Ace Frehley era spettacolo e sostanza | Rolling Stone Italia
New York Groove

Ace Frehley era spettacolo e sostanza

Omaggio al chitarrista e alla sua musica, dove il Bronx incontrava il cosmo. «Ricordatemi come quello che vi ha fatto divertire», diceva. Ha fatto di più: ha contribuito a rendere i Kiss credibili, band e non solo brand

Ace Frehley era spettacolo e sostanza

Ace Frehley coi Kiss nel 1979

Foto: Richard Creamer/Michael Ochs Archives/Getty Images

C’è un momento nella storia del rock in cui la chitarra di Ace Frehley sembra lanciata verso lo spazio. È il 1977, i Kiss sono all’apice e dal suo strumento cominciano a uscire fiamme e fumo. È pirotecnia, è teatro, è follia, ma è anche un suono vero, sporco, ruvido, autentico. È lì che il Bronx incontra il cosmo. Ace Frehley non era solo il chitarrista fondatore dei Kiss, rappresentava l’equilibrio perfetto tra spettacolo e sostanza, l’uomo che ha fatto sì che dietro il trucco e il business per molti anni ci fosse ancora una band rock’n’roll.

Paul Daniel Frehley nasce nel Bronx, nella primavera del ’51. Famiglia operaia, scuola dura, strade difficili. Come racconterà più tardi, «la musica era la mia via d’uscita, il modo per non finire in guai seri». Negli anni ’60 si innamora della chitarra, di Hendrix, dei Rolling Stones, e sviluppa uno stile diretto, istintivo, senza troppi fronzoli. Non è un virtuoso da manuale, ma un chitarrista che suona con pancia e cuore. Prima dei Kiss, bazzica la scena underground di New York con varie band locali, imparando presto che nel rock la sincerità conta più della perfezione. È il  groove di New York di cui parlerà nel suo pezzo più celebre. Quel legame con la strada non lo abbandonerà mai, rimarrà la sua cifra, anche quando indosserà il costume argentato dello Spaceman.

È il 1973 quando Ace risponde a un annuncio sul Village Voice: «Cercasi chitarrista con immagine e attitudine». Si presenta con una scarpa rossa e una blu, giusto per farsi notare. Paul Stanley e Gene Simmons lo guardano, ridono, poi lo ascoltano suonare. Dopo pochi secondi sanno di aver trovato il quarto elemento. Con lui i Kiss completano la loro formazione definitiva. Peter Criss porta la sezione ritmica, Stanley e Simmons costruiscono il marchio e la visione, Ace aggiunge la parte mancante: l’autenticità. È lui a firmare alcuni dei pezzi più amati dei primi anni come Cold Gin e Parasite e a regalare assoli che ancora oggi restano scolpiti nella memoria di chiunque ami la chitarra. «Non ho mai suonato per impressionare», dirà in un’intervista del 2014, «ma per far muovere la gente. La chitarra deve farti sentire vivo».

Nel grande teatro del rock anni ’70, i Kiss erano tutto: fiamme, sangue finto, costumi, merchandising. Ma Ace è stato l’unico capace di rendere tutto ciò credibile. Con la sua maschera argentata e il personaggio dello Spaceman ha creato un’icona che andava oltre la finzione. Era ironico, divertente, leggero. «Vorrei essere ricordato come il membro divertente dei Kiss», ha detto non a caso fino alla fine. Dietro quell’ironia, però, c’era un chitarrista che sapeva tenere in piedi lo show. I suoi assoli non erano mai esercizi di stile, ma colpi secchi che facevano respirare il rock’n’roll dentro un gruppo che rischiava spesso di diventare solo un brand. Ace era il contrappeso perfetto a Simmons e Stanley: dove loro erano controllo e calcolo, lui era caos creativo. E proprio quel caos era ciò che rendeva i Kiss veri.

Nel 1978, i Kiss pubblicano quattro album solisti contemporaneamente, uno per ciascun membro. Contro ogni previsione, quello di Ace è il più riuscito e il più venduto. Il singolo New York Groove è una hit internazionale e riporta il ragazzo del Bronx al centro della sua città e del mondo. Quel disco dimostra che Frehley è un artista completo, capace di scrivere, suonare e cantare con una naturalezza disarmante. È il momento in cui lo Spaceman tocca terra e mostra chi è davvero. Ma dietro le quinte si nascondono tensioni crescenti. Ace soffre le dinamiche interne del gruppo e le decisioni “aziendali” prese da Simmons e Stanley. In più, il suo amore per gli stravizi ha preso il sopravvento e forse un po’ c’entra anche la gelosia, in particolare quella di Simmons. Nel 1982 lascia la band, stanco delle imposizioni e dei compromessi: «A un certo punto non era più divertente. E se non mi diverto, non suono», dirà anni dopo.

La sua uscita segna la fine di un’epoca. I Kiss continuano, ma non saranno mai più gli stessi. Ci saranno ancora hit e qualche album buono (non molti), ma senza Ace perdono quella ruvidità che li rendeva pericolosi, quel filo di follia che li rendeva veri. Quando tornerà per la reunion del 1996, il pubblico lo accoglierà come un eroe tornato dallo spazio, perché, nel cuore di molti fan, senza lui e Peter Criss la poesia aveva lasciato definitivamente il posto al business. A 19 anni dall’ultima volta, nel 1998, esce Psycho Circus, che vede il ritorno in studio della formazione originale dei Kiss. Un disco segnato da tensioni insanabili, suonato in realtà da Simmons e Stanley e una serie infinita di turnisti. L’unica traccia registrata davvero dai quattro è Into the Void di Ace, che ricorda al mondo cosa sono stati i Kiss prima di diventare un marchio capace di vendere preservativi e bare customizzate. Basta quel pezzo per rendere quell’album l’unica cosa che abbia senso nella discografia dei Kiss degli ultimi 30 anni.

Ace Frehley è stato per i Kiss quello che Keith Richards è per i Rolling Stones: l’imprevedibile che tiene in vita la magia. Non era il più disciplinato, né il più lucido, ma era l’essenza stessa del rock: imperfetto, rumoroso, irripetibile. La sua influenza è e resterà enorme. Kurt Cobain era il primo fan del suo stile semplice e d’impatto, Pantera, Pearl Jam, Soundgarden e Tool lo citano come fonte d’ispirazione totale. Come ha scritto Guitar Player, «non suonava per stupire, suonava per raccontare». E raccontava bene. Raccontava la strada, la rabbia, la libertà.

Oggi Ace Frehley continua a essere ricordato come l’anima più genuina dei Kiss. La scheggia impazzita, sì, ma anche quello che ha dato al gruppo la sua credibilità musicale. Non era solo uno scapestrato dei sobborghi newyorkesi che suonava la chitarra, era un tipo che credeva davvero in ciò che faceva. E nel rock questo fa tutta la differenza del mondo. Senza di lui i Kiss sarebbero stati una grande idea, con lui sono diventati una leggenda. Il suo sogno era quello di suonare un’ultima volta con la band nel corso del tour d’addio, così da chiudere un cerchio dopo lo spiacevole inconveniente quando i Kiss sono entrati nella Rock and Roll Hall of Fame e sono stati tra i pochissimi a non suonare durante la cerimonia. Purtroppo, a quanto pare sempre per dissidi con Simmons, la cosa non è andata in porto. «Vorrei essere ricordato soprattutto come quello che vi ha fatto divertire», ha ribadito in una delle sue ultime interviste. Missione compiuta, Spaceman. Hai fatto molto di più.

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