Jack Osbourne sugli ultimi anni di Ozzy: «Era cambiato e non aveva rimpianti» | Rolling Stone Italia
«Come Rocky III»

Jack Osbourne sugli ultimi anni di Ozzy: «Era cambiato e non aveva rimpianti»

Il rocker dei Black Sabbath ha finito di scrivere l’autobiografia ‘Last Rites’ due giorni prima di morire. Il figlio racconta quel periodo. «Lavorare lo rendeva felice. L’ho sentito dire mille volte: “Ma perché piangete?”»

Jack Osbourne sugli ultimi anni di Ozzy: «Era cambiato e non aveva rimpianti»

Ozzy e Jack Osbourne nel 2011

Foto: Larry Busacca/Getty Images

Jack Osbourne ha dovuto condividere il padre col resto del mondo, o almeno questa è sempre stata la sua impressione. «Era sempre in tour», racconta il figlio minore di Ozzy che oggi ha 39 anni. «Posso dire d’averlo conosciuto davvero solo quando ero oramai adulto, ai tempi della serie tv World Detour».

È vero che prima c’erano stati Gli Osbourne e sembrava che il legame fra padre e figlio fosse stretto, ma World Detour, che è andato in onda per tre stagioni tra il 2016 e il 2018, ha dato a Jack l’opportunità di passare del tempo di qualità con l’uomo che ha contribuito a inventare l’heavy metal coi Black Sabbath e che ha raggiunto una fama ancora maggiore come solista. «Mentre filmavamo, pensavo che ero fortunato», racconta della serie in cui i due giravano l’America come turisti. «Dico fortunato perché è stato l’ultimo periodo in cui è stato bene».

La caduta in casa nel 2019 e le complicazioni dovute al morbo di Parkinson e ad altre patologie hanno reso difficile il resto della vita di Ozzy, costringendolo a rinviare e poi a cancellare concerti mentre cercava di riprendersi. È una storia al centro del nuovo libro autobiografico di Ozzy Last Rites e dal documentario Ozzy: No Escape from Now. Entrambi raccontano tra le altre cose gli sforzi dell’arista per riuscire a partecipare al concerto finale Back to the Beginning.

Il libro di memorie, in particolare, è stato chiuso da Osbourne pochi giorni prima di morire. Descrive col suo stile inimitabile non solo il dolore, ma anche l’amore ricevuto dalla famiglia e dai fan negli ultimi anni di vita. È anche una riflessione sulla morte che Ozzy ha affrontato più volte in passato, dalla perdita devastante del chitarrista Randy Rhoads alla scomparsa dell’amico John Bonham dei Led Zeppelin. E c’è ovviamente tutta una parte su Back to the Beginning e su tutto l’amore ricevuto in quei giorni.

«Quando papà è morto ci siamo chiesti se forsse giusto portare avanti il progetto del libro», racconta Jack. «Alla fine ci siamo detti che era quello che avrebbe voluto lui. Ci ha lavorato fino a due giorni prima di morire, non pubblicarlo sarebbe stato sbagliato».

In quanto a Ozzy: No Escape from Now, i produttori hanno iniziato le riprese durante session dell’ultimo album Patient Number 9 del 2022 e hanno filmato l’apparizione in Inghilterra ai Giochi del Commonwelth del 2022 fino a Back to the Beginning. «Sembra Rocky III, quando perde tutto e cerca di riconquistarlo», dice Jack. «Rende bene il percorso che lo ha portato a quell’ultimo show».

Come te la passi?
Sono giorni strani, ma penso sia normale quando perdi un genitore. Ma è ok. Avere dei figli e tornare alla routine scolastica mi obbliga ad andare avanti.

Sono certo che anche Ozzy lo avrebbe voluto.
Al 100%. L’ho sentito dire mille volte «Ma perché piangete?». Sono certo che avrebbe trovato tutto questo ridicolo.

Vi state aiutando a vicenda in famiglia?
Sono stato in Inghilterra per tre o quattro settimane e sono tornato a Los Angeles un mesetto dopo la sua morte. Mamma e Kelly sono in Inghilterra, Aimée ed io siamo qui a L.A. Ci sentiamo tutti i giorni, cerchiamo di affrontare le emozioni. Mi aiuta sapere che qualcun altro prova qualcosa di simile a quello che sento io, parlo delle mie sorelle e di mia mamma.

Di sicuro Ozzy non voleva che le persone provassero pena per lui. Perché, per come la vedi tu, era importante per lui scrivere il libro e spiegare la vita che gli è toccato fare dopo l’incidente?
Credo lo abbia scritto almeno in parte per chiarire certe voci e per mettere in chiaro la sua verità: «Ok, sono stato malato, ma non provate pena per me, è la vita…». Non aveva rimpianti. Ha fatto una bella vita, ha fatto un viaggio incredibile, penso che scrivendo volesse condividerlo con gli altri.

