Nella musica di Andrea Laszlo De Simone c’è uno scarto dal reale, un filtro che la rende insolita, un residuo di mistero, ed è lì che sta la sua bellezza. A quest’epoca di alta definizione e basso pensiero De Simone oppone una poetica che prevede artigianato musicale e riflessioni esistenziali. Scrive canzoni come quelle di Una lunghissima ombra che sembrano sospese fra realtà e immaginazione, razionalità e passione, passato e presente, pensiero e sovrappensiero. Può sembrare un nostalgico, ma non lo è. Canta l’insensatezza e allo stesso tempo la bellezza della vita. Parla di tutti noi, di questo tempo infelice, delle paure inespresse, dell’incapacità di riconoscere e quindi di correggere i nostri limiti e le nostre colpe. Non sono argomenti che uno vuol sentire in una canzone. E invece lui ti frega, li infila in pezzi melodiosi e ti ritrovi senza manco accorgertene a canticchiare che “se c’è qualcuno che non ha paura, io prego mi soccorra”. Erano anni che non si sentiva una richiesta d’aiuto tanto drammatica e allegra.
Laszlo è un corpo estraneo alla musica italiana di oggi e forse anche per questo ne è uno degli esponenti migliori. Si considera un artigiano, vuol continuare a far musica per diletto e quindi è un magnifico dilettante in mezzo a tanti mediocri professionisti del consenso. Non vuol diventare quel che non è, odia i divismi, non ho mai idolatrato nessuno, forse giusto Francesco Totti, tu pensa. Preferisce rimanere nell’ombra, cerca di proteggersi dalle cose peggiori a cui noialtri sbagliando ci esponiamo senza opporre resistenza alcuna. Pure in Francia stravedono per lui, ha vinto un César per la colonna sonora di Le règne animal, le sue canzoni finiscono in un film dopo l’altro, gli propongono sceneggiature da musicare. Lui gira poco e scrive tanto. L’ultima volta che ha contato le canzoni che ha composto e inciso negli ultimi cinque anni erano 732, in pratica una ogni due giorni e mezzo. Giura che un tempo ne scriveva anche quattro o cinque al giorno.
Se fosse per lui, cancellerebbe ogni traccia di notorietà e non farebbe neanche interviste come quella che segue, anche se incontrandolo si capisce subito che è disponibile, eloquente, comunicativo. Non appartiene ad alcuna cricca, scrive di notte e in totale solitudine, si esibisce raramente in pubblico e non farà concerti per questo disco, che pure si presterebbe benissimo a un gran tour nei teatri. Ha di meglio da fare, ad esempio stare col figlio di 13 anni e la figlia che ne sta per compiere 6. Difende con determinazione quel che resta del suo candore fanciullesco e si ripara dal successo perché sa che se facesse entrare il pubblico nel suo mondo si trasformerebbe in un mestierante. Già adesso non gli piace quel che è diventato. Dice che sorride di meno da quando ha a che fare la percezione degli altri, con la mentalità aziendalista della comunicazione, con un pizzico di notorietà.

Metti su Una lunghissima ombra e ti sembra d’ascoltare i tuoi pensieri, non solo quelli di Laszlo. Forse per capirne bene la logica va visto il lyric movie che si trova su YouTube. Sono 67 minuti di quadri in movimento, uno per ognuno dei 12 pezzi. Il contrasto fra le canzoni cariche d’idee e di sentimenti e la fissità delle inquadrature – un fuoco che arde, una stazione ferroviaria di notte, un luna park, un corso d’acqua, un incrocio stradale – fa percepire i testi come riflessioni di una persona che guarda ma non vede, persa com’è nei suoi pensieri intrusivi. La grana da VHS che ha usato è il velo poetico che replica il filtro dei nostri pensieri. Potrebbe essere scambiato per solipsismo e invece è una critica a quel che siamo diventati e al tempo in cui viviamo.
Ho digitato “pensieri intrusivi” su Google e ho trovato pagine e pagine su come affrontarli e liberarsene. Tu invece ci hai fatto un disco.
