‘Breve storia d’amore’: intervista a Ludovica Rampoldi | Rolling Stone Italia
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Ludovica Rampoldi: non drammatizziamo… è solo questione di corna (e di opere prime)

La sceneggiatrice di tanto cinema e Tv che sicuramente avete visto debutta alla regia con ‘Breve storia d’amore’. Un film che parla di sentimenti in modo intelligente, divertente e adulto. Ce lo siamo fatti raccontare da lei

Ludovica Rampoldi: non drammatizziamo… è solo questione di corna (e di opere prime)

La regista e sceneggiatrice Ludovica Rampoldi con Pilar Fogliati sul set di ‘Breve storia d’amore’

Foto: Andrea Pirrello

Nel ristorante romano in cui mi riceve sempre per pranzo, un giorno di primavera Ludovica Rampoldi mi fa: «Giro un film». Stacco. Passano i mesi, è di nuovo primavera, e quel film di cui nel frattempo mi aveva parlato – le storie, le facce, le cose che voleva metterci dentro – me lo fa vedere. E lì i casi sono due: o non ti piace, e perciò davanti all’amico reggìsta abbozzerai bofonchiando frasi come «be’, coraggioso» o «molto bella la fotografia»; oppure ti piace, e vissero tutti felici e contenti. Per fortuna, qui è stato il secondo caso.

Ludovica Rampoldi probabilmente la conoscete anche se non lo sapete, perché gli sceneggiatori non li conosce mai nessuno (e di questo la categoria si lamenta assai). Ha scritto tanti film (tra gli altri: La ragazza del lago, La doppia ora, Il ragazzo invisibile, Il traditore – per cui ha vinto il David –, Il maestro, che è al cinema ora, e Primavera, che sarà al cinema a Natale) e serie (1992 e seguiti, Gomorra, Esterno notte, The Bad Guy) che probabilmente avete visto. È passata “di là” non per necessità o per vanità, ma – almeno è quel che ho percepito io fin da quel pranzo – perché le andava, e basta.

Breve storia d’amore (presentato all’ultima Festa di Roma, prodotto da Indigo Film con HT Film e Rai Cinema e nelle sale dal 27 novembre con 01 Distribution) mi piace perché – è la prima cosa che ho detto anche a lei – a Ludovica Rampoldi assomiglia molto. È elegante, spudorato, un po’ punk, intelligente e insieme intrattenente (che brutto aggettivo: spero la sceneggiatrice mi perdoni). E perché, come gran parte di quello che ha scritto prima, tratta gli spettatori da adulti, caso oggigiorno sempre più raro.

Parliamo anche di questo, nella nostra lunga chiacchierata. Ma prima due note di trama, mossa da attori molto ben scelti e molto bravi. In un bar romano a tarda sera, Lea (Pilar Fogliati) incontra Rocco (Adriano Giannini). Inizia la breve storia d’amore del titolo, in una camera d’albergo un po’ fané. In mezzo all’intreccio ci finiscono anche la moglie di lui, Cecilia (Valeria Golino), che fa la psicanalista; e il compagno di lei, Andrea (Andrea Carpenzano), attore. Una smaschera, l’altro si maschera. Anche questo, alla fine, conta. Ma il punto vero, per tornare all’adultità di prima, è: come si affrontano i sentimenti e i risentimenti, e i tradimenti, e le bugie, e le scuffie che ci prendono, nelle diverse età della vita?

Adriano Giannini e Pilar Fogliati in una scena del film. Foto: Andrea Pirrello

Non ti faccio la domanda che ti stanno facendo tutti: perché sei passata alla regia? Anche perché, quando me l’hai detto, mi è sembrato che ci fosse ben poca solennità, in questa scelta. Se mai, divertimento.
Di solito vengono tirate in ballo parole come urgenza e necessità. Io forse parlerei di desiderio, che è anche una parola che ha più a che vedere con il cinema. In questi anni sento, come tutti, il senso di una fine che incombe su di noi. Quando ho iniziato a pensare al film eravamo freschi di una pandemia e con due conflitti in corso: la fine del mondo non era più un’ipotesi così irrealistica. E anche nel nostro irrilevante e ininfluente microcosmo, c’è da un po’ questa sensazione: i giornali non esistono più, i dischi non esistono più, il cinema ha perso spettatori, finanziamenti e rilevanza, e probabilmente noi sceneggiatori – se non tutti i lavori del settore – a breve verremo rimpiazzati dall’intelligenza artificiale. Sembra di vivere gli ultimi istanti del mondo come lo conoscevamo nel Novecento. Forse per questo ho voluto tornare nel mondo in cui siamo cresciuti: inconsciamente ho pensato che, se mi andava di riprendere quel copione, era anche il momento giusto per dirigerlo.