So che siete stati indecisi se pubblicare o meno il libro. È stato difficile leggerlo e rivivere quegli anni?
Più che altro è stato interessante vedere cosa aveva deciso di mettere nel libro degli ultimi sei o sette anni. Sai, quando leggi un’autobiografia ti chiedi sempre quant’è accurata. Posso dire in tutta onestà che dentro al libro c’è il suo vero flusso di coscienza relativo all’ultimo periodo. Inizi a leggere un capitolo, parte una storia, poi arriva una divagazione, poi si torna all’oggetto del capitolo… è esattamente così che pensava. È molto personale da questo punto di vista.

Cosa t’ha colpito leggendo del suo stato di salute?
Avrei voluto che approfondisse certi aspetti riguardo la sua malattia, ma immagino che non l’abbia fatto perché era stanco di parlarne. Di sicuro emerge chiaramente quant’era importante per lui fare quell’ultimo show.

E tu come hai vissuto Back to the Beginning?
Sono arrivato lì qualche giorno prima. Ho visto le prove. È stato potente in modo sorprendente. Sapevo sarebbe stata una giornata dura per tutta la famiglia e soprattutto per lui. Come ho già avuto modo di dire, è stato come un funerale in vita. C’era come una perfezione divina e al tempo stesso strana. È stato come mettere un punto finale. Ha incontrato gente che non vedeva da una trentina d’anni, amici, fan. E stare nella sua città natale è stato forte ed emozionante.

Lui cosa t’ha detto?
Era contento. Da quando s’era ammalato stava molto sui social, Instagram, TikTok, YouTube. Gli toccava stare fermo e quindi passava molto tempo a scrollare i social. E quello è stato il primo concerto dove ha visto subito la risposta della gente sui social. E poi ogni mattina in Inghilterra riceveva i tabloid e c’era sempre qualche articolo sui quotidiani. Si divertiva un sacco a leggere le recensioni e i post online. Era entusiasta. Gli dicevo: «Papà, ma sono recensioni fantastiche». E lui: «A che mi servono? Ora sono in pensione».

Nel libro spiega quanto lavoro e terapia ci sono voluti per prepararsi al concerto. È stata una grande vittoria per lui.
Enorme. Era frustrato perché non riusciva a alzarsi in piedi, ma tutto considerato ha fatto un gran lavoro.

Che emozione è stata vederlo cantare Mama, I’m Coming Home. T’ha detto qualcosa?
Ha detto solo: «Ho iniziato a perdere il controllo su Mama, I’m Coming Home». E io: «Guarda che tutti lo hanno perso a quel punto».

Come avete cercato di tirargli su il suo morale dopo l’incidente?
Si sentiva utile quando lavorava, quando registrava il disco con Andrew Watt o collaborava con Billy Morrison o faceva il podcast con noi. Era nei periodi in cui non lavorava che si abbatteva. Lavorare gli piaceva e quando non lo faceva, non era se stesso, non era al meglio. C’era sempre qualcuno in casa: io coi bambini, o Kelly e Aimée che andavano a trovarlo e cercavano di farlo uscire. Aveva la sua routine a casa, che era sia una benedizione e sia una maledizione, e non gli andava giù se cercavi di alterarla. Per rendere le cose più facili mi sono trasferito di nuovo da loro per un certo periodo. Prima mi dividevo tra due abitazioni e stare lì per sei mesi ha reso le cose più facili. A quel punto stava bene, non poteva essere infelice con la casa piena di bambini.

Ozzy e Jack Osbourne nei primi anni ’90. Foto: Ron Galella/Getty Images

Cosa lo rendeva felice?
Quando certi amici andavano a trovarlo era molto, ma molto felice. Oppure quando si organizzava una grande cena a casa. Non era sempre felice, ma ho molti ricordi di lui che ride. E anche di lui che si fa delle gran risate per delle battute inopportune. Una battuta con dentro la parola “cazzo” lo mandava in visibilio.

Era cambiato dopo l’incidente?
Dato che il ritmo di vita era rallentato, era diventato più tranquillo. Rallentare gli ha fatto vedere le cose in prospettiva. In un certo senso, era molto più presente. Era più silenzioso, ma continuava  a sparare la musica a dieci miliardi di decibel. Diciamo che era una versione diversa di sé stesso.

Cosa metteva a tutto volume?
Cose molto diverse, a caso. A un certo punto ha attraversato una fase Michael Jackson, e poi una fase anni ’80 molto intensa. Ascoltava sempre Peter Gabriel. Una delle cose che mi fanno più incazzare di tutta quella stronzata di Roger Waters è che lui ascoltava sempre i Pink Floyd. Che idiota del cazzo è diventato quel tipo. Penso sia gelosia. Quando morirai tu, al massimo ti dedicheranno un brindisi al pub sotto casa.