I pensieri intrusivi vanno accettati e convalidati, anche perché fanno parte del processo di analisi della realtà. In quest’epoca particolare il luogo in cui avvengono i pensieri intrusivi è il luogo più abitato che ci sia, ne sono convinto. Questo disco, che ha forti tratti autobiografici ma non è autobiografico, cerca di raccontare uno stato, una condizione presente in chiunque oggi: i pensieri non formalizzati, ciò che sembra solo attraversarci e che invece finisce per costituirci. È la descrizione di una bolla in cui ci si auto-emargina e dove al tempo stesso si elabora la realtà a livello emotivo. Una caratteristica del pensiero intrusivo è il fatto di essere poco formalizzato e quindi i testi delle canzoni sono per lo più improvvisati, che è peraltro una modalità che uso da tempo.
Tra i pensieri intrusivi di cui canti ci sono inadeguatezza, senso di colpa, smarrimento. Qui c’è qualcosa di personale, no? Sono ombre che riconosci come tue?
Certo che le riconosco come mie, ma le riconosco in tutte le persone che frequento e anche in quelle che non frequento. Se qualcuno mi dicesse che non ha ombre dentro, io non gli crederei. Chi potrebbe non sentirsi a disagio nel contesto di questa società? Più che essere il protagonista di quest’album, sono una cavia. Sono la cavia umana da cui ho dovuto attingere per cercare di raccontare ciò che le persone non svelano. Lo posso annusare, lo posso percepire che il disagio abita in tutti quanti.
C’è molta autocritica nel disco, mentre oggi ci dicono che assolversi è il modo migliore per stare meglio. E forse è anche questo il punto in cui il disco dialoga con la contemporaneità…
Sta lì il punto. La nostra società non è più abituata a prendersi delle responsabilità. Abbiamo un sistema di leggi che fondamentalmente si occupa di evitare che ci assumiamo delle responsabilità. Non c’è alcun senso di partecipazione. Si cercano dei colpevoli o uno schieramento che ci somigli, ma è una dinamica fallimentare e porta a conflitti e intolleranza.
In La notte, e non solo, c’è un forte contrasto fra la musica e il testo, che contiene una richiesta d’aiuto: “Sconvolto dal dolore, abbandonato nella mia sventura, se c’è qualcuno che non ha paura io prego mi soccorra”. Tra l’altro Vieni a salvarmi era il titolo di una tua vecchia canzone. Da cosa vorresti essere salvato?
Dal mondo. Dal mondo e da me stesso, che sono le due gabbie che siamo costretti ad abitare. Ma non entrerei più nello specifico, per una questione di privacy…
E allora ti chiedo del candore fanciullesco e del senso di meraviglia che spesso sento nelle tue musiche, specialmente in quelle che rimandano a un tempo che non è questo…
A un tempo con meno malizie. Di nascita sono una persona piuttosto ingenua, ma per proteggermi socialmente devo indossare una maschera. Si va a generare un contrasto che probabilmente si sente nella musica. Detesto la manipolazione, detesto dovermi proteggere quotidianamente dalla manipolazione, detesto sapere di non essere abbastanza attrezzato da difendermi nel modo giusto.
Ad esempio?
Questo mio ritrarmi, questo sottrarmi per quanto concerne la parte squisitamente personale ha a che fare con la consapevolezza di non essere né più né meno di nessun altro. Il tipo di potere sociale che le persone acquisiscono attua delle trasformazioni orribili, micidiali, spesso inconsapevoli. Non voglio che mi succeda. Non voglio diventare peggio di così. Sono già peggiorato umanamente dai tempi di Ecce homo e non voglio continuare a peggiorare.
In cosa ti senti peggiorato?
È aumentato il bagaglio che mi porto sulle spalle e quindi sono mediamente meno sorridente, che è una cosa che chi mi conosce da prima sa che è bizzarra, e basterebbe… e basterebbe. E poi perché il circolo di pensieri non è più genuino, devi adoperare un lato di te che è malizioso, vai ad allenare un sistema mentale che induce alla dietrologia, metti in circolo la sfiducia.
Mi sembra che negli ultimi anni, a partire dai singoli che hai pubblicato dopo Uomo donna, una parte del tuo repertorio sia tesa a rispondere a una domanda gigantesca: cos’è la vita? Mi pare anche che la risposta abbia a che fare con l’accettare che è sia insensata che bellissima. Ha senso?
Assolutamente, è proprio questo. Quella domanda mi interessa perché sono un essere umano.
