Cinque album per cominciare a capire la musica di James Senese | Rolling Stone Italia
’Ngazzate nire

Cinque album per cominciare a capire la musica di James Senese

Jazz-rock, blues, funk, radici napoletane: un’introduzione alla discografia di un musicista che ha sempre suonato la verità

Cinque album per cominciare a capire la musica di James Senese

James Senese

Foto: Riccardo Piccirillo

James Senese è stato uno di quegli artisti che sfuggono alle definizioni: sassofonista, cantante, compositore, autore, ma soprattutto voce di una Napoli inquieta, orgogliosa, meticcia. Per oltre 60 anni ha attraversato la musica italiana passando dal R&B degli Showmen al jazz-rock di Napoli Centrale alle prove più intime e spirituali della maturità. Figlio di una madre napoletana e di un soldato afroamericano, ha trasformato le sue due origini black & white in suono, fondendo la rabbia del blues con la melodia mediterranea, la denuncia sociale con la poesia urbana.

I cinque album che ho scelto non sono i migliori in assoluto, ma quelli più rappresentativi, i dischi che raccontano le sue molte vite artistiche e umane, dalle radici ribelli degli anni ’70 alle riflessioni mature del nuovo millennio. Cinque dischi per capire chi è stato davvero James Senese. Un artista libero, coerente, allergico ai compromessi. Uno che ha sempre suonato la verità, anche quando costava caro. Ora che non c’è più, quella verità resta. E fa ancora rumore.

Napoli Centrale

Napoli Centrale

1975

Quando nel 1975 con Napoli Centrale James Senese e Franco Del Prete, appena finita l’avventura Showmen con Mario Musella intento a crearsi una carriera solista, danno voce a una Napoli in piena trasformazione: popolare, urbana, inquieta, sospesa tra il sogno industriale e la delusione sociale del dopoguerra. È la città delle periferie in costruzione, dei nuovi quartieri che inglobano la memoria contadina e la mescolano con il cemento del progresso. In quel contesto nasce una musica diversa, figlia della rabbia e dell’amore, della mescolanza e della ferita. Registrato ai Chantalain Studios di Roma con il bassista inglese Tony Walmsley e il tastierista americano Mark Harris, l’album fonde jazz, funk e tradizione partenopea in una formula rivoluzionaria per l’Italia di allora: un suono che parla al corpo e alla coscienza. Le 90 mila copie vendute segnano un trionfo insperato per un disco sperimentale, realizzato da un gruppo che rifiuta le logiche commerciali e si affida solo all’urgenza del proprio linguaggio. Il brano simbolo, Campagna, è una delle più alte sintesi di musica e denuncia: il groove funk del basso e il sax coltraniano di Senese sostengono un testo che racconta la durezza della vita contadina, la disuguaglianza tra chi possiede e chi lavora la terra. “Com’è bella ’a campagna, è cchiù bella p’o padrone” canta James con voce roca, trasformando la lingua partenopea in grido politico. Non è folclore, ma linguaggio vivo, strumento di liberazione.

In ’A gente ’e Bucciano, l’emigrazione diventa canto malinconico e universale: chi parte lascia dietro di sé non solo una terra, ma un’identità. La musica alterna dolcezza e rabbia, con le tastiere che evocano il suono dei treni e il sax che urla come un addio. Brani come Pensione Floridiana e Vico Primo Parise n° 8 restituiscono invece la vita quotidiana della città: pensioni improvvisate, vicoli umidi, voci che si accavallano tra jazz e rumore urbano. A chiudere, ’O lupo s’a mangiato ’a pecurella, parabola feroce sulla violenza sociale e sull’eterna sopraffazione del più forte. L’impianto sonoro ruota attorno al dialogo tra sax e pianoforte elettrico: uno scambio continuo tra improvvisazione e struttura, tra pulsazione funk e libertà jazz-rock. La sezione ritmica, con Del Prete alla batteria, spinge ogni brano in avanti, costruendo una tensione che sembra il respiro stesso della città.

In un’Italia che scopriva la politica anche nella musica – da De André agli Area, dal Banco alla PFM – Napoli Centrale portava la questione meridionale dentro la contemporaneità sonora, facendola vibrare in tempo reale. Napoli Centrale non è solo un disco, ma un manifesto: un racconto della periferia napoletana degli anni ’70, un ponte fra Coltrane e i vicoli di Forcella, fra funk metropolitano e memoria contadina. È la storia di una città in bilico, vista con gli occhi di chi la abita e la soffre. In quelle note c’è la nascita di un linguaggio che anticipa molta musica che verrà dopo, compreso il blues mediterraneo di Pino Daniele, e che continua a ispirare generazioni di artisti (ascoltare i Nu Genea).