Fa arrabbiare leggere delle tante operazioni a cui si è dovuto sottoporre e soprattutto della prima che gli ha causato ancora più problemi. Come la vedete voi della famiglia oggi?
È una rabbia che mi porto dietro da tanto tempo. È la benedizione e la maledizione dei medici di Los Angeles. Ci sono dottori bravissimi, ma non vogliono passare per quelli che hanno rovinato la vita di qualcuno e quindi non ti dicono mai come stanno davvero le cose. Quello che ho notato con l’esperienza di mio padre è che i dottori sono troppo spaventati per essere sinceri riguardo alle operazioni. Ci sono stati un paio di medici ottimi, ma da quella prima operazione è andato tutto a rotoli. Quel chirurgo non avrebbe mai dovuto eseguirla in quel modo. Ha messo in moto una serie di eventi che hanno reso tutto estremamente difficile. E poi è arrivato il Covid… Ogni volta speravamo che fosse l’operazione giusta, quella che lo avrebbe messo a posto, guarito, ma ormai il danno causato dalla prima operazione era irreparabile, impossibile tirarsene fuori.

Qualche anno fa, tua madre ha detto di voler fare causa a quel medico. È successo?
Secondo me avremmo dovuto farlo subito, l’ho sempre detto. Avrei potuto fare causa a quel medico o a chi per lui, ma è una di quelle situazioni che se ci pensi, ti dici che anche facendo causa non riavrai indietro papà. Certo, servirebbe far sapere a tutti che quel dottore è uno stronzo, ma se avessi una bacchetta magica, probabilmente l’avrei fatto cinque anni fa.

Come sta affrontando il lutto tua madre?
Sta bene non stando bene. Ci sono alti e bassi. Sta cercando di capire da dove ripartire, come orientarsi, qual è la nuova normalità, il nuovo punto di riferimento, cosa fare senza lui. Ma è circondata da amore e sostegno. La sto riportando a Los Angeles questa settimana. In realtà domani volo in Inghilterra, perché giovedì è il suo compleanno. Dobbiamo continuare ad andare avanti. Lo diceva anche lui: detestava sapere che la gente provava pena per lui, voleva sempre guardare avanti. Dopo il funerale eravamo a casa, era una mattinata difficile. Ho preso il telefono e mi è comparso un video nel feed: era mio padre da David Letterman, una settimana dopo la morte di Randy Rhoads. Letterman gli dice: «Mi sorprende che tu sia venuto, stai passando un momento molto difficile». E la risposta di mio padre è: «Faccio tutto per il rock’n’roll, devo andare avanti, ho un lavoro da fare». L’ho fatto vedere a tutti: «Vedete? Ce lo sta dicendo lui. Dobbiamo andare avanti».

Una delle cose che mi ha colpito di più del documentario è stato vedere quanto fosse forte il legame tra i tuoi genitori.
Sì. Ed è quello che dicevo sulla benedizione e la maledizione dell’infortunio e della necessità di rallentare i ritmi di vita. Ha rafforzato la loro relazione. Hanno avuto i loro problemi, questo lo si sa, ma credo che quella fase abbia contribuito a guarire tante ferite. Il lato positivo, se ce n’è uno di questi ultimi sette anni, è che abbiamo passato un sacco di tempo con lui.

Che cos’ha lasciato tuo padre al mondo?
Molti diventano rockstar, lui l’ha vissuta con l’idea di fondo che tutto può svanire da un momento all’altro. Non è mai rimasto fermo. Ha saputo rischiare e cambiare coi tempi. Non c’è stato un decennio in cui non abbia lasciato il segno, e non lo dico per dire, è un dato di fatto.

Nell’ultimo capitolo del libro, tuo padre scrive: «Ho avuto una vita rumorosa. Ora sono pronto per un po’ di silenzio». Ci credeva sul serio?
Al 100%. Ricordo una volta in cui si è girato verso di me e m’ha detto: «Penso che mi farò crescere la barba e mi taglierò i capelli». E io: «Cosa?». «Sì, non sono più una rockstar». «Oh, ma vaffanculo». Se l’avesse fatto, avrebbe avuto l’aspetto di un hipster di Brooklyn.

E lui cosa pensava di avere dato al mondo, la sua eredità?
Non credo che lo vedesse così, era un concetto troppo pomposo per lui. Viveva alla giornata. Ma dopo l’ultimo concerto… quella cosa per lui è stata enorme. Quando ha sentito tutto quell’amore e ha visto così tanti musicisti rendergli omaggio, ecco, penso che in quel momento lì si sia sentito in pace con la sua eredità.

Da Rolling Stone US.