Non che se le facciano tutti certe domande…
Perché oggi siamo molto distratti. E schierati, impegnati in qualche battaglia. Un’altra delle complicazioni del clima bellico che viviamo è il fatto che siamo calati su campi in cui ci dobbiamo confrontare. Se da un lato è estremamente virtuoso, perché è positivo avere qualcosa su cui spendersi che non sia soltanto la ricerca di senso, dall’altro lato è un peccato perché prima di ogni battaglia, prima di ogni credenza bisognerebbe riuscire a gestire i sentimenti e dare non necessariamente un senso, ma un ruolo alla nostra umanità.
Com’è che questa cosa ti preme?
Perché sono figlio degli idealismi, lontano da modalità aziendali in cui oggi siamo tutti immersi. Basta vedere i social. Puoi anche fare una splendida dichiarazione sociale, ma in cambio ricevi qualcosa per te stesso, qualcosa che puoi contare, like, commenti, interazioni. È come se vivessimo in un mondo in cui ogni cosa che diciamo e che facciamo arrotonda un brand personale ed è una cosa che mi disgusta, mi dà molto fastidio, mi mette profondamente a disagio. Cerco di conservare la meraviglia che hai quando vedi il mondo dall’alto. Dico dall’alto non perché sei su una vetta e vedi un panorama di gente che muore di fame, che sta male, che dà di matto, che s’ammazza, no, nel senso che dall’alto puoi percepire la placida inutilità della realtà, ma in maniera ancora ricca di entusiasmo e di bellezza.
È un sollievo pensare che il mondo è inutile?
È un enorme sollievo. Mi spiace che diventi causa di tristezza, di depressione. Ma non siamo inutili noi, non è inutile la nostra vita, potremmo darci delle ragioni ottime per vivere, potremmo darcele noi.

Foto: Richard Dumas
Nella tua musica c’è anche la dimensione del mistero, c’è un margine di indeterminatezza. Non lasci che sia tutto perfettamente a fuoco.
È lo spazio in cui esistono gli altri. Se fossi netto, se escludessi tutti i dubbi dal mio linguaggio, se escludessi la possibilità di vedere la realtà sfocata dando agli individui la possibilità di metterla a fuoco, avrei tolto tutto. Sarebbe una telecronaca, sarebbe un’altra faccenda, mi sembrerebbe di togliere e non di donare qualcosa.
Nei dischi la tua voce ha una presenza singolare. È quasi sempre filtrata e questa cosa crea una lieve distanza. È come se venisse da una dimensione parallela. C’è un motivo?
C’è. Ho scoperto la musica nel contesto familiare, da bambino. È nato allora il mio mondo di riferimento, che è ispirato all’infanzia. Quando andava bene usavo il microfono del Canta tu, che aveva una sua naturale distorsione. Nel momento in cui ho cominciato ad avere a disposizione microfoni in grado di restituire la voce naturale, fondamentalmente non l’ho riconosciuta. Non la riconosco nella mia poetica, nella mia espressività, non la riconosco nel linguaggio che mi sembra distante da me, non parla dal presupposto giusto, mi sembra calata troppo nel presente, troppo nella realtà. E invece, forse per inclinazione personale, tendo a spostare la musica in un contesto magico e parallelo all’esistenza, come se fosse su una linea temporale che ci passa giusto accanto. Mi piace che la musica venga da lì e mi piace che dialoghi con questo mondo qua, ma che non ne faccia pienamente parte.
È uno sfasamento interessante.
Lo avverto e mi consola. È una tipologia di timbrica che mi genera sollievo, che mi fa sentire protetto. C’è chi la trova fastidiosa e chi lo considera un esercizio per citare il passato, ma non lo è.
Non c’è quindi un atteggiamento nostalgico nella tua musica?
No e non ho nemmeno mai avuto una ammirazione profonda per qualcuno. Forse ho mitizzato giusto Francesco Totti. Ha rappresentato la mia cartina di tornasole. Guardare la sua carriera e ammirarlo è stato fondamentale per la mia musica. Sembra bizzarro, ma è così.
In che senso?