Questa storia nasce tanti anni fa, e allora poneva domande e risposte diverse, ai tuoi personaggi e anche a te. A proposito di tempi e tempismi, forse il paradosso è che il desiderio di cui parlavi ci porta a fare cose più incoscienti ora che siamo più adulti, dunque più disincantati.
È così. O ti fai contaminare dal clima di depressione che ci circonda, oppure cerchi una risposta vitale, ed è quello che ho cercato di fare io con questo film che ha al centro proprio questa riflessione sul passaggio del tempo. Questa storia l’ho scritta a 25 anni, e ogni tanto ci ripensavo. Nel frattempo l’avevo fatta leggere ad attrici, registe, registi, e riprendendola in mano mi è sembrata ancora attuale nelle domande che poneva o che quantomeno mi poneva. Ma le risposte che avevo dato all’epoca mi sembravano davvero limitate e un po’ fasulle. Nell’intervallo tra la prima scrittura e l’ultima, c’è anche lo iato tra le aspettative che uno ha a vent’anni su di sé e sulla vita e il bilancio che si trova a fare crescendo, che non è per forza in attivo. A vent’anni hai idee assolutiste, intransigenti; poi la vita ti sporca, ti compromette, ti fa capire che quei confini non sono poi così netti, e va bene così. È stato un processo simile a quello del Maestro. Anche di quel film avevamo scritto [con Andrea Di Stefano] una prima stesura nel 2006: era una commedia sul tennis molto leggera; poi, quando abbiamo ripreso in mano il copione, l’abbiamo confrontato con ciò che erano diventate le nostre vite, con il fatto che inevitabilmente avevamo assaporato delusioni, fallimenti, rifiuti. E allora il film si è irradiato di una malinconia, di un sorriso amaro che ha un po’ appesantito, detto in senso positivo, la leggerezza eccessiva di quella storia scritta da due giovani di belle speranze.

Pilar Fogliati e Andrea Carpenzano in ‘Breve storia d’amore’. Foto: Andrea Pirrello

Negli anni sei stata connotata con l’impegno, la politica, le storie che guardavano alla cronaca. Gomorra, Bellocchio, fino a The Bad Guy, che ha un altro passo però sempre lì pescava. Invece qua c’è una libertà di incastri, registri, colpi di scena… di leggerezza, anche.
Anche quello, in fondo, è un tradimento. Un tradimento delle aspettative altrui. Ma come si dice nel film, il tradimento può avere anche un valore positivo, di libertà. Ti permette di sganciarti da un recinto in cui per un motivo o per l’altro ti hanno o ti sei collocato. E poi, ricollegandomi alla domanda di prima sulla libertà di essere più incoscienti in età più adulta, c’entra anche il fatto che noi ormai non siamo più abituati a fare qualcosa per la prima volta. Fare per la prima volta la regista è stata una delle molle che mi hanno dato una specie di carica energetica. Sui temi che dicevi, invece…

Prego.
L’impegno, la Storia d’Italia, il potere, la criminalità, la collusione tra potere e criminalità… sono tutti considerati temi più alti perché più maschili. Invece i sentimenti hanno, nella percezione comune, una connotazione inferiore in quanto femminili, detto semplificando moltissimo la questione.

“Il tuo Sex and the City, i miei film con gli spari”, cantava quello.
(Ride) È un po’ quella cosa lì, sì. Che poi, e non lo devo dire io, il punto non è mai quello di cui parli, ma come ne parli. Si può parlare anche di cose estremamente superficiali o leggere in modo non trito e non scontato. Quelle domande sulla coppia – cosa si fa quando si scopre di essere traditi? si può tradire quando si è innamorati? – ci riguardano tutti, e io ho cercato di affrontarle anche con leggerezza, appunto. Come diceva il traduttore del titolo di quel film di Truffaut: Non drammatizziamo… è solo questione di corna. Allo stesso tempo, volevo sì raccontare una storia leggera, ma anche svelare qualcosa di più di questi personaggi che si sono un po’ persi e che, attraverso questi piccoli terremoti rappresentati dalle scoperte sugli sconosciuti che hanno in casa, alla fine ritrovano qualcosa di sé, più che dell’altro. È un’altra cosa che cambia col passare del tempo. A vent’anni deleghi sempre la tua felicità a qualcun altro: quel qualcun altro deve riempire i tuoi buchi, lenire le tue ferite, e questa è la condanna più certa all’infelicità. Siamo tutti più felici adesso rispetto che a vent’anni, possiamo dircelo?

