I vitelloni di Federico Fellini
Arts n. 461, 28 aprile ‑ 4 maggio 1954
Sono chiamati «vitelloni» quei giovani che, ormai vicini alla trentina, hanno come unica ragione di vita oziare e riuscire a non lavorare. In una cittadina della provincia italiana imperversa un gruppo di vitelloni di cui Fausto (Franco Fabrizi) è il capo incontrastato. Fausto è costretto a sposare Sandra (Leonora Ruffo), che da lui aspetta un figlio. Il padre di Sandra trova lavoro a Fausto come ragazzo di bottega.
Facile intuire che Fausto non si adatterà particolarmente bene alla nuova situazione, fino ad arrischiarsi, una sera, a corteggiare la moglie del suo principale e, di conseguenza, a essere licenziato. Fausto se ne torna così dai suoi amici e la vita ricomincia, dal bar alla spiaggia, dalla spiaggia all’hotel, e così via. Una sera, Sandra – che ha partorito – scappa e si rifugia dal padre di Fausto; quest’ultimo si riprenderà sua moglie, troverà un impiego e cercherà di convertirsi a una vita più familiare. Un mattino, il fratello di Sandra partirà alla ricerca di un’esistenza migliore, e il gruppo dei vitelloni si smembrerà.
Sarebbe inutile cercare in questo film una costruzione rigorosa della sceneggiatura, uno studio psicologico dei personaggi o un intreccio ben strutturato. Gli autori non hanno avuto ambizioni diverse dal farci sorridere di un comportamento che, da noi, ritroveremmo simile tra l’oziosa gioventù di Saint‑Germain‑des‑Prés.
Ma i vitelloni non ha pretese d’intellettualismo. Questo film ci presenta in qualche modo gli sciuscià di De Sica raggiunta l’età adulta. Un film migliore, Sotto il sole di Roma, ci mostra l’età intermedia. Il film, firmato dal celebre sceneggiatore del Miracolo, Federico Fellini, avrebbe potuto essere scritto e diretto dai vitelloni stessi, tanta è l’indolenza e la vaghezza nella concezione della sceneggiatura e nella regia. Molti registi italiani sono vitelloni: affrontano il cinema da principianti, dilettanti, senza curarsi né delle norme né delle regole, che non è vizio redibitorio a condizione di avere del genio; ma il genio è forse di per sé esonerato dalla disciplina?
Comunque sia, I vitelloni è un film piacevole poiché, in Italia, gli attori sono abbastanza spontanei da uscire vittoriosi da una direzione inesistente, i paesaggi abbastanza tersi da essere fotogenici a dispetto di un operatore frettoloso, il buonumore sufficientemente contagioso da riuscire a bucare lo schermo e installarsi, ben a proprio agio, nella mente riposata di spettatori non troppo esigenti.

Foto: press
Una grande opera: Lui di Luis Buñuel
Arts n. 467, 9‑15 giugno 1954
Francisco (Arturo de Córdova) è un ricco proprietario terriero messicano, fervente cristiano, uomo caritatevole, uomo «per bene» nell’accezione sociale del termine. In una chiesa, incontra una giovane donna di cui, chinandosi, nota i piedi imprigionati in semplici scarpe con i tacchi alti e sottili. Eccolo dunque furiosamente innamorato.
Scopre che Gloria (Delia Garcés) è fidanzata con uno dei suoi amici ma, in pochissimo tempo, la seduce e la sposa. A pochi mesi di distanza, una Gloria sconvolta rincontra il suo primo fidanzato e gli racconta la sua vita coniugale: Francisco è uno squilibrato, un instabile, un sadico, un’anima ossessionata da una gelosia morbosa. Ma a volte Francisco sa anche essere attento e tenero, e per questo motivo Gloria è restia a lasciarlo. La donna, però, subisce presto nuove, crudeli sevizie e, una sera in cui Francisco spinge le sue violenze all’estremo, fugge; da quel momento Francisco è preda di allucinazioni che lo condurranno a cercare di strangolare un prete di fronte all’altare dove officia (nello stesso luogo in cui aveva visto per la prima volta le caviglie di Gloria). Qualche anno più tardi Gloria, accompagnata dal suo primo fidanzato che nel frattempo ha sposato, si reca nel convento dove Francisco si è ritirato in seguito a un trattamento terapeutico; vi trova un uomo che è diventato per i confratelli un esempio di fervore e raccoglimento.