Mi ha insegnato ad avere una visione di insieme. È un talento e un personaggio eccezionale e nella sua semplicità, senza avere cioè un livello culturale che gli permettesse qualcosa in più, è riuscito a palesare una visione di gioco collettiva. Era l’elemento che faceva giocare meglio gli altri e questa cosa mi è passata tantissimo. Mi ha anche convinto del fatto che la fama è una pessima idea e che chiunque cerchi di ottenerla non ci ha pensato bene. Vedere questo ragazzo super semplice che non poteva fare una passeggiata nella sua città mi ha fatto dire: caspita, non voglio fare quella fine lì, in nessun caso devo arrivare lì. È stato un monito.
Questa cosa va contro questo tempo e la ricerca di fama a tutti i livelli.
Ma va a favore dell’essere umano. Se potessi fare due passi indietro oggi li farei.
Però non hai una popolarità da superstar…
Assolutamente no e non sarà mai quello l’obiettivo. Anzi, sto cercando di generare delle possibilità che siano per me più interessanti, più adatte al mio carattere.
Scrivi tu gli arrangiamenti orchestrali? Su software, su pentagramma?
Sono miei, ma non conosco la musica, non l’ho studiata, non so neanche dov’è il La…
Ma dai, sulla chitarra saprai dov’è…
No, lo giuro, non lo so neanche sulla testiera del pianoforte. Non è mai stata una priorità. Non è che io non abbia un metodo o non abbia delle capacità, è che le ho indagate diversamente. Semplicemente quella cosa non mi serve, non mi serve sapere dov’è il La. Sì, so che è la seconda corda della chitarra se la tocco vuota, ma solo perché ho dovuto impararlo per cambiare le corde. Sul pianoforte ci ho messo molto di più e adesso so più o meno dov’è il Do e quindi se conto le note arrivo al La. È più importante immaginare l’incastro degli strumenti, sapere distinguere i loro ruoli, dove metterli, cosa cantano o non cantano nell’arrangiamento.
Ami molto i flauti, i legni, gli archi.
Scrivo usando suoni fasulli e questo mi evita l’imbarazzo di cantare le parti ai musicisti. Non abbandono mai il fasullo per il vero, nel senso che li faccio suonare assieme. Uso in ultima istanza gli archi per ripassare sopra le parti sintetiche, come se lo facessi con una penna più bella, di modo che si sentano la mano, la corda, il reale, anche se restano minoritari nell’arrangiamento. Gli strumenti servono a dare consistenza e matericità al suono finto. È un po’ come il discorso che facevamo per la voce, diventa un suono inedito. Capisci che sono archi, ma allo stesso tempo non sono archi che suonano in questo mondo qua. Sarà che sono un anticonformista, ma questa cosa mi stimola, mi piace, la trovo accattivante. Mi sembra che gli archi possano parlare in modo più libero, non so come dire, non stanno facendo la fila, non sono in coda per esprimersi, sono su una linea parallela che è sgombra.
Il disco è pieno di parti musicali cantabili, a volte fischiettabili, anzi proprio fischiate da te. Da dove viene questo gusto?
Il fischio è un suono che ha una concretezza molto umana, mi sembra riporti la musica al quotidiano, che aiuti a diminuire la distanza che si crea tra la produzione e la realtà. Mi ricorda che fare musica è una cosa molto quotidiana e che la complessità dell’arrangiamento è composta da parti molto semplici.
La musica per te è artigianato?
È proprio questo. Io mi sento un artigiano. Mi piace fare cose con le mani. Se non fosse stata la musica, sarebbe stato il legno e quando non faccio musica, è il legno. Mi disturba il fatto che la musica nella società sia invece intesa in modo diverso. Molti mi dicono: è diversa perché parla all’anima. Lo capisco, ma non comprendo l’idolatria. Quando un artigiano fa una poltrona incredibilmente comoda e tu ti ci siedi sopra e sei felice e ti sembra che la tua giornata sia migliore, non è che per questo ci sono i poster in giro di chi l’ha costruita. Ci sono tante altre forme di artigianato oltre alla musica che dialogano col benessere dell’essere umano, eppure non le troviamo altrettanto affascinanti, non abbiamo lo stesso tipo di perversione.
Direi che la parola perversione dice molto su come la pensi.
(Ride) Sicuramente.
Dici spesso che la musica è stata una cosa accidentale, che non l’hai cercata, che non volevi fare questo.
