“Il cinema è disgustoso”, dicono Godard & friends in questo film di Richard Linklater, Nouvelle Vague, che sta qui a dirci tutto il contrario: è (ancora) una delizia. Più di un purista a Cannes, dov’era in concorso e da dove è tornato prevedibilmente senza premi, ha storto il naso. Ora è passato alla Festa del Cinema di Roma (sezione Best Of, sarà nelle sale prossimamente con Lucky Red e BIM), e alla proiezione per la stampa era tutto un partecipare e un gongolare divertitissimo. Sarà che non è arrivato un americano (ma con produzione, cast e troupe locali) a toccare un mito nostro: già li sento i cinematografari romani, se un ragazzone texano piombasse a girare la biografia di, che so, Fellini.
Ma Linklater non è un americano a caso. È uno che con il linguaggio cinematografico ci ha sempre dialogato. L’ha studiato, rivoltato, riformato. Ha riscritto a suo modo la commedia generazionale (da Dazed and Confused, malamente titolato da noi La vita è un sogno, al sottovalutatissimo Tutti vogliono qualcosa) e il mélo (la saga Prima dell’alba), l’animazione (i seminali A Scanner Darkly e, ancora di più anche se meno celebrato, Apollo 10 e mezzo) e l’action (l’ultimo, squisitissimo Hit Man – Killer per caso). Ha girato un dramma sui reduci di guerra (Last Flag Flying) che quasi nessuno ha visto e che invece è una delle migliori fotografie dell’America scassata di oggi. Ha fatto, soprattutto, Boyhood, che è un oggetto anomalo per il mainstream, e che mainstream è diventato (sei nomination agli Oscar). Marco Bellocchio, che ieri sera all’Auditorium ha consegnato a Linklater il premio alla carriera (altro cortocircuito deliziosissimo), ha detto di averlo scoperto grazie a quel film lì.
Richard Linklater è un nerd, un cinefilo, un secchione, e se di linguaggio oggi deve parlare, lo fa andando a ristudiarsi la grammatica di chi il cinema l’ha rivoluzionato ben prima e ben più di lui. Va a disturbare l’intoccabile. Godard è, nel 1959, un critico dei Cahiers du Cinéma. Ha fatto un corto, ma non crede che i corti siano cinema. “Un critico cinematografico deve dirigere un film”, gli viene detto. E lui lo fa. Così fa Linklater, che vuole ripartire dalla matrice del cinema moderno. E che, (dis)gustosamente, rimaneggia quegli anni autarchici e sovversivi con l’aria consapevole, alla Caterina va in città (riferimento a Linklater ignoto, ma non credo leggerà mai questo pezzo), del filmmaker yankee che penetra nel cuore della cinefilia europea.
Godard (magnifico Guillaume Marbeck) è raccontato per la prima volta con leggerezza (o con una leggerezza intelligente: c’era già stato il troppo parodistico Le Redoutable di Hazanavicius) nei venti giorni di riprese di À bout de souffle, cioè Fino all’ultimo respiro, cioè il film che ha cambiato tutto. È irresistibile, è insopportabile, è irraccontabile e forse proprio per questo ritratto così precisamente. Il cinema è disgustoso perché, ci dice Nouvelle Vague, è l’arte che, più di tutte, si fa veramente per caso. Tutti insieme. Il capolavoro che cambia la storia – e le storie intime di molti di noi – è fatto di mezze giornate (o giornate intere) buttate via, trucchetti da dilettanti, magliette a righe (e dunque raccordi narrativi) sbagliate, doppiaggi di fortuna, produttori miopi, star che non sanno di esserlo (Jean-Paul Belmondo) o che sanno di esserlo (Jean Seberg) e dunque vengono volutamente smontate – e rimontate per diventare icone.
Nouvelle Vague è un grande film perché non (si) prende sul serio (in) nulla, e intanto racconta una rivoluzione serissima. Perché è consapevolmente naïf, anche qua e là stupidino, mentre maneggia una materia gigantesca. Perché è un omaggio e un saggio, l’opera di un grande autore e il tentativo solo apparentemente maldestro di uno che sembra rimasto lo studente degli inizi. Perché è il suo – e il nostro – Cinephilehood.
E perché è disgustosamente divertente. Per come presenta e rappresenta i compagni di ventura del protagonista (Truffaut, Chabrol, Varda, Rohmer, Rivette, e i già venerati maestri Cocteau e Melville, e pure un favoloso Rossellini che dà lezioni di cinema e ruba tramezzini dal buffet). Per le facce (deliziosa Zoey Deutch alias Seberg, incredibile il Belmondo di Aubry Dullin). Per la pellicola che si brucia, per il bacio soffiato di Juliette Gréco, per la mano lesta del pickpocket di Bresson in metropolitana. Per gli occhiali da sole iconici (pardon) di Jean-Luc, su cui all’inizio si specchia il piccolo Antoine dei 400 colpi dell’amico François e alla fine il casco biondo della sua Patricia. Perché ci dice che, persino oggi, il cinema classico può essere un campo d’indagine per il contemporaneo, che altrimenti muore davvero, se non è morto già. Ma senza nostalgia, se mai con l’occhio vispo di chi ha sempre guardato al futuro.