Ludovica Rampoldi. Foto: Azzurra Primavera

Dobbiamo dircelo. Cos’è cambiato – al di là del tempo tuo, delle domande e delle risposte che ti sei data da sola – nel tempo anche “sociale” in cui è ambientata questa storia d’amore? In vent’anni sono arrivati i social, le app, e c’è anche più paura – non so se è la parola giusta, ma mi viene da chiamarla così.
È cresciuto in maniera esponenziale il modo in cui puoi controllare l’altro e scoprirne i segreti. Puoi geolocalizzarlo, puoi sapere dove sta in qualunque momento: oggi ti spiano pure con il baby monitor! Sono infiniti i modi in cui puoi investigare nella vita segreta delle persone, ma la verità è che non c’è investigazione, per quanto capillare, che possa arrivare alla vera verità: quella rimane sempre insondabile.

Prima parlavi del fare qualcosa per la prima volta. Ti sentivo anche dire che quando interviene il mestiere, nel tuo caso quello di sceneggiatrice, si riesce anche a camuffare la mancanza di ispirazione. In questo mestiere nuovo, che cosa invece non potevi camuffare? Anche qui possiamo dire “non drammatizziamo… è solo questione di opere prime”, oppure è stato più difficile di quanto ti aspettassi?
C’era una forte dose di incoscienza, ma anche la volontà di abbandonarmi, di affidarmi. Quello del regista è un lavoro in cui devi controllare tutto, però c’è sempre qualcosa che non puoi controllare, e ho scoperto che c’è una bellezza enorme nel lasciare che le cose prendano il loro corso. Impari a non incaponirti se non puoi avere la tal location o la tal canzone, e spesso gli ostacoli sono delle occasioni per ripensare certe cose in modo anche migliore. Ti devi affidare soprattutto all’istinto, perché la preparazione, in questo caso, era solo teorica: e sappiamo tutti che studiare una cosa e poi metterla in atto sono proprio due campionati diversi. Perciò ho scelto delle persone intorno che non solo erano degli straordinari professionisti, ma anche persone a cui voglio molto bene, da cui mi sentivo sostenuta. Serena Filippone, la mia aiuto regista, è anche una delle mie migliori amiche. E poi quel genio della montatrice, Francesca Calvelli. E il direttore della fotografia, Gogò Bianchi, che viene da Bad Guy. Il montaggio è stata la cosa davvero interessante. In conferenza stampa Andrea Carpenzano ha detto una cosa che mi ha fatto molto ridere: “Il mio personaggio inizia a capirci qualcosa quando il film è finito”. Ecco, anch’io ho iniziato a capirci qualcosa quando il film era finito, cioè al montaggio. Perché è lì che ti rendi veramente conto di quello che hai fatto, di quello che ti è venuto bene, di quello che potevi o dovevi fare meglio. E per fortuna avevo appunto accanto quel genio che, quando una scena mi sembrava irrecuperabile, mi diceva “Fammi fare una cosa”, e con la sua bacchetta magica la faceva funzionare.

La coppia Valeria Golino e Adriano Giannini. Foto: Andrea Pirrello

Pensavo allo sceneggiatore che puntualmente si lamenta: “Il regista mi ha stravolto la scena!”. Ora avrai capito che anche il lavoro del regista viene stravolto di continuo: dalle cose che non si possono fare, dagli imprevisti sul set, dal montaggio…
Gli imprevisti del set non sono un luogo comune. E, come dicevo prima, a volte diventano possibilità. Ti faccio un esempio: avevo scelto la casa di Rocco e Cecilia [Giannini e Golino] perché mi sembrava avere il carattere giusto per rappresentare quei due personaggi. Ma c’era un problema col parquet, che era un po’ antico e faceva un gran casino. Abbiamo fatto un sopralluogo con il fonico, Gianluca Scarlata, che ci fa: “No, riga’, qua è un casino, non si può girare”.

Quindi solo case con pavimenti di orrido gres…
(Ride) Esatto. Allora io gli dico: “Gianluca, ma se i personaggi recitassero sempre scalzi? Questa cosa ti aiuterebbe?”. E lui: “Sì, certo”. Da lì mi è venuta l’idea di fare di Rocco e Cecilia una di quelle coppie di psicopatici che non ti fanno entrare in casa senza prima levarti le scarpe, che è una caratterizzazione in più di quei personaggi, del loro mondo.