Ho sempre suonato, fin da bambino, ma appena ho finito il liceo volevo lavorare nel cinema. Ci sono riuscito perché un amico di mio fratello cercava un assistente. Ho lavorato per cinque anni come video assist, nel frattempo lavoravo un po’ come decoratore, un po’ facevo i pavimenti, e la sera facevo musica. Un amico m’ha regalato un computer con la scheda audio perché voleva sentire le cose che facevo e allora in un monolocale dove vivevo con la mia fidanzata ho fatto questo dischetto, Ecce homo.
Che si trova su YouTube, ma in streaming non c’è.
È depositato in Siae, a un certo punto lo pubblicherò ufficialmente. Per registrarlo ho usato gli strumenti dei fratelli minori degli amici, una tastierina che mi avevano prestato con tutti i tasti rotti, una chitarra con tre corde, quello che c’era.
In quell’album c’erano una leggerezza e un’ironia che poi sono svanite. È diventato tutto più serio, più alto, più ponderoso.
La musica lì era necessariamente gioco perché per dirla in francese la facevo con un cazzo e un barattolo. Nei testi dovevo spiegare tante cose, cose che oggi potrei dire con la musica visto che ne ho consapevolezza e mezzi. Ero molto più giovane e come tutti i giovani ero molto più vigoroso nei sentimenti estremi, una cosa che andata via via placandosi con i figli. Oggi le parole sono solo uno strumento per aiutare la musica a esprimersi del tutto.
Poi è arrivato Uomo donna.
Daniele Citriniti, che adesso è il mio manager, ha ricevuto canzoni inedite da mio fratello, che gliele ha mandate senza dirmi niente. Mi ha telefonato quasi quotidianamente per un anno.
E tu che gli dicevi?
Gli dicevo no, guarda, sono un padre di famiglia, non m’interessa fare queste cose qua, non vado a sculettare sui palchi.
Però poi…
Poi sono arrivate delle proposte concrete in un periodo in cui ero in una posizione economica precaria. Ho cercato di fare una scelta di responsabilità per la famiglia, una scelta che mi ha messo in difficoltà e che ha confermato le mie paure nei confronti di questo percorso, ma ha anche slatentizzato una serie di gioie, di cose positive che ho vissuto in questi ultimi anni. C’è una parte edificante, ma diciamo che il mio narcisismo non è collocato lì.
E dove è collocato allora?
Guarda, non lo so, credo che ognuno di noi si guadagni il suo simbolico paradiso in modo diverso. Qualcuno è votato ad aiutare gli altri, qualcuno ad avere gli occhi addosso. Nel mio caso immagino sia una via di mezzo tra la coerenza e le mie responsabilità verso i figli.
Non ti gratifica il fatto essere considerato, amato, apprezzato?
È un’arma a doppio taglio, perché alla fine chi ti ama? Persone che non conosci. Quindi è un amore per pregiudizio. Ti trovi fondamentalmente in una condizione esistenziale in cui da lì in poi non puoi che essere deludente, è un’escalation di promesse che non hai fatto e di cui non potrai mai farti carico perché non puoi rappresentare quello che la gente vorrebbe che tu rappresentassi. Mi sentirei capo di una setta, mi mette in imbarazzo. Più le persone mi apprezzano e più provo l’istinto di sottrarmi. Non sono io. Non posso essere un capopopolo.
È anche per questo che non fai tanti concerti?
Certo, assolutamente. È anche un discorso pratico. Uno, quando sei in concerto non puoi scrivere perché sei sempre via e a me scrivere piace, è quello che mi fa stare bene, senza sto male. Due, è alienante vivere sempre la stessa giornata, come nel film con Bill Murray Ricomincio da capo. In più è doloroso per me perché non sono un attore, non riesco a infilarmi una maschera. Ne sono capace nel quotidiano per sopravvivenza, ma salire su un palco e mettermi una maschera e riprodurre uno show che ho fatto il giorno prima e quello prima ancora mi addolora. È bello suonare, non smette di piacermi, ma mi affatica. E poi sei lontano da casa e io non voglio perdere la chance che si presenta una volta sola nella vita di vedere i 5 anni di mia figlia. Metti insieme queste cose e capisci che non fa per me.
Per questo disco quindi non farai nessun concerto?
Nessuno. Non è che non facevo concerti perché non c’era un disco nuovo, non faccio i concerti perché è un momento della mia vita in cui voglio portare avanti i miei progetti.
