La recensione di 'La bella confusione' di Charlie Charles | Rolling Stone Italia
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Charlie Charles ha fatto un onesto disco sanremese, ma non paraculo

‘La bella confusione’ è una prova interessante per un produttore che non pensa a scroccare fama e numeri e che con un po’ di studio mirato potrebbe tirar fuori il capolavoro. La recensione

Charlie Charles ha fatto un onesto disco sanremese, ma non paraculo

Charlie Charles

Foto: Enea Colombi

Caspita che disco interessante, La bella confusione di Charlie Charles. Ecco, a dirla tutta fosse però di qualcun altro, ’sto album, non è probabilmente «interessante» l’aggettivo che useremmo. Useremmo «ben fatto», «professionale», «di gran mestiere», cose di questo tipo. E a dirla ancora più tutta, «interessante» non avremmo mai pensato di usarlo per un LP che, insomma, pare gridare da ogni angolo e da ogni prospettiva: Sanremo. Però ecco, il mondo nel frattempo si è rovesciato. Sanremo ha scoperto il pop in salsa urban come necessario ritocchino e ricostituente, grazie alle cure estetiche e compositive dei Dardust e a quelle liriche dei Petrella; e l’urban ha scoperto che in fondo Sanremo è perfettamente funzionale a ciò che più di ogni altra cosa gonfia l’ego di ogni artista di nuova generazione, ovvero i numeri. Queste due galassie si sono unite in armoniosi sensi invece di farsi la guerra e guardarsi in cagnesco, per l’officiante gioia democristiana populista degli Amadeus e dei Conti e di quei buoni o cattivi diavoli che sono i discografici, sempre assetati di successi e trionfi, naturaliter allergici ai perdenti.

La cosa importante da dire però a questo punto è che di tutte queste considerazioni a margine, possiamo abbastanza metterci la mano sul fuoco, a Charlie Charles non frega un cazzo. Ma proprio zero. La bella confusione, per quanto sia un disco clamorosamente sanremese nella scrittura musicale, non è stato minimamente scritto in modo calcolato per finire alla Riviera dei Fiori, e neppure negli streaming. Poi chiaro, la label – in questo caso Island – ci spera: d’altro canto se nel disco metti Sfera Ebbasta, Ernia, Mahmood, Madame, Bresh, Nayt, Massimo Pericolo e la sempre splendida voce di Elisa, diciamo che la speranza di fare numerelli importanti su Spotify, YouTube ed amichetti non puoi non averla. Però, però, però: la testa – e gli obiettivi – di Charlie Charles stavano e stanno altrove.

È più importante che mai, contestualizzare questo album. È più importante che mai per capire che l’afrore di sanremesità del disco non nasce infatti da una paraculaggine del suo creatore ma arriva, in realtà, dall’esatto contrario. Riavvolgiamo il nastro. Provate a fare mente locale: Charlie Charles nell’arco di un amen, con l’esplosione dell’ondata del 2016, è stato proiettato dall’anonimato al rango di genio, di Re Mida assoluto, di fuoriclasse assoluto della produzione in grado di capire e riprodurre, come nessun altro, ciò-che-funziona, lo Zeitgeist più commercialmente persuasivo, rivoluzionario, efficace, illuminato, incendiario. Un fardello di responsabilità che o si poteva prendere ed indossare con noncuranza e strafottenza, lucrando fin quanto possibile, o – se si era una persona onesta – poteva ad un certo punto semplicemente far star male, mettere assai a disagio. Per Charlie Charles, anzi, per Paolo Alberto Monachetti, è stata ovviamente la seconda.

Charlie Charles, Sfera Ebbasta - Una volta in più (Visual)

L’impressione infatti è che lui sia una persona profondamente appassionata di musica da un lato, e profondamente onesta con sé dall’altro. Un successo troppo grande, troppo improvviso, troppo celebrato se sei onesto non può che mandarti sottosopra. E questo è successo, come ci raccontava lui stesso due anni fa, in quello che doveva essere un ritorno in pompa magna con gli amichetti più famosi invece fu solo una momentanea parentesi, un piccolo cenno per far vedere che sì, era ancora vivo, e no, non era andato via di testa. O se di testa era andato via, ecco, comunque era pronto a tornare, era in grado di tornare.

