I Not Moving si sono formati nel 1981. Due ventenni, un ragazzino di 16 anni, due ragazzine di 15/16. Ci siamo trovati perché ci piacevamo e ci sentivamo affini, vicini, condividevamo le stesse idee e gli stessi gusti. Abbiamo messo insieme le nostre musiche preferite: punk, blues, rock‘n’roll, surf, beat, psichedelia e new wave.
Il nostro mix è piaciuto subito a tanti, abbiamo fatto un sacco di concerti ovunque e un po’ di dischi. Il gruppo è diventato da subito la nostra religione, missione, ossessione. Una malattia, che aveva la priorità su tutto: lavoro, affetti, salute. Se era necessario suonare si andava, a qualunque costo, con ogni mezzo necessario, ovunque. È diventato perfino il nostro lavoro per un po’. Un giorno eri in un’oscura cittadina tedesca, in uno squallido club a tremare di freddo, nei camerini non riscaldati, mentre fuori c’erano 10 gradi sottozero, per suonare davanti a 30 persone distratte, qualche mese dopo un’intera piazza saltava al ritmo dei tuoi brani. Ma era sempre la stessa attitudine: sia davanti a 12.000 persone prima dei Clash a Milano o girando in tour con Johnny Thunders, ex New York Dolls.
Abbiamo affiancato decine di gruppi, anche nomi come Litfiba (a Berlino nel 1984, andando con il classico furgone che perdeva i pezzi, attraversando una plumbea Germania Est, suonando al Loft, dalle cui finestre vedevi a pochi metri il Muro) e CCCP, in vari luoghi in Italia o all’estero mentre pure loro cercavano di rendere questa ossessione una realtà. Talvolta sotto i palchi abbiamo trovato ragazzi ammirati che dopo un po’ di anni si sono creati un loro mondo dorato (da Max Pezzali, che probabilmente da lì decise di cambiare musica da ascoltare ma che ci ricorda sempre nelle sue interviste e libri, a Manuel Agnelli o Cristiano Godano, rimasti buoni amici).
Con i Clash è stata una sorpresa, chiamati la mattina stessa da un nostro amico della loro crew (lo stesso Eddie King/Left Hand Luke che ha disegnato il nostro logo, dopo essere stato grafico per gli stessi Clash, Madness e tanti altri). Ci siamo ritrovati davanti a una folla immensa, ignara della nostra presenza e poco propensa ad ascoltarci. Sono partite bottiglie e altri oggetti (ai tempi, 1984, potevi portare qualunque cosa ai concerti), li abbiamo rispediti indietro, con tanto di insulti, una battaglia divertentissima quanto pericolosa. Johnny Thunders, il tossico “brutto e cattivo” con noi è stato di una gentilezza e affabilità uniche, una persona timida, adorabile, disponibile.
Il gruppo poi è scoppiato. Io, Rita Lilith e Dome La Muerte siamo andati avanti con altri progetti ma con la stessa attitudine e malattia. Quando ci siamo ritrovati, nel 2018, sembrava passata una settimana dall’ultima volta. Erano cambiate le facce e relative rughe, ma solo quello. Siamo ripartiti, di nuovo con concerti, prove massacranti, dischi. Per un gruppo come il nostro, suonare significa caricare la strumentazione su auto o furgone, viaggiare più o meno a lungo, scaricare il tutto, montarlo, fare il soundcheck, cenare non sempre in maniera adeguata (non si necessita di un pranzo gourmet…), eseguire ai 100 all’ora il nostro classico mix di punk e rock‘n’roll senza mai risparmiarci (perché tanto non ne siamo in grado), riprendere fiato, ricaricare gli strumenti e ritornare nella notte o all’alba (non sempre ci sono un hotel o una pensione a disposizione). Dividerci qualche spicciolo e sorridere alla buona sorte che ci ha concesso la fortuna di avere vissuto la vita che volevamo. Ma quella malattia alla fine ti presenta il conto, perché nel frattempo ti ha progressivamente divorato, l’anima e la carne.
Diventa sempre più difficile anche economicamente. I cachet sono rimasti più o meno gli stessi, i locali non navigano nell’oro, i costi sono sempre più alti (benzina, autostrada, noleggi, manutenzione strumenti, ecc). È un’esperienza comune a tantissimi “colleghi”, anche più blasonati e famosi. Suonare è costoso, perché dietro al concerto puro e semplice ci sono mesi di prove, ore lavorative da detrarre dalle ferie e dai permessi (in pochi riescono a farlo professionalmente), investimenti preventivi sul merchandising (che non sempre rientrano del tutto), il pagamento dei provini in studio da proporre alle etichette e su cui lavorare per il nuovo disco. Spesso le produzioni che pubblicheranno il “disco” non si accollano (il più delle volte perché sono loro stesse costituite da persone spinte esclusivamente dalla passione e con pochi soldi a disposizione) tutte le spese (registrazione, ufficio stampa, video, foto promozionali, stampa del materiale), le percentuali riservate al gruppo sono minime e non garantiscono alcun rientro significativo in termini economici. Soprattutto se pensiamo alle vendite sempre più esigue del supporto fisico (quasi esclusivamente al banchetto che il gruppo stesso allestisce a fine concerto) e all’indotto insignificante che arriva dal digitale.
Non dimenticando che se esci dalla dimensione, diffusissima e pressoché obbligata a certi livelli, della gestione fiscale in “nero” o quasi, la tassazione è feroce e alla fine dell’anno il pur risicato guadagno scompare quasi del tutto. E allora perché ti sobbarchi tutto ciò? Vedi alla voce “malattia” di cui sopra o più semplicemente chiamala passione, vocazione, entusiasmo o per dirla alla Roberto Vecchioni, “forse non lo sai ma pure questo è amore”.
Abbiamo dato tanto alla musica e al rock‘n’roll e abbiamo ricevuto in cambio ciò che abbiamo sempre desiderato. Con That’s All Folks ci congediamo dalla discografia. Continueremo a suonare insieme ancora per un po’, poi sarà il tempo a decretare la sua definitiva sentenza. I Not Moving hanno detto artisticamente un po’ tutto quello che potevano e allora per citare Keith Richards nel brano che canta in Some Girls dei Rolling Stones, Before They Make Me Run, “I gotta move, it’s still fun, I’m gonna walk before they make me run”.








