito e quasi ucciso da un intruso entrato a casa sua, non lontano dal punto in cui sono seduti. E che solo due anni dopo, nel 2001, Harrison sarebbe morto di cancro ad appena 58 anni.
«L’idea era offrire un nuovo livello di riflessione col nono episodio», spiega Oliver Murray. «È diverso dagli altri perché è stato realizzato dopo. È una coda. Volevo mostrare come si sentivano ad essere stati i Beatles. Quant’era costato essere un Beatle? C’è della malinconia a tratti». La loro storia condivisa sembra ancora dolorosa vista così. «È una conversazione tra di loro», dice Murray. «Non è una chiacchierata accanto al fuoco in cui pensano al passato come a una cosa distante nel tempo. È una cosa che portano sempre con sé e che a volte pesa. E quindi il nuovo episodio dà modo di osservarli mentre si guardano per la prima volta dentro».
Più di ogni altra cosa, Anthology è la storia di un’amicizia. Quella fra John, Paul, George e Ringo è forse l’amicizia più nota della nostra cultura, il quartetto che simboleggia gli alti e bassi dello stare in un gruppo. È per questo che Paul, per la prima volta da quando i Beatles si sono sciolti, sta salendo sul palco del suo ultimo incredibile tour cantando la confessione del 1965 di John, Help. È un momento di vulnerabilità: Paul, ormai ultraottantenne, interpreta un pezzo che il suo migliore amico cantava quando avevano poco più di vent’anni. Sta ancora cercando di dare un senso al dolore di John e ricomporre quel legame spezzato. Ha così tanti successi suoi che potrebbe cantate mille altre cose. Ma nel suo cuore, sta ancora cantando per John.
Ovviamente, la morte di Lennon aleggia su Anthology. «Mi spiace per John», dice George nel nuovo episodio. «I Beatles hanno vissuto momenti belli e turbolenti e, come tutti sanno, quando ci siamo lasciati eravamo tutti un po’ stufi l’uno dell’altro. Ma Ringo, Paul ed io abbiamo avuto la possibilità di metterci tutto alle spalle e di ritrovarci. Mi spiace che John non abbia potuto farlo. Penso che avrebbe apprezzato essere di nuovo con noi».
Le risate e la complicità dei Fab Four sono contagiose in tutti e nove gli episodi, come quando Paul difende il White Album («Era fantastico! Ha venduto! È il White Album dei Beatles! Tutti zitti!»). Ma ci sono anche momenti dolorosi, come quando Ringo ricorda di essere andato via dicendo agli altri: «Mi sento non amato ed escluso, e voi tre siete uniti». Parole a cui ognuno risponde a turno che «pensavo foste voi tre ad essere uniti». George è il maestro delle battute taglienti. Nel nuovo episodio, quando lo accusano di essere quello che spinge sempre gli altri a lavorare di più, Paul ribatte: «A me piacciono i Beatles. Mi piace lavorare coi Beatles. Non me ne vergogno. È la cosa che amo di più nella vita: tutto quel fare musica».
«L’episodio nove chiude la serie, ma non rappresenta una fine», dice Murray. «Spero sia un passaggio di testimone, una conversazione tra una generazione e quella successiva, mi piace l’idea di lasciare tanti interrogativi quanto risposte. Guardare i Beatles significa pensare a loro, ma anche a dove siamo noi ora culturalmente. Il fatto che la loro eredità sia ancora viva è incredibile. Sono una specie di linguaggio culturale che si tramanda da una generazione all’altra, è tipo nelle falde acquifere. E tutti ci stiamo dissetando dai Beatles, anche se forse non lo sappiamo».

Foto: Apple Corps Ltd
Giles Martin ha rimasterizzato la musica, inclusi pezzi dal vivo. «Lavorare all’audio live è stato molto impegnativo», spiega. «Ci avevo già provato un po’ quando abbiamo fatto Eight Days a Week con Ron Howard (2016) e poi Beatles ’64 (nel 2024) con lo Shea Stadium, il concerto a Washington, il Budokan. Ho usato la tecnologia del de-mixing che abbiamo sviluppato con Peter». Nulla è stato alterato, semplicemente ora sentiamo meglio quello che i quattro suonavano. «La vera sfida è trovare il giusto equilibrio tra migliorare il suono e non alterarlo. Scelgo sempre che sia il più reale possibile. Con questa tecnologia straordinaria posso isolare la voce di John nel concerto di Washington e sentire solo lui. Nessuno l’aveva mai sentito così prima».
Il risultato è che i pezzi dal vivo rendo l’energia grezza delle prime esibizioni. «È così che suonavano», dice Martin. «Non ho aggiunto nulla. Non esiste un plug-in che migliori la performance. Sono loro che sono davvero bravi, solo che ora riesci a sentire quanto. È come quando hanno ripulito la Cappella Sistina e hanno scoperto che l’opera di Michelangelo non era così cupa come si pensava. È la stessa cosa con i Beatles: li ripulisci e ti rendi conto che, in fondo, quando suonano dal vivo sono praticamente un gruppo punk».
Martin ha remixato tutti e tre gli album dell’Anthology, prodotti originalmente dal padre, più il nuovo Anthology 4. «Aveva senso, mentre rifacevamo la serie tv, pensare anche a un disco extra». Ci sono 13 pezzo inediti (o 16, a seconda di come si conta) dagli archivi, per lo più del bienno ’64-’65, con ottime versioni di Tell Me Why, If I Fell e I’ve Just Seen a Face. Gli altri 20 provengono dalle edizioni speciali che Giles ha curato nell’ultimo decennio, la serie iniziata con i cofanetti di Sgt. Pepper e del White Album. «Il progetto si genera da sé, non è schiavo delle logiche di mercato». Tutti e quattro i volumi sono raccolti nella Anthology Collection per un totale di 191 tracce.
All’epoca l’apprezzamento per l’Anthology ha spiazzato l’industria musicale e gli stessi Beatles superstiti. Doveva essere l’ultima frontiera, giusto? Perché milioni di persone hanno comprato con entusiasmo gli scarti delle loro session? Che cosa avevano in testa? Paul in passato ha scherzato: «George Martin sostiene che se pubblichiamo qualcos’altro dopo questo, dovrà uscire accompagnato da un’avvertenza per la salute». Nessuno poteva immaginare, nemmeno Martin, che quei ragazzi sarebbero diventati ancora più famosi e amati nel XXI secolo. Pochi anni dopo che tutti davano per scontato che Anthology rappresentasse la fine della storia, la raccolta 1 è diventata l’album più venduto degli anni 2000, con una trentina di milioni di copie. È ancora testa a testa con 21 di Adele come album più venduto del secolo, anche se tutte le canzoni che include erano hit prima ancora che Adele nascesse.
È il paradosso dell’Anthology: i Beatles non sono mai stati roba del passato. Loro e le loro canzoni appartengono al futuro. Sempre. In quanto al loro futuro, non si sa nulla. Ci sono solo due cose che si possono prevedere: 1) è pazzesco quanto la gente li ama e 2) la voglia di Beatles non passa mai. «Non potrei dirlo meglio di quanto fa George nella serie», dice Murray. «I Beatles andranno avanti anche senza tutti e quattro, perché ormai appartengono a tutti noi».
Ma Anthology riporta la storia alle basi, quattro ragazzi di Liverpool e la loro intesa. «Sono diventati i miei migliori amici», dice Ringo. «Ero figlio unico e all’improvviso mi sembrava di avere tre fratelli. Ci proteggevamo l’un l’altro». Guardare Anthology non significa solo celebrare quel legame, ma diventarne parte, mentre la musica riporta i Beatles in vita.













