Che confusione nella terza stagione di Monster. Abbiamo già visto cosa c’è di vero e cosa invece è romanzato nelle vicende di Ed Gein, qui però affrontiamo quanto mostrato nel subplot. Se nella parte finale della stagione risulta evidente che siamo nel campo delle allucinazioni del protagonista, lo stesso non si può dire del resto, dove invece la serie vuole raccontare, con dovizia di particolari e presunzione di verità, non solo le vicende del “macellaio di Plainfield”, ma anche come queste abbiano poi influenzato le opere cinematografiche tratte dai fatti, più segnatamente Psycho e il suo protagonista Anthony Perkins. La serie di Ryan Murphy fornisce una rappresentazione per niente lusinghiera dell’attore, e infatti Oz Perkins, figlio di Anthony e regista a sua volta (Longlegs, The Monkey), a esprimere tutto il suo disgusto.
«Richard Burton una volta ha detto che un attore è fortunato se viene ricordato anche solo per un unico grande ruolo. Per tuo padre, Norman Bates fu quel ruolo. Fu così straordinario che non gli hanno permesso di essere nessun altro». Con queste sincere e precise parole Janet Leigh, coprotagonista di Psycho, si rivolge a Oz alcuni anni dopo la morte del padre. Non lo si può negare: Tony Perkins è ricordato quasi esclusivamente per quella parte e quel film è stato il più significativo della sua carriera. Per uno studio analitico della materia vi rimando al libro Anthony Perkins – Prigioniero della paura di Michelangelo Capua, lettura che mi ha accompagnato nella scrittura e che mi ha aiutato a mettere sulla bilancia da una parte i temi mostrati dalla serie tv di Netflix, e dall’altra l’attore e l’uomo che è stato Anthony Perkins.
Iniziamo dal suo rapporto con Alfred Hitchcock. In Monster vediamo il regista essere estremamente indelicato, per non dire di peggio, nel mettere l’attore a disagio paragonandolo a Ed Gein. L’Hitchcock interpretato da Tom Hollander equipara i due perché entrambi portatori di un segreto: per il primo l’omosessualità, per il secondo “una disfunzione sessuale che non riusciva ad esprimere”. Secondo la ricostruzione della serie, l’attore venne scelto perché “come lui”, cioè come Gein. L’accostamento è a dir poco esagerato, e gli unici elementi che in realtà i due avevano in comune erano l’aver avuto una madre ossessiva e una difficoltà a relazionarsi con le donne. Dell’omosessualità di Perkins a Hollywood i ben informati (produttori e colleghi) già sapevano: vuoi per mancanza di compagnia femminile, vuoi per le difficoltà nel rapportarsi fisicamente sul set con le attrici.
È indubbio che Perkins non vivesse bene la sua sessualità, principalmente per paura delle ripercussioni sulla carriera. Il segreto che celava al grande pubblico, insieme al difficile rapporto con la madre, sono forse alla base di alcuni elementi caratteriali che nel tempo da difetti sono diventati cifra stilistica della sua recitazione. Oriana Fallaci disse di lui: «Quando gli si parla scalcia come un puledro pizzicato dalle mosche oppure dondola sui tacchi e nasconde la faccia, appoggiando il mento sullo stomaco come se temesse di essere picchiato. Non riesce o non vuole farsi una ragazza. Lo chiamano l’uomo più solo di Hollywood». Era così Anthony Perkins: sembrava Norman Bates, ma ovviamente non lo era.