Prima, a proposito delle storie “di sentimenti”, accennavi allo sguardo femminile. Io penso che quello che manca è soprattutto uno sguardo adulto sui sentimenti e non solo, in quest’epoca in cui tutto sembra infantilizzarsi per rispondere a chissà quali algoritmi. Il tuo film conferma invece che non trattare il pubblico da scemo è possibile.
A un certo punto Cecilia dice: “Io e Rocco abbiamo smesso di avere aspettative l’uno sull’altra molto tempo fa”, che è una grandissima liberazione, no? Quando ho ripreso il copione e l’ho riletto, c’era dentro proprio tutto quello che non mi piace: era manicheo, facile, schematico, pieno di risposte dritte. Invece la vita è più ricca e più complessa di così. Vedevo quei personaggi e dicevo: “Ma io non li conosco”. Adesso invece mi sembra di vedere in loro delle persone che conosco o riconosco nella vita reale.

Torniamo al desiderio. Non voglio che ti monti ulteriormente la testa, ma prima usando questa parola mi hai fatto venire in mente Bertolucci, uno dei registi che hanno usato ed espresso meglio il desiderio al cinema. Aver lavorato con lui e Ilaria Bernardini alla sua ultima sceneggiatura – The Echo Chamber, che ora finalmente diventerà un film – ha condizionato la riscrittura di Breve storia d’amore?
Non potrei neanche fare un paragone, siamo seri. Però, quando immaginavo le scene in albergo, era inevitabile che il pensiero andasse a Ultimo tango. Più che dal punto di vista estetico, che resta ovviamente inarrivabile, mi piaceva la dimensione di un luogo chiuso, fuori dal flusso del tempo e della storia; un luogo dove pur non sapendo niente l’uno dell’altro si possa essere in qualche modo autentici. Che è un po’ lo specchio di un altro ambiente chiuso del film, cioè lo studio dell’analista; un’altra stanza dove la relazione tra due persone, che in questo caso nasce dalle più fasulle delle premesse, diventa invece il posto in cui spogliarsi delle identità che ti attribuiscono gli altri e provare a indossarne una nuova, la tua. C’è una cosa divertente su Bernardo che mi viene in mente ora…

Vai.
Mi ricordo che quando scrivevamo The Echo Chamber diceva sempre: “In fondo io sono sempre stato un regista di soprammobili” (ride). E questa cosa mi ha colpito molto. Non voglio dire che ho cercato di imitarlo, però i dettagli nel cinema li trovo sempre molto interessanti, e quindi anche qui, sempre a proposito di spazi chiusi, c’è il formicaio, e l’acquario dei pesci, tutti simboli che ricordano la vita costretta dei protagonisti.

Ludovica Rampoldi dirige una scena con Valeria Golino e Pilar Fogliati. Foto: Andrea Pirrello

Parlando di spazi chiusi, ovviamente un film è uno spazio più chiuso di una serie. E forse, se pensiamo ai luoghi del desiderio, ci vengono in mente più i film che le serie.
Però io, se mi dici desiderio, penso a Mad Men, che è proprio una serie sulla costruzione del desiderio, perché è quello che fa la pubblicità.

Pure te c’hai ragione. Ma come luogo del desiderio estetico, del poter creare mondi anche fatti solo di soprammobili, credi che il cinema sia tornato un po’ più rilevante? Non faremo qui il discorso sul tax credit, e i tagli, e la crisi, ma da un punto di vista anche di desiderio vostro, di voi che le storie le scrivete, ti sembra un po’ finita l’epoca d’oro delle serie tv? Tu hai ancora progetti seriali in corso, però, davanti a questa fine di tutto di cui parlavamo all’inizio, pensi: tanto vale riprovarci anche coi film?
Molto dipende da dove va il mercato, e quindi i soldi e l’attenzione complessiva. A un certo punto il cinema sembrava aver esaurito la sua spinta creativa, invece le serie – I Soprano, Six Feet Under, Mad Men, Breaking Bad – avevano portato quella famosa complessità di cui sopra, e anche attirato grandi talenti del mondo del cinema per creare un racconto lì sì adulto. Poi, quando quel fenomeno è diventato sempre più grande, mi sembra che si sia tutto un po’ spostato e – ecco, non vorrei proprio dirla così – sono arrivati i bimbiminkia, e quindi bisognava fare dei prodotti più larghi. Nel momento in cui la reputazione che tutti cercavano è stata raggiunta, bisognava fare i soldi, perciò si è tornati a racconti più semplici e poi a una sovraproduzione forse dovuta anche al fatto che c’era il Covid, e tutti stavamo a casa a guardare le serie. Adesso il risultato è che nessuno vuole più fare una serie in tante stagioni, mentre prima la cercavano perché produttivamente conveniva. Ora non c’è quell’attenzione, nessuno ha voglia di aspettare un anno e mezzo per la seconda stagione quando nel frattempo sono arrivati mille altri prodotti, e quindi si fanno soprattutto miniserie, che – anche qui detto male – sono dei film allungati, storie in cui non c’è più il meccanismo della ricerca di un conflitto capace di generare “enne” stagioni. Oggi si esaurisce tutto in un arco molto più breve. E si torna alla questione del tempo. Mi ricordo che, quando ho iniziato a studiare sceneggiatura, ti dicevano che il primo colpo di scena doveva avvenire nel primo atto, entro il minuto 30, se poi era al minuto 20 anche meglio. Poi è diventato il minuto 10, e ora sulle piattaforme ti dicono che deve arrivare entro il minuto 3, altrimenti la gente va avanti e guarda altro. Adesso sono arrivati i vertical drama, che si devono addirittura aprire con qualcosa di enorme: il colpo di scena dev’esserci al primo secondo. Che è un discorso anche interessante, in fondo.