Non bisogna farsi trarre in inganno dalla stravaganza di questa sceneggiatura e rigettare senza possibilità d’appello un film che invece è senza dubbio il migliore dal suo autore e una grande opera. I primi film di Luis Buñuel, Un chien andalou – Un cane andaluso e L’età dell’oro, non erano superiori agli altri film d’avanguardia della stessa epoca (Entr’acte, La coquille et le clergyman – La conchiglia e l’ecclesiastico, Ballet mécanique – Danza meccanica, eccetera). Ma si tratta di un genere che non progredisce facilmente e sembra che il genio di un cineasta si affermi soprattutto quando deve sormontare l’handicap del film commerciale. Se l’incontro di un ombrello e uno spazzolino su un tavolo operatorio è, per alcuni, emozionante, per molti altri la sottigliezza dei rapporti tra due personaggi in carne e ossa, due sguardi che si incontrano, lo sono di più.
Dal Cane andaluso a Robinson Crusoe o a Lui, Buñuel ha percorso, come ha detto giustamente André Bazin, la strada dalla «Rivoluzione al Moralismo». Lui non è né un film anticlericale né un film surrealista, e non è nemmeno una requisitoria, una constatazione o un pamphlet. Se Buñuel avesse voluto fare un processo al puritanesimo e alla gelosia, avrebbe avuto cura di tracciare – col personaggio del primo fidanzato – il ritratto dell’uomo equilibrato e sano perché ateo e privo di qualsiasi pregiudizio sociale. Non ha fatto nulla di tutto ciò; al contrario, sembra piuttosto che attraverso la narrazione di Gloria che si ritiene incompresa, è lo stesso Francisco che sente di esserlo e ne soffre più di qualsiasi uomo al mondo. È lecito pensare che Lui contenga una certa quantità di notazioni autobiografiche. Come Quarto potere, Le sang d’un poète o Perfidia, Lui prende il posto che già gli spetta: una grande opera del cinema moderno.
Rebecca di Alfred Hitchcock
Arts n. 495, 22‑28 dicembre 1954
Quella del primo film americano di Alfred Hitchcock è una replica importante. Dalla sua uscita, Rebecca si è dimostrato superiore sia al romanzo da cui è tratto sia ai film realizzati da Hitchcock nella sua natia Inghilterra. Resta il fatto che, alla luce dei dodici o tredici film americani dello stesso autore usciti dal 1945, gli «hitchcockiani» più attenti, grazie alla nuova uscita, si potranno gustare meglio questa Rebecca che prefigura in maniera straordinariamente precisa Il sospetto e, soprattutto, Sotto il capricorno, considerati in generale i capolavori di Hitchcock. In questo primo film hollywoodiano appaiono i temi che ritroveremo in seguito in tutte le opere del «secondo periodo di Hitchcock»: il sospetto, il fascino esercitato da un essere umano su un altro, la salvezza attraverso la confessione di un segreto. Attendiamo con impazienza la replica di un altro film di Hitchcock: Notorious – L’amante perduta. Rebecca è un film da vedere, ma soprattutto da rivedere.
L’infernale Quinlan di Orson Welles
Arts n. 673, 4‑10 giugno 1958
Si potrebbe rimuovere il nome di Orson Welles dai titoli di testa senza per questo fare alcuna differenza perché, sin dalla prima inquadratura, proprio da quei titoli di testa, è evidente come dietro la macchina da presa ci sia il cittadino Kane.
Il film si apre sul meccanismo di una bomba a orologeria che un uomo posa nel bagagliaio di un’automobile; una coppia sale sulla vettura, che parte e che seguiremo per la città, il tutto in un’unica ripresa, sin dall’inizio; la macchina da presa, appollaiata su una gru chiaramente motorizzata, ora perde e ora ritrova l’automobile bianca che passa dietro le case, poi la precede o la raggiunge, fino all’esplosione attesa.