Progetti come le colonne sonore per il cinema?
E per il teatro, ma anche i miei progetti personali, non solo musicali. Sto leggendo varie sceneggiature, ce ne sono di interessanti, ma in questo momento voglio dedicarmi alla famiglia.
Ma è vero che prima di pubblicare un album fai una riunione famigliare?
Sì, ma non immaginare che ci mettiamo attorno a un tavolo. È un percorso che avviene nell’arco di qualche mese in cui si cerca di capire tutti assieme se è il momento opportuno per pubblicare un disco. Non lavoro solo io, abbiamo tutti delle esigenze, siamo un nucleo famigliare, bisogna essere tutti d’accordo.
Ami fare musica di notte, nel tuo studio. C’è una dimensione di solitudine?
Completamente. Non può entrare nessuno in studio, solo i bambini ogni tanto, se sono svegli, se è giorno. Fare musica è una forma di meditazione. Per il carattere che ho, se entrasse anche solo un’altra persona, comincerei a fare canzoni per quella persona lì. Per questo non posso fare entrare il pubblico nella mia vita, perché inizierei a fare musica per loro e non può succedere, non deve succedere per me stesso. Sono molto egoista in questo. Nei confronti di chi mi ascolta avrò riconoscenza eterna, ma non posso scrivere musica per il pubblico, allora sì che diventerebbe un mestiere e io non riesco, non voglio che diventi un mestiere. Lotterò fino all’ultimo perché non sia un mestiere.

Foto: Richard Dumas
Che effetto t’ha fatto scoprire che Fiore mio è stato il pezzo più usato questa estate su TikTok?
L’ho saputo dopo, non avendo TikTok.
Ma poi l’hai visto un tiktoker che usa Fiore mio? Che impressione t’ha fatto?
Da un lato… mi fa piacere? Lo dico così, col punto interrogativo. È strano, è un pezzo di dieci, otto anni fa. Come ti dicevo prima, sono molto critico con l’uso dello smartphone e delle logiche di funzionamento che portano al sé. E quindi da una parte mi spiace moltissimo sentirmi in qualche modo parte di logiche che mi lasciano quanto meno interdetto, ma dall’altra lo prendo come un riconoscimento, anche se è una cosa a cui non sono particolarmente sensibile.
Alla fine le canzoni sono lì e ognuno ci fa quel che gli va.
Esattamente… a meno che non decidano di usarle per una campagna elettorale la Meloni o Salvini… Voglio solo, e ci tengo a precisarlo, avere lo stesso diritto che ha la mia musica. Io sono un artigiano e faccio della musica. Il mio mestiere è vendere la musica, è evidente. E mi va bene. Ma non vendere me stesso. Una canzone può diventare estremamente famosa, però è giusto che io stia a casa, dove devo stare. Mi devo occupare delle mie cose personali, non essere testimonial di niente.
Com’è andata ai César?
Ero imbarazzatissimo. Ero contento della nomination, ma era altamente improbabile che vincessi. Ci sono andato più che altro per respirare quel mondo così lontano dal mio. Una mezz’oretta prima, per la tipologia di premi che stavano assegnando, ho cominciato a intuire che c’erano molte probabilità che vincessi. Mi sono spaventato moltissimo. Non sapevo se parlare in italiano o in francese. Mi tremavano le gambe. Nel momento in cui ho sentito il mio nome mi sono emozionato tanto, mi sono sentito come Miss Italia (ride). Ma già salendo sul palco mi sono reso conto di una cosa: non era una gara, era un regalo, era una manifestazione d’affetto e un abbraccio lo si dà e lo si prende sempre con piacere.
A proposito della tua popolarità in Francia…
Guarda, se mi chiedi il perché proprio non lo so.
E allora ti chiedo se là ti vedono in modo diverso.
La cosa che mi ha stupito di più è che no, mi sembra che la percezione sia simile e l’ho capito qualche giorno fa, quando ho fatto un talk col pubblico a Parigi. Prima mi chiedevi dove sta il mio narcisismo. Ecco, quella è stata una vera soddisfazione, il fatto che sia riuscito a raccontare qualcosa con la musica e solo con la musica, perché lì pochi capiscono i testi in italiano. Mi sono guardato e mi sono detto: sei stato bravo.