Il rapporto con il “Maestro del brivido” fu davvero così doloroso? A quanto pare no, anzi Perkins ha sempre avuto ottime parole per il regista, a differenza di Tippi Hedren, tutt’altra storia la sua. Hitchcock si dimostrò particolarmente sensibile nei confronti dell’attore, conscio delle sue difficoltà con le donne e delle ambizioni di carriera (oltre al cinema, era un prolifico attore di teatro). Nonostante fosse impegnato sul set di Psycho, acconsentì alla richiesta di Anthony di recarsi a New York per le prove di un musical a Broadway e lo dispensò – incredibile – dal girare la celeberrima scena della doccia con Janet Leigh. Anni dopo, in merito, Perkins ha commentato con «fu un’attenzione affettuosa, tipica della sua generosità». A questo va aggiunto anche che Hitchcock introdusse nel film i suggerimenti dati dall’attore stesso in merito al suo personaggio, in particolare i vestiti (Perkins aveva gusto nel vestire e oggi è riconosciuto come leggenda dell’Ivy style) e le caramelle masticate nervosamente da Norman. Insomma, un rapporto ben lontano da quello che vediamo nella serie di Netflix.
In un episodio vediamo l’Anthony Perkins interpretato da Joey Pollari irritato per come Psycho lo abbia poi limitato nelle successive esperienze lavorative. Questo è vero, ma con una doverosa precisazione: senza quel successo, probabilmente non avrebbe continuato a fare cinema, come confessò lui stesso in seguito. Purtroppo, si innescò quindi un circolo vizioso di proposte e interpretazioni: gli venivano offerte solo parti in cui c’era un’eco di Norman Bates per le quali tuttavia risultava anche ideale a causa del suo stile tormentato.

Joey Pollari alias Anthony Perkins con Tom Hollander (Alfred Hitchock) in ‘Monster – La storia di Ed Gein’. Foto: Netflix
Tra i personaggi più riusciti ricordiamo il Signor K nel Processo (1962) di Orson Welles, basato sul libro di Kafka, e Dennis Pitt in Dolce veleno (1968). Nonostante questa limitazione e le continue offerte di caratteri più o meno psicotici, in quasi 40 anni di carriera è riuscito a collaborare con i più importanti nomi del cinema (con risultati non sempre soddisfacenti): Gary Cooper, Henry Fonda, Sophia Loren, Brigitte Bardot, Ingrid Bergman, Paul Newman e la partecipazione nel super cast di Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet insieme a Lauren Bacall, Sean Connery e di nuovo Ingrid Bergman. Non male per qualcuno ricordato “solo” per un ruolo, no? Mi sento anche in dovere di spezzare una lancia a favore dei sequel di Psycho, che lo stesso Perkins ha scelto con convinzione di fare (dirigendone pure uno): ovviamente non è stato possibile replicare la perfezione del primo capitolo, ma i successivi non sono poi così inguardabili, anzi meritano la visione se non altro per la capacità di innovare la trama (senza contare che i nostri occhi hanno sopportato decisamente di peggio).
Passiamo alla terapia, centrale nella serie e nella vita di Perkins. Lo scrittore Christopher Isherwood scrisse nel suo diario di un incontro avuto con Anthony a una festa allo Chateau Marmont. Finito poi a cena con lui, ebbe modo di conoscerlo meglio: «È quasi inimmaginabile la sua solitudine. Va dall’analista quattro volte a settimana alle 6:30 del mattino». Nella serie di Netflix sono riportate le sedute con una psicologa, cioè Mildred Newman, finalizzate a “curare” l’omosessualità e/o accettare la bisessualità. Per anni infatti ha avuto relazioni con uomini, tra cui il ballerino Rudolf Nureyev, il fotografo Christopher Makos, l’attore Tab Hunter e in particolare, la più “stabile”, con l’attore e ballerino Grover Dale.
Seppur attratto dagli uomini, Perkins ebbe poi anche esperienze con donne e voleva fortemente una famiglia con una moglie e dei figli. Tramite amici, arrivò quindi alla dottoressa Newman, che si era formata presso Theodor Reik, allievo di Sigmund Freud. Secondo quanto lo stesso attore rivelò in una controversa intervista a People nel 1983, la terapia fu molto importante e lo aiutò a superare i problemi che aveva con il sesso femminile, capace, prima di allora, di provocargli uno stato di agitazione con paura e ansia. Affermava inoltre di aver avuto esperienze omosessuali, ma di trovarle «irreali e insoddisfacenti», e che grazie al percorso intrapreso e alla famiglia era finalmente sereno.
