In viaggio con la Global Sumud Flotilla: «Non ci fermeremo pensando di essere eroi» | Rolling Stone Italia
S.O.S.

In viaggio con la Global Sumud Flotilla: «Non ci fermeremo pensando di essere eroi»

Abbiamo incontrato José Nivoi, il portavoce del Calp (Comitato autonomo dei lavoratori portuali) di Genova, che è stato su un’imbarcazione della flotta umanitaria respinta a 47 miglia da Gaza. La missione, l’incontro con Greta Thunberg, e quello che verrà dopo

In viaggio con la Global Sumud Flotilla: «Non ci fermeremo pensando di essere eroi»

José Nivoi con Greta Thunberg durante la missione della Global Sumud Flotilla

Foto courtesy José Nivoi

José Nivoi, portavoce del Calp (Comitato autonomo dei lavoratori portuali) e referente del sindacato di base Usb, fuma molte sigarette, durante la nostra intervista, ancora confuso, emozionato, stanco, provato dalla missione sulla Global Sumud Flotilla.

«Sono partito il 31 agosto da Genova, sono rientrato due giorni fa». Come stai? «Mi sento un cazzo di privilegiato, mi sento scomodo, mentre io sono qui a casa, sul divano, i palestinesi continuano a morire di fame, di bombardamenti, di umiliazioni e di paura. Qui in Occidente dai tutto per scontato: fumare, mangiare e bere, mentre la dimensione da cui arrivo è priva di tutto».

Dopo un mese di navigazione, di training sulla sicurezza e sull’approccio di vita in barca, di confronti per rompere l’assedio israeliano, di dibattiti interni sulla missione umanitaria e su quella politica, José racconta la missione, gli equilibri necessari tra le varie anime di questa spedizione civile che ha coinvolto una cinquantina di imbarcazioni, quasi 500 attivisti in mare e milioni di persone che da terra li sostenevano.

«La missione aveva due scopi: una umanitaria, cioè portare degli aiuti a una popolazione affamata e sotto l’embargo delle forze israeliane, l’altra più politica: forzare il blocco illegale che Israele esercita sui confini marittimi, imponendo a chiunque di oltrepassare una linea invisibile tracciata in mare, a 150 miglia dalle coste di Gaza».

«Non è un film», mi aveva avvisato Stefano Rebora, responsabile della ong Music for Peace, che a Genova ha raccolto 300 tonnellate di cibo per la popolazione sotto assedio. Era il 30 agosto, marciavamo sulla sopraelevata di Genova, la mia città vista da lì aveva un aspetto romantico e futurista, per la prima delle grandi manifestazioni che hanno accompagnato un’impresa inedita, urgente, capace di coinvolgere le bandiere di molti Paesi, di portare sui giornali tutti i giorni il tema di una guerra sproporzionata, violenta, sorda a qualsiasi appello di umanità.

Non era un film, ma ci somigliava, racconta Nivoi: «La mia esperienza è stata a dir poco delirante: ho cambiato tre barche, la prima, Brezza, ha avuto un problema e si è fermata ad Augusta. Sono salito a bordo di Lunabark, una barca a vela da regata. L’equipaggio era composto da tre malesi, di cui un nano influencer, Mohamed, seguito da milioni di follower nel suo Paese». Malesi? «La missione è stata finanziata soprattutto dalla Malesia, un Paese musulmano che si oppone con forza a quello che sta accadendo al popolo palestinese. È come se fossero popoli fratelli».

Tra dirette social con tutto il mondo, finanziamenti che arrivavano anche dalla Spagna, dai sindacati, e da crowdfunding molto riusciti, Nivoi ricorda gli attacchi dei droni, che oltre a colpire in Tunisia le imbarcazioni Family e Alma, sui cui viaggiava anche Greta Thunberg, hanno minacciato anche il suo viaggio.

«Il mio attacco è stato all’altezza di Creta, annunciato dalla canzone S.O.S. degli ABBA, per inibire le nostre comunicazioni via radio, roba da psicopatici… L’ultima barca era la mia, quella sera ero di guardia, stavo facendo una diretta social, ho sentito questi droni girare intorno alla barca, avevano attaccata una sorta di corda rossa e bianca, in fondo dondolava una bomba Li ho visti arrivare, c’era una luna gigante, gli ho puntato una torcia contro, il primo drone è caduto a poppa della barca esplodendo. Il rumore ci ha reso sordi per decine di secondi. Il secondo drone sono riuscito a deviarlo, di nuovo puntando la torcia contro. Il terzo ha colpito la vela, danneggiandola. Siamo riusciti a metterci tutti in sicurezza, abbiamo incominciato a far le manovre evasive e a raggrupparci di più. Arrivati a Creta ho dovuto cambiare di nuovo barca, è saltata la centralina quindi non avevamo più a disposizione i comandi esterni. Ci hanno smistato, mi sono imbarcato su un’altra barca, Morgana, dove purtroppo erano presenti politici, che non desideravo come compagni di viaggio. Abbiamo mediato la nostra convivenza con un piatto di pasta e un po’ di hummus».

Avete indizi certi sulla provenienza di questi droni? «Il giorno dopo l’attacco un pescatore ha trovato un involucro di ferro, grosso, con una scritta dell’Aeronautica militare ebraica, e pare che quest’attacco drone sia partito da Sigonella, dove poco prima erano atterrati tre aerei militari israeliani».

Una foto scattata durante il viaggio della Flotilla. Foto courtesy José Nivoi

Poi c’è stato l’intervento delle istituzioni italiane, e della Chiesa… «A Creta c’è stato un confronto serio sulle due anime della missione e ci sono state alcune defezioni, lo sbarco di Maria Elena Delia, portavoce degli italiani, mi ha sorpreso, ma per me era impensabile consegnare gli aiuti a Cipro, e insieme a me è rimasta allineata la maggioranza degli attivisti. Non ho niente di personale riguardo la mediazione della Chiesa, anzi, è stato un tentativo che avevamo previsto, ma non ci stavamo a consegnare la nostra missione agli israeliani, era una dinamica che cercavamo di combattere. Non ci siamo fidati dei loro canali di distribuzione degli aiuti, considerando i precedenti».

Quindi avete continuato, destinazione Gaