Vinicio Capossela ci fa spiare Dylan Thomas dal buco della… scrittura | Rolling Stone Italia
La 24 ore di Llareggub

Vinicio Capossela ci fa spiare Dylan Thomas dal buco della… scrittura

‘Nel bosco di latte’ non è un concerto, ma un radiodramma senza trama con una decina di canzoni inedite, un teatro delle voci in cui perdersi e ritrovarsi. Lo abbiamo visto ieri sera all’Olimpico di Vicenza

Vinicio Capossela ci fa spiare Dylan Thomas dal buco della… scrittura

Capossela al Teatro Olimpico di Vicenza

Foto: Roberto De Biasio

Capossela ci ha fatto vedere qualcosa che – in quel modo lì, in un posto come quello lì – in Italia poteva fare solo lui. Con quella sua solita maledetta miscela di spontaneità, ambizione sventata ed entusiasmo lucido ha portato al Teatro Olimpico di Vicenza l’ultima opera, postuma, di Dylan Thomas, il radiodramma Nel bosco di latte / Under Milk Wood. L’ha fatto in occasione della chiusura del biennio di direzione artistica di Ermanna Montanari e Marco Martinelli del Ciclo di spettacoli classici, per omaggiare il lavoro del Teatro delle Albe sulla voce.

L’ha fatto perché lo voleva fare e perché sapeva di poterlo fare bene. Perché era un progetto rimasto incompiuto di una persona a lui cara, Renato Striglia – una vita dedicata alla radio – che è venuto a mancare qualche anno fa. Perché come ognuno degli oltre 60 personaggi del Bosco di latte ondeggia tra ingenuità e mania – chi per gli orologi, chi per le pulizie, chi per il sesso, chi per i metodi di avvelenamento – anche Capossela, anno dopo anno, giorno dopo giorno, continua a buttarsi in mondi totalmente diversi: insegue ciò che lo tiene vivo, e dopo averlo agguantato ci si impunta, lo sviscera e ci si immerge, con quell’innocenza pura che sfocia in ossessione. Unico modo per esorcizzare e passare al progetto successivo è trasporre quell’ossessione in una storia e poi portarla su un palco. E restituirla lasciandola andare, dopo averla fatta propria. Così facendo, ci fa un favore, perché un po’ arriva anche a noi.

Mettere in scena un radiodramma – scrittura di finzione pensata appositamente per la messa in onda radiofonica, per un medium specifico – è già di per sé un paradosso. Forse se n’è accorto anche lui, tant’è che per evitare problemi l’ha messo in scena letteralmente, posizionando sul palco una grande radio anni ’60. È la prima assoluta di Nel bosco di latte – che l’anno prossimo vedrà una produzione propriamente radiofonica – e veniamo subito messi in guardia: «Si tratta di un esperimento, di una prima volta in forma di prototipo. Non si sa: o funziona, o ti esplode in mano».

Foto: Roberto De Biasio

Under Milk Wood è l’ultimo lavoro di Dylan Thomas, il poeta e drammaturgo gallese natio di Swansea, idolatrato da una generazione tanto che Robert “Bob” Zimmerman ha preso a prestito il suo nome come cognome d’arte. Ha finito di scriverlo a New York, nella camera 215 del Chelsea Hotel, nell’ottobre del 1953. La stessa stanza che l’ha visto entrare in coma nel novembre di quello stesso anno e morire a 39 anni, qualche giorno dopo, al St. Vincent’s Hospital, per i venditori di souvenir a causa di qualche bicchierino di troppo al White Horse Tavern (“I’ve had eighteen straight whiskeys, and I think that’s the record”), più verosimilmente per una polmonite e overdose di morfina somministrata erroneamente dal medico. Una ventina d’anni dopo, in quello stesso hotel, su quello stesso piano, quattro camere prima, alla 211, l’altro Dylan, Bob, avrebbe scritto Sad-Eyed Lady of the Lowlands.

Nel bosco di latte è un play for voices, un racconto di tante voci destinato all’ascolto cieco, che nel ’54 vale a Thomas il Prix Italia, il più importante riconoscimento internazionale dedicato all’arte radiofonica. Il suo bosco di voci dà vita al villaggio marittimo di Llareggub (l’inverso di “bugger all”, un bel niente) e si limita a descriverne 24 ore di vita. Nelle istruzioni per l’uso, Capossela lo dice chiaramente: «Non c’è trama. Ci sono queste persone che vengono descritte dal buco della scrittura. La voce narrante ci accompagna a partire dai loro sogni, e li sentiamo manifestare la propria esistenza. C’è uno stato di natura, senza giudizio: una manifestazione dell’umano». Si abbassano le luci sulla scenafronte, sta per iniziare la messa in onda.

“Naturalmente è permesso lo stato di semi-coscienza. Buona immaginazione”.

Il radiodramma di Capossela (regia a quattro mani con il vecchio Snaporaz Luca Sebastiani) prende forma da un intreccio di fonti sonore. Ci sono le voci parlanti di Vinicio e Alessandro Mizzi. Ci sono una decina di canzoni inedite ispirate al villaggio e i suoi abitanti. La grazia leggiadra di Irene Sciacovelli, alle voci e agli specchi. Ci sono gli archi di Andrea Lamacchia, Raffaele Tiseo (anche agli arrangiamenti) e Daniela Savoldi, che concimano e dipingono il sottobosco di latte. Ci sono le voci fuori campo – registrate e montate da Alberto De Grandis e Stefano Asso Stefana (anche alle chitarre) – che danno timbro e sostanza alle dozzine di personaggi che bazzicano Llareggub: dalla padrona di casa Ermanna Montanari ad Alessandro Bergonzoni, passando per Luciana Littizzetto, Stefano Bollani, Patty Pravo, Roy Paci, Geppi Cucciari, Sir Oliver Skardy e molti altri. C’è il theremin di Vincenzo Vasi, addetto ai fantasmi. Dalla prima prospettiva lignea raffigurante una delle sette vie di Tebe, sul proscenio, entra inaspettatamente Nada, nei panni di Polly Giarrettiera.

“Oh, ma non è una cosa terribile la vita, grazie a Dio?”.

In questo brulicare di voci, strumenti, suoni, registrazioni, effetti, emergono i ritratti di quotidianità eccentrica di questo piccolo e immaginario borgo gallese, i desideri più reconditi e i sogni dei suoi abitanti. La duplice vedova Bianchi-Neri, maniaca delle pulizie, che continua a comandare a bacchetta i mariti, per quanto defunti, ricordandoli di riporre il pigiama nel cassetto con su scritto pigiama e di vaporizzare il canarino. Lord Tagliavetro, con i suoi 66 orologi, uno per ogni suo anno di vita, che segnano tutti un’ora diversa per non essere mai colto di sorpresa, e vive una vita in stato di assedio. Polly Giarrettiera, che pur continuando a rimpiangere il suo unico amore Willy Wee, non si tira indietro e rimane continuamente incinta. I sogni ciechi del Capitan Gatto, che dialoga con i fantasmi dei suoi vecchi compagni perduti in mare e della sua amata. Il Signor Waldo che dorme con un pezzo di polpettone sotto il cuscino. Il postino Volente-Nolente, che apre le lettere prima di averle consegnate e le legge ai destinatari a voce alta. Il Signor Pugh che, senza venirne mai a capo, progetta metodi rocamboleschi per avvelenare la coniuge.

Nella Casa del Marinaio – un po’ Bar sotto il mare di Benni, un po’ Locanda Almayer di Baricco, un po’ Ormond Hotel di Joyce – si spilla birra a tutte le ore del giorno, dal momento che l’orologio del locale è perennemente fermo alle 11 e mezza, l’orario di apertura. E poi ancora l’organista Organ Morgan, Sinbad de’ Marinai, che brinda alla sua stessa salute e il reverendo Jenkins, che visita gli ammalati con gelatine di frutta e versi, e ogni sera – al calar del sole – benedice con una poesia i suoi compaesani, e chiude il radiodramma.

“Non siamo del tutto buoni, né del tutto cattivi, noi che viviamo qui sotto il bosco. E tu, so bene, vedrai per primo, il lato buono da quello cattivo”.

Si chiudono le 24 ore di Llareggub, ma noi rimaniamo lì, in dormiveglia nel sottobosco latteo, tra sogni bislacchi e deliri sinceri. Per la prima volta da quando avevo letto la notizia, la mattina stessa, ero riuscito a dimenticarmi per un’oretta – miracolo dylanthomasiano – che Roberta Sammarelli ha lasciato i Verdena, e che ieri non è stata una bella giornata. È standing ovation sulle gradinate palladiane. Invocati a gran voce dalla loggia corinzia, musici, voci e musicanti rientrano sul palco, per due ulteriori brani ispirati dalla poetica del gallese, andando oltre il radiodramma.

La prima è un omaggio all’idea germinale del Bosco di latte, un lavoro di Thomas – peraltro pubblicato in Italia prima della dipartita del poeta, nel ’52, da Botteghe Oscure – intitolato The Town That Was Mad. Capossela, dal palco, ci aiuta ad orientarci all’ascolto: «La follia, la stranezza dell’umano è semplicemente la dichiarazione di essere come si è, senza condizionamenti sociali. The Town That Was Mad narra del tentativo di isolare un villaggio, per evitare l’espandersi di questa presunta follia, anche se nel racconto è evidente che gli unici sani – almeno nell’animo – siano proprio gli abitanti di quel villaggio, mentre la vera follia impazza al di fuori delle mura. L’idea di recinto di umanità viene ribaltata».

Foto: Roberto De Biasio

Quel recinto di umanità che, proprio nell’ultima edizione, è stato punto di partenza (e di arrivo?) dello Sponz Eden, il Fest ideato e diretto da Capossela che da dodici anni prende vita in Alta Irpinia. Un villaggio dichiarato pazzo e isolato dal mondo che diventa l’ultimo baluardo di libertà. «C’è il tema dell’innocenza che ricorre, in questa sorta di condizione edenica. Questa è L’età dell’innocenza». Non a caso, il necrologio di Dylan Thomas, redatto dall’amico poeta Vernon Watkins, cita «l’innocenza è sempre un paradosso, e Dylan Thomas rappresenta, in retrospettiva, il più grande paradosso del nostro tempo».

Dall’edenica città dei folli ai cancelli dell’Eden. La serata si chiude in maniera agrodolce, con un omaggio a Ceremony After a Fire Raid, poesia liturgica sulla cessazione dell’umanità di fronte alla morte di un bambino, dal bordo di un cratere generato dall’esplosione di una bomba. Un’immagine che risale nella sua versione originale all’esperienza del secondo conflitto mondiale, ma che trasuda, tragicamente, attualità. «Dedicata a quella poesia, l’ultima canzone si chiama Ai cancelli dell’Eden. Perché forse l’Eden esiste, ma sicuramente non ne abbiamo ancora oltrepassati i cancelli».