Tu il colpo di scena l’hai messo quasi alla fine, come una volta.
Più che un colpo di scena, è un rovesciamento. A me di fare il giochetto del colpo di scena fine a sé stesso non fregava nulla. Era la volontà di portarti dentro un punto di vista e poi ribaltare tutto. Se si esaurisse tutto nel meccanismo del colpo di scena, mi sentirei di aver totalmente fallito. La struttura in sé è secondaria, prima ci sono sempre i personaggi.

BREVE STORIA D'AMORE di Ludovica Rampoldi (2025) - Trailer Quotes

Ti ho detto che questo film ti assomiglia molto. A te sembra che assomigli a cosa, invece?
Vuoi farmi dire Closer? (ride)

No, non voglio fartelo dire da sola. Però puoi dirmi quello che ti ha guidata, anche inconsciamente. Gli autori incrociati per strada, le visioni, le storie degli altri che poi si sono mischiate con la tua…
Nel grande frullatore di cose che ho visto e che ho letto per scrivere questo film, le ispirazioni sono state quasi più letterarie che cinematografiche. Dovessi citare quelle cinematografiche, passerei per una mitomane. Direi appunto Closer, e Carnage, e Woody Allen, e Bertolucci, e tu commenteresti: abbè, complimenti! Però sì, diciamo che dentro ci sono sicuramente tutti quei registi che hanno saputo indagare…

E che, in molti casi ingiustamente, sono stati indagati…
(Scoppia a ridere) Ecco, adesso devo subito citare qualcun altro, se no mi arrestano! Revolutionary Road di Sam Mendes, ma anche il romanzo di Richard Yates, che era molto più satirico del film. E le pièce di Yasmina Reza, Tradimenti di Pinter ovviamente, e Chi ha paura di Virginia Woolf?, più vari saggi sul tradimento dal punto di vista filosofico e psicanalitico. Oltre a moltissime poste del cuore, che sono sempre una fonte utile e interessante. Tornando a cosa somiglia questo film, posso dirti che in tutta la sceneggiatura avevo messo della musica che poi ovviamente è cambiata, ma erano tutti brani New Wave che partono dal dolore, ma dove ci puoi ballare sopra.

A proposito di scelte musicali: visto che, per citare il vecchio saggio che hai messo alla fine, tutto ciò che vogliamo “è solamente amore”, le risposte che ti dai oggi alle domande sull’amore quali sono?
Oh, mamma mia… Intanto ti dico perché ho messo Sotto il segno dei Pesci. È una canzone del ’78, e quando con Marco Bellocchio, Stefano Bises e Davide Serino scrivevo Esterno notte ho cercato di infilarla in tutte le scene, e Marco me la toglieva sempre. Aldo Moro che torna a casa e mette su un ovetto: Sotto il segno dei Pesci! Aldo Moro in macchina che sente la radio: Sotto il segno dei Pesci! E invece niente. Mi era rimasto il desiderio di usare questa canzone che mi fa sempre venire voglia di cantare a squarciagola, e allora finalmente me la sono giocata qui.

Non ti dimenticare le risposte alle domande sull’amore. O forse, per citare un altro vecchio saggio, la risposta è dentro di te…
… e però… è sbajata! Guarda, una risposta non te la saprei proprio dire. Forse è sempre e solo accogliere il mistero. Dell’altro, e di te stesso.