Oltre alla psicoterapia, altri due Newman affiancarono l’attore di Psycho nella questione della sua sessualità combattuta: Paul e la moglie Joanne Woodward, «i migliori amici che abbia mai avuto. Mi hanno veramente aiutato, sia come attore che come uomo. Forse però le loro buone intenzioni superarono i risultati». Paul e Tony lavorarono insieme in Un uomo oggi (qui c’era anche Joanne) e poi nell’Uomo dai 7 capestri.
Sul set del film di John Huston, e con lo zampino di Paul Newman, ci fu la prima esperienza eterosessuale dell’attore, a quanto pare. La partner fu Victoria Principal, che al tempo frequentava niente meno che Frank Sinatra. L’incontro fu descritto da Perkins come «una combustione spontanea», e per la prima volta un gossip trovava riscontro nella realtà. I pettegolezzi sulle donne hanno accompagnato ogni suo film e lui stesso ne commentò alcuni, raccontando di come le colleghe lo avessero avvicinato in cerca di altro, in particolare niente meno che Ingrid Bergman, Brigitte Bardot e Ava Gardner. Nel primo caso pare in realtà che l’attrice svedese volesse, più che blandirlo, metterlo a proprio agio in vista di una scena in cui avrebbero dovuto baciarsi. Bardot invece lo descrisse come «il sogno impossibile di tutte le donne» e lo invitò nel suo attico, situazione che mandò nel panico Perkins, il quale avrebbe preferito buttarsi dalla finestra.
Presa di coscienza sulla propria sessualità, finzione o lavaggio del cervello come suggerisce la serie tv? Non possiamo rispondere per lui. Nel 1972, dopo l’esperienza bollente con Victoria Principal, conobbe Berry Berenson, modella e fotografa nonché nipote della stilista Elsa Schiaparelli. La relazione tra i due lasciò perplessi amici e conoscenti, ma condusse comunque alla nascita di due figli e al matrimonio. Un’unione che durò fino alla morte dell’attore, con Berry vicina al marito soprattutto negli ultimi giorni.
Nonostante l’immagine pubblica e le interviste sulla loro serena vita matrimoniale, c’erano infedeltà da parte di Anthony con altri uomini e in molti si chiedevano come lui riuscisse a mantenere questa doppia vita. Lo stilista Halston, amico di famiglia e già padrino del figlio Oz, disse che era noto a tutti che il loro matrimonio era solo di facciata e che lui con gli uomini non desiderava rapporti duraturi, ma solo relazioni perverse: «Tony non è proprio come Norman Bates, ma è un pervertito tremendo». Anche Andy Warhol era scettico riguardo alla svolta eterosessuale dichiarata da Perkins, ma a differenza dello stilista si limitò ad annotare le sue considerazioni nel proprio diario.
Nel marzo del 1990, leggendo il National Enquirer, Perkins scoprì di essere malato di AIDS. Non aveva fatto il test, ma durante delle analisi del sangue a seguito di una paralisi parziale temporanea del viso, uno zelante tecnico di laboratorio decise di fare anche una verifica per l’HIV e, in seguito alla riscontrata positività, passare la notizia alla stampa. L’attore negò sempre la malattia, come per le relazioni con gli uomini era impaurito che ciò potesse portare ripercussioni sulla sua carriera. Il 12 settembre 1992, all’età di 60 anni, morì.
Tra le persone che più soffrirono la sua scomparsa ci fu Sophia Loren, e proprio una sua frase venne scritta nel biglietto per la commemorazione: «Incontrare Tony per la prima volta è come essere davanti a un puzzle complicato, quando lo completi è un tesoro». Poche parole che tuttavia descrivono Anthony Perkins decisamente meglio di quanto fatto da Monster. Forse questa volta è davvero necessario un biopic veritiero, magari interpretato dall’attore che più di ogni altro gli assomiglia: Andrew Garfield (regia di Luca Guadagnino?). Attendiamo fiduciosi.