A distanza di mezzo secolo, Napoli Centrale resta un esempio di verità sonora: crudo, meticcio, libero. Un disco che non si può addomesticare, perché conserva la voce autentica di una città che non smette di interrogarsi. È musica che nasce dal basso e vola alto, profuma di mare, asfalto e sudore. Ascoltarlo oggi significa ritrovare quella scintilla originaria di ribellione e dignità che ha fatto di James Senese uno dei narratori più profondi del nostro tempo, la voce inconfondibile di una Napoli che, tra dolore e speranza, non ha mai smesso di cercare sé stessa.

Mattanza

Napoli Centrale

1976

Un anno dopo l’esordio che scuote le fondamenta della musica italiana, James Senese e Franco Del Prete tornano con Mattanza, un disco più cupo, più politico, più urgente. Registrato sempre con una formazione internazionale ma ormai pienamente consapevole della propria identità, il disco porta avanti la fusione tra jazz, funk e radici napoletane con un tono più crudo, figlio di un’Italia attraversata da tensioni sociali e disillusione. Il titolo stesso – mattanza è la carneficina dei tonni, ma anche metafora di una città ferita – segna la direzione: un racconto di violenza e sopravvivenza, di popolo e rabbia. La musica si fa più nervosa, con il sax di James che taglia l’aria come una lama, il basso profondo di Kelvin Bullen e il piano Fender di Pippo Guarnera che spingono il groove verso territori quasi psichedelici. Alla batteria troviamo Agostino Marangolo e in Sangue misto Bruno Biriaco. L’anima jazz resta, ma è attraversata da un’urgenza rock e da un senso di lotta collettiva. Brani come Sangue misto, Simme jute e simme venute e Chi fa l’arte e chi s’accatta raccontano la Napoli dell’emigrazione, della mescolanza culturale, delle vite ai margini. In Mattanza, la voce di James si fa rabbiosa, profetica: il dialetto diventa arma, lingua della denuncia. La sezione ritmica di Marangolo sostiene ogni colpo con una precisione quasi militante, mentre il sax alterna lirismo e dolore, facendo ancora una volta da ponte tra Coltrane e la strada.

Rispetto all’esordio, Mattanza abbandona ogni residuo di leggerezza. È un disco che non cerca compromessi né melodie rassicuranti: tutto suona urgente, diretto, necessario. Ogni nota sembra gridare la condizione di una città che non trova pace, ma che non rinuncia a cantare. Unica eccezione ‘O nonno mio che si distingue per intimità e liricità. È un omaggio intenso e personale al nonno materno che lo ha cresciuto, figura protettiva e guida in una infanzia segnata anche dalla mancanza del padre, con un testo dell’amico Franco Del Prete, l’unico in grado di tradurre in versi quel che prova James. Il sax di Senese qui diventa voce: non domina con virtuosismi, ma parla, sussurra, accompagna i versi. Il pianoforte elettrico o i toni più calmi della band creano un’atmosfera raccolta. Importante: il dialetto resta lingua viva, non abbellimento, e la musica lo sostiene con rispetto. Una pagina di verità personale, sul filo dell’affetto e della memoria. Quando ascolti la traccia, vale la pena fermarsi non solo alla melodia o al sax, ma al silenzio che crea, al respiro che lascia tra le note: perché è lì che si può cogliere la grandezza del non detto, del legame che supera le generazioni e trasforma la musica in testimonianza.

Oggi, Mattanza resta una scultura potente della seconda metà degli anni ’70: la musica come cronaca e resistenza, la Napoli periferica che si fa mondo. Un’opera che trasforma il dolore in ritmo, la rabbia in poesia, e conferma James Senese come una delle voci più autentiche e coraggiose della musica italiana.

Alhambra

James Senese

1988

Alhambra, prodotto da Willy David, è uno dei dischi più amati da Senese, una sorta di punto d’equilibrio nella sua lunga parabola artistica. In questo lavoro, Mister Sax ha ancora una volta al suo fianco l’amico e compagno di viaggio di sempre Franco Del Prete, autore dei testi. Ma Alhambra è anche il luogo simbolico di un incontro raro: quello con Gil Evans, il grande arrangiatore americano che qui firma le orchestrazioni e siede al pianoforte elettrico in diversi brani. Evans non è soltanto una presenza artistica, ma un interlocutore spirituale per Senese, un musicista capace di comprendere la radice mediterranea del suo jazz e di restituirla in una forma universale. Il risultato è un disco di svolta. Se negli anni ’70 Napoli Centrale aveva incarnato l’urgenza della denuncia sociale e l’identità di un Sud che voleva farsi ascoltare, Alhambra sposta lo sguardo verso un orizzonte più ampio: la memoria, il viaggio, la contaminazione culturale come linguaggio. La presenza di Gil Evans amplifica questo slancio verso un’idea di jazz di “confine”, una musica che non appartiene più soltanto a un luogo, ma a un sentimento cosmopolita e umano.