L’immagine è sensibilmente deformata dall’uso sistematico dell’obiettivo grandangolare da 18,5, che permette di ottenere uno sfondo più nitido e che poetizza la realtà poiché un uomo che cammina verso la macchina da presa sembra avanzare di cento metri in appena cinque passi. Lungo tutto il film siamo quindi nel bel mezzo di una fantasmagoria, i cui personaggi paiono camminare con gli stivali delle sette leghe quando non sembrano direttamente trascinati da un nastro trasportatore.
C’è il cinema praticato da imbecilli che sono anche cinici (Il ponte sul fiume Kwai, I giovani leoni), destinato ad adulare il pubblico che esce dalla sala sentendosi migliore o più intelligente, e c’è il cinema intimo e fiero, praticato senza compromessi da pochi artisti sinceri e intelligenti che non disprezzano il pubblico e preferiscono inquietarlo anziché tranquillizzarlo, risvegliarlo anziché addormentarlo.
Uscendo da Notte e nebbia di Alain Resnais non ci sentiamo «meglio», ci sentiamo peggio. Uscendo da Le notti bianche o dall’Infernale Quinlan ci sentiamo meno intelligenti di quando siamo entrati, ma comunque soddisfatti da tutta quella poesia e quell’arte. Sono film che richiamano il cinema all’ordine e ci fanno vergognare dell’indulgenza dimostrata davanti a opere fondate su poco talento e molte concessioni.
«Eh, allora!» mi direte voi, che foga per un filmetto poliziesco realizzato per fare soldi, per il quale Welles ha scritto sceneggiatura e dialoghi in otto giorni senza avere nemmeno il diritto di monitorare il montaggio finale, nel quale è stata inserita una decina di inquadrature esplicative che si era rifiutato di girare, questo film su ordinazione che nemmeno lui stesso ha mai visto finito e che rinnega con veemenza!
Ne sono consapevole, ma so anche che lo schiavo che una sera riesce a spezzare le sue catene sta meglio di quello che non sa di essere incatenato e che questo film, Touch of Evil, è il più libero che si possa vedere. René Clément ha avuto il controllo di qualsiasi aspetto della Diga sul Pacifico: ha montato lui stesso il film, scelto la musica, mixato, tagliato cento volte. Ciò non impedisce che Clément sia lo schiavo e Orson Welles il trovatore. Qui, vi consiglio caldamente i film dei trovatori.
Orson Welles ha adattato per il grande schermo un misero romanzetto poliziesco pubblicato in Francia con il titolo Manque de pot, semplificandone all’estremo l’intreccio criminale fino a farlo coincidere con la sua trama preferita: il ritratto di un mostro paradossale, da lui stesso interpretato, per il quale traccia la più semplice delle morali, quella dell’assoluto e della purezza degli assoluti. Genio capriccioso, Orson Welles tira l’acqua al suo mulino e sembra dirci con chiarezza: mi scuso se sono un bastardo, non è colpa mia se sono un genio, sto morendo, amatemi.
Come in Quarto potere, Lo straniero, L’orgoglio degli Amberson e Rapporto confidenziale, due personaggi si affrontano, il mostro e il giovane protagonista simpatico. Si tratta di rendere il mostro sempre più… mostruoso e il giovane protagonista sempre più simpatico, conducendoci comunque, alla fine, a versare una lacrima virtuale sul cadavere del prestigioso mostro: il mondo non tollera l’eccezione, ma l’eccezione, per quanto nefasta, è l’ultimo rifugio della purezza. Orson Welles si è ritagliato il ruolo di un poliziotto brutale e avido, un asso dell’inchiesta, molto rinomato. Poiché è mosso unicamente dal suo intuito, smaschera gli assassini senza aver bisogno di prove. Ma l’apparato giudiziario, composto da gente mediocre, non può condannare un uomo senza prove. Così, l’ispettore Quinlan – ossia Welles – si è abituato a fabbricarle, a produrre false testimonianze per far trionfare il suo punto di vista, per far trionfare comunque la giustizia.












