Manchester è una città di grandi musicisti. Lo sappiamo e non perdiamo occasione per dirlo. Qualche giorno fa Milano e Bologna hanno omaggiato il ritorno di uno dei più grandi, Johnny Marr, e stiamo per finire un anno caratterizzato dall’estate degli Oasis. Insomma, a Manchester il rock’n’roll è una faccenda seria. Forse ancora più seria del calcio.
Manchester però, è anche una città di grandi bassisti. Alla fine degli anni ’70, Peter Hook mettendo insieme talento espressivo e limiti infrastrutturali (una sala prove troppo rumorosa e un basso troppo scadente) inventò dal nulla un nuovo modo di suonare lo strumento caratterizzando non solo il suono dei Joy Division, ma la new wave tutta. Due anni fa, su queste pagine, omaggiavamo Andy Rourke degli Smiths in occasione della sua scomparsa come uno dei più grandi bassisti di sempre. Oggi siamo di nuovo in questa triste occasione perché ieri è morto all’età di 63 anni l’altro esponente di questa incredibile triade di musicisti: Gary Mounfield, in arte Mani.
In queste ore gli aneddoti si rincorrono sui social network – il mio preferito: si è venduto la Vespa per andare a Barcellona per vedere la finale di Champions League tra Manchester United e Bayern Monaco, che essendo una delle più leggendarie partite di calcio di sempre direi che ha fatto bene – a conferma di quanto fosse stimato e amato anche come personaggio. Sul suo incarnare perfettamente una certa idea al tempo stesso edonista e socialista di rock’n’roll ci sarà modo di parlarne o di leggerne da fonti di prima mano, qui ci interessa ricordare quanto Mani sia stato un bassista della madonna, un musicista incredibile in grado di inventare e costruire, con gli Stone Roses prima e coi Primal Scream poi, dei veri e proprio mondi sonori.
Se l’esordio degli Stone Roses è considerato uno dei dischi più importanti della musica inglese per la sua miscela sapiente di indie rock, psichedelia e dance music che ha quasi da solo proiettato il paese e la sua gioventù in un futuro fatto di colori (ben rappresentato dall’iconografia pollockiana della band) è merito anche dell’incredibile lavoro di raccordo e potenziamento che il basso di Mani fa lungo tutto il disco. Se I Wanna Be Adored si apre con un riff che è già di per sé una dichiarazione d’intenti, in She Bangs the Drums stupisce come un pattern punk-rock suoni delicato e arioso, mentre in Waterfall Mani costruisce un groove reggae dentro un pezzo psichedelico in cui suona note non convenzionali allontanandosi dall’idea di ritmica a supporto per diventare voce protagonista in dialogo costante con la chitarra di John Squire. È il 1989, Mani va allo stadio, gioca a freccette, perde tempo come tutti gli adolescenti di Manchester di quel periodo e quando va in sala con un basso rovinato dalla vernice per farlo apparire più sgargiante e colorato mette insieme a orecchio note che definiscono un universo dove l’indie rock ha potuto prosperare.
Nel 1996 l’esperienza degli Stone Roses è finita dopo il disastroso (anche oltre i suoi demeriti) The Second Coming. L’Inghilterra è in piena febbre Brit pop. Gli Oasis e i Blur determinano l’immaginario collettivo della gioventù alternativa e Mani finisce nel posto perfetto per lui. Il caravanserraglio alla deriva dei Primal Scream di Bobby Gillespie. Reduce dallo storico Screamadelica, ma soprattutto dal fallimento economico e artistico di Give Out But Don’t Give Up, la band cerca di mettersi in carreggiata con nuove idee lasciando a Mani la libertà di usare il suo basso portando sì il groove e il dub, ma soprattutto l’approccio enciclopedico di un appassionato totale di musica che non si è mai fermato e ha sempre cercato di far evolvere il suo stile di conseguenza. Non è un caso che l’album che ne esce sia Vanishing Point. Un vero e proprio disco di rinascita. La second coming di una band permessa da un incredibile lavoro ritmico. Pensate all’incedere in cui il basso è protagonista della title track.
Il suo lavoro nei Primal Scream tocca vette assolute in XTRMNTR, disco in cui il basso è l’elemento centrale verso cui far ruotare un nuovo tentativo (riuscito) della band di portare più in là i confini della musica pop. Canzoni come Kill All Hippies e Swastika Eyes, Keep Your Dreams e Shoot Speed/Kill Light non sono immaginabili senza quel basso. E quel basso è stato possibile proprio perché suonato da Mani.
Spesso i bassisti vengono relegati in secondo piano. Su Instagram i reel che scherzano sulla loro mancanza di fascino e carisma si sprecano. Mani ha sempre invece messo il basso al centro della scena, portando anche una dose di quel fascino e carisma che spesso non c’è, donando appeal e coolness al più bistrattato degli strumenti. Quando nel 2010, insieme ai sopraccitati Hook e Rourke, i tre hanno creato una band chiamata Freebass poco importa il risultato deludente del disco (It’s a Beautiful Life) perché il punto era mettere insieme tre teste e dodici corde a dimostrare che si poteva creare un mondo in modo semplice ma definitivo. Questa idea Mani l’ha inseguita, credo inconsapevolmente, per tutta la vita, insieme a un grande amore per la musica e per la vita che ha reso possibile costruire pagine indelebili per dischi che ameremo per sempre.