L’album si apre con Love Supreme, dichiarazione di poetica e omaggio esplicito al genio di John Coltrane. Senese lo considerava un tributo necessario, un ponte ideale fra la spiritualità coltraniana e la visceralità partenopea. Musicalmente, Alhambra è un mosaico di tensioni e armonie. La scrittura si muove fra strutture elaborate e momenti di assoluta immediatezza, con groove profondi e un interplay ritmico che attinge tanto al funk quanto al blues. I fiati di Senese non sono più soltanto voce solista, ma strumento narrativo: gridano e accarezzano, disegnano melodie che oscillano fra nostalgia e ribellione. La presenza di Evans al piano e agli arrangiamenti conferisce al tutto una densità orchestrale nuova: le linee si intrecciano, i suoni si allargano, la musica diventa paesaggio. È un suono più “orizzontale”, corale, in cui ogni strumento ha dignità di voce. Un brano cardine è lo strumentale Alhambra (Memento per Gil Evans): un’elegia in forma di jazz, sospesa fra passato e presente. La musica sembra fermare il tempo per celebrare quella complicità artistica nata quasi per destino. In questa composizione, James riflette sull’eredità del maestro americano e sul senso stesso dell’incontro tra Napoli e New York, tra Mediterraneo e jazz. È un dialogo di culture e memorie, dove il sassofono diventa la lingua di un sentimento collettivo. Il disco prosegue su traiettorie altrettanto intense: Hiwinnet (Love Supreme) si muove tra spiritualità e groove, Dolce malinconia evoca un lirismo urbano, mentre altri momenti brillano per equilibrio e profondità come Sciaccò, Anema nera, Tambòo. A rendere il tutto ancora più ricco è una vera e propria all star di musicisti che danno corpo al sogno di James: Gigi De Rienzo, Ernesto Vitolo, Joe Amoruso, Tullio De Piscopo, Rino Zurzolo, Franco Giacoia, Carlo Avitabile, Rob Vuono, Willy N’For e Andrée Tia. Ognuno di loro porta una sfumatura, un accento, un respiro diverso, una dimensione collettiva.

’Ngazzate nire

Napoli Centrale

1994

Dopo i pionieristici anni ’70, quando Napoli Centrale aveva riscritto i confini del jazz-rock italiano, mescolando blues, funk e coscienza sociale in dialetto, ’Ngazzate nire arriva come una svolta, un atto di maturità e di consapevolezza. James Senese non si limita a riprendere una formula, ma rielabora la propria identità musicale, la radice napoletana e la rabbia civile in una forma più asciutta, tagliente e contemporanea. Le musiche portano la sua firma, i testi quella di Franco Del Prete, il compagno di viaggio di sempre, poeta delle strade e del sudore. Intorno a loro si costruisce una nuova squadra: Alfredo Paixao al basso, Manolo Badrena alle percussioni, Mitchel Forman alle tastiere e al piano, T. Di Francia al violoncello, Michele Ascolese alla chitarra acustica e Agostino Marangolo alla batteria. Un ensemble di grande caratura, capace di dare respiro cosmopolita a un disco profondamente mediterraneo.

Il titolo ’Ngazzate nire, letteralmente “incazzato nero” è già dichiarazione d’intenti. È un album costruito sulla rabbia, ma non quella cieca e impulsiva: una rabbia lucida, ritmata, riflessiva. Come canta James nel brano che apre il disco, “So’ ’ngazzato nire, e nun me voglio cagna’”, la collera diventa una forma di resistenza morale, un modo per restare coerente in un mondo che invita al compromesso. Senese e Del Prete mettono in scena l’indignazione contro la corruzione, la marginalità, la decadenza di una città ferita, ma lo fanno con l’urgenza di chi non vuole solo denunciare, bensì comprendere. La rabbia, in questo disco, è anche consapevolezza.