Da lì è seguito altro silenzio. Ma sentendo La bella confusione, si capisce perché. Al di là dei richiami colti (a Fellini, ad Otto e mezzo, a Toni Servillo che ne recita un monologo), al di là dell’essere per certi versi un concept album (il dialogo tra sé e se stesso in Paolo), quello che è da apprezzare è che Charlie Charles ha fatto un enorme lavoro di decostruzione di se stesso e del suo (troppo facile) successo, e invece di utilizzare trucchi e trucchetti che lo hanno sparato nell’iperuranio ha scelto invece di ripartire da zero, e di studiare con enorme attenzione l’arte della scrittura della musica. I basics insomma dell’artigianato pop di alta fattura, di profondo mestiere. Che in Italia, piaccia o meno, si sovrappongano per l’appunto a Sanremo un po’ da sempre. Certe successioni armoniche, certe scelte melodiche, certa attenzione alla dinamica, certa propensione all’enfasi da usare senza vergogna ma al tempo stesso con accortezza e solo in determinati momenti sono tutte caratteristiche che non appartengono al mondo dell’urban (da cui Charlie Charles proviene), un mondo che va molto più dritto al sodo, ma sono patrimonio di chi la musica la rispetta e la vive come artigianato e mestiere (che è ciò a cui Charlie Charles, per intima onestà, vorrebbe appartenere).

Insomma, questo lavoro è tutto tranne che un compitino compilativo in cui il producer re-midesco di turno fa quello che sa meglio fare e, a garanzia, chiama al microfono i sodali più famosi a cui riesce a strappare un buco in agenda per piazzare lì un featuring. La bella confusione è organico, con una sua coerenza, con una sua storia da raccontare, con la ricomposizione di quell’affascinante dualismo per cui la trama dei dolori emotivi, esistenziali e personali del giovane artista si sovrappone perfettamente alla denuncia dei meccanismi più cinici e crudeli dell’industria discografica. Ma mentre in altri momenti il trapper/cantante urban di turno che si lamenta di quanto sia brutto essere diventati famosi è stucchevole, qui invece suona perfettamente sincero, appropriato, onesto.

Charlie Charles, Elisa, Madame - Ti chiamerò amore (Visual)

Vale per il Mahmood che gorgheggia “in ogni fottuto momento mi pento di me”, vale per Blanco e il suo “eravamo solo ragazzini nel buio”, vale per Sfera e “non sarò mai più povero come da ragazzino, ora che ho un milione non mi sembra figo”, tutte cose che sentite in altri contesti farebbero ormai sbuffare un po’, ma Charlie Charles con la sua musica ci costruisce un contesto sonoro ed emotivo attorno che rende tutto giusto, sincero, sensato. Un risultato a cui puoi arrivare non se tiri fuori i soliti tre, quattro trucchetti urban a colpi di tastieroni e drum machine: no, hai bisogno di aver imparato l’arte della canzone. Seriamente, non per sentito dire. Sbattendoci sopra la testa, e l’impegno.

Per Charlie Charles tutto questo è un po’ nuovo, ci si è dovuto mettere partendo da zero. Ecco perché alcune parti sembrano un po’ ingenue e retoriche, ad orecchie smaliziate. Ecco perché il sapore-di-Sanremo. Ma oltre ai difetti e le mezze ingeuità/banalità ci sono comunque i pregi di uno che fa vedere di avere delle cose da dire, musicalmente parlando; e anzi da un lato ha dalla sua l’eco lunga del periodo Re Mida, che non va dimenticato, non va sottovalutato, non va accantonato, ma questo periodo invece di spremerlo fino ad esaustione lo centellina per impegnarsi assai più nel fare un passo in avanti, nel capire come funziona una canzone voce e chitarra (Pericolo, con Bresh) o voce e pianoforte (Superstite, con Massimo Pericolo), come valorizzare un timbro bello come quella di Elisa (in Ti chiamerò amore), come essere intimisti pure evocando un po’ di cassa dritta (Attacchi di panico, con Blanco). Il risultato è interessante, per certi versi quasi spiazzante, come quando vedi i rocker d’altri tempi mettersi in giacca e cravatta per essere insigniti baronetti, ma è comunque un risultato che racconta di un producer che è qui per stare, lavorando duramente, e non per invece scroccare fama e numeri finché la barca va.

C’è una cosa che ci dispiace molto, per Charlie Charles: è ovviamente troppo giovane per aver vissuto in prima persona l’ultimo periodo in cui era chiaro cosa fosse alternativo e cosa fosse antagonista, in musica, quegli anni ’90 in cui Underworld e Beck finivano sì in classifica, ma gli uni facendo techno durissima e l’altro facendo blues slabbrati. Dandogli un consiglio, lo inviteremmo a studiare meglio quella fase storica: lui è cresciuto in una fase in cui o era tutto troppo veloce e troppo punk per fermarsi a riflettere, visto che c’erano il rap e gli ascolti giovanili da rivoluzionare, o una volta approdati al mainstream si incontrava improvvisamente un magna magna in cui tutti sono amici e tutti si vogliono bene, e le frontiere etiche ed estetiche tra underground e commerciale sembrano semplicemente non esistere. Se si mette di buzzo buono anche a studiare gli anni ’90, oltre al pop di mestiere come fatto ora per la La bella confusione, è la volta buona che Charlie Charles tira fuori il capolavoro vero, non solo come adesso un disco buono, ben fatto ed onesto.

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