Musicalmente, ’Ngazzate nire lavora per contrasti. Ci sono groove incalzanti e aperture liriche, sezioni lente e improvvise accelerazioni, linee di basso che spingono come onde e percussioni che avvolgono. Le tastiere di Forman e il violoncello di Di Francia introducono spazi atmosferici inediti per la musica di Senese, che da sempre predilige la fisicità dei fiati e del ritmo. Il risultato è un suono più stratificato e cinematico, capace di unire la strada e la visione. La lingua napoletana, ancora una volta, è verbo della verità. James non lo usa per colore o folclore, ma come linguaggio della carne e della coscienza. In Napule t’è scetà (Napoli, svegliati), il grido è chiaro: “Te si’ scurdata ’e criature ca nun teneno pane”. È la città che parla a se stessa, che si guarda allo specchio dopo la sbronza degli anni ’80. In …e magnate ’o limone il tono diventa ironico, amaro, corrosivo: “E allora ridite, ca nun ve fa male / intanto magnate ’o limone, ca ve fa passà ’a fame”. La satira sociale si intreccia con il groove funk, la denuncia con il sorriso amaro del disincanto.

Dal punto di vista armonico e ritmico, l’album conserva una matrice jazz-rock ma la spinge verso un terreno più funk, più urbano. Paixao costruisce un basso pulsante, elastico, mentre le percussioni di Badrena aggiungono una dimensione tribale, quasi spirituale. È una musica che non cerca più la perfezione, ma l’autenticità: la rabbia non solo in faccia, ma dentro, che si riflette e si elabora.

James Is Back

James Senese JNC

2021

James Is Back è il ventunesimo disco di Senese, che lo presenta con queste parole: «Nella società attuale è diventato molto difficile far prevalere il bene sul male … ho guardato un po’ dappertutto, per trovare una voce comune che potesse entrare nel cuore della gente». Aggiungendo:
 «È un disco molto sofferto… ma pieno d’amore… Il lavoro che ho fatto è stato di cercare un unico suono: quello della verità, il mio essere nero e bianco… per potermi ritrovare e rintracciare la mia identità». Il suono è caratterizzato da un mix coerente di funk, jazz, soul mediterraneo e un approccio lirico maturo. Non si tratta solo di ritmo e grinta: c’è introspezione, c’è la voce di un uomo che ha vissuto e che a 76 anni ha ancora molto da dire.

Il brano d’apertura, Voglio partì, suona come un’invocazione alla libertà: partire, uscire dai confini, cambiare stato. Il sassofono di Senese si fa guida, la sezione ritmica pulsa con decisione. In L’America la riflessione si sposta sulla dimensione globale e personale insieme: la terra promessa o la fuga? Una domanda sospesa che accompagna le note. La title track James Is Back è un’affermazione: lui è tornato, ma non per nostalgia. È tornato combattivo come sempre, per testimoniare che il suono, la verità, la sincerità non invecchiano. “Scennimmo a fà ‘a guerra e luvammo ‘a miezo ‘sti fetiente. James is back”. Nel singolo Je sone si coglie un afflato quasi autobiografico: “questo sono io”, potrebbe essere il sottotitolo. In ’O meglio amico mio emerge il tema dell’amicizia, della lealtà, del tempo che passa ma non cancella certe relazioni. Jesce fore (esci fuori) è invito e monito: spingiti oltre, vivi, lotta, esci. Duendes introduce una dimensione più spirituale, quasi mistica, mentre Ancora ancora e Tutta ’a vita accussì chiudono il percorso con la consapevolezza che la vita è ciclo, ripetizione, ma anche potenza.

Musicalmente l’album riflette la cura degli arrangiamenti e della produzione: pochi ma efficaci collaboratori, una band calibrata per far emergere il sassofono senza sovrastarlo, ma con un contorno solido. Le tastiere di Lorenzo Campese, il basso di Rino Calabritto, la batteria di Fredy Malfi, creano un tappeto groovy che lascia spazio all’improvvisazione ma dentro un contesto consapevole. L’equilibrio fra l’urgenza del groove e la riflessione del respiro è uno degli esiti più riusciti del disco.

L’importanza di James Is Back risiede non solo nella qualità del suono, ma nel paradigma che propone: un musicista sì 76enne ma ancora in piena forma, ancora con qualcosa da dire e, soprattutto, con chiave espressiva contemporanea. La “strada giusta”, come la chiama Senese e come cantava il suo fratellino Pino Daniele “yes I know my way”, non è nostalgica e non è compromessa. È una strada di sentimento, di verità, di identità. James Is Back non è semplicemente un buon disco: è un album che testimonia l’integrità di un artista che ha attraversato decenni di musica senza mai tradire se stesso. È ritmo e riflessione, sudore e luce, dialetto e respiro internazionale. Per chi vuole ascoltare un sassofono che tace solo per poi ribellarsi, per chi cerca la tensione fra radice e apertura, Senese qui offre una lezione di musica… e di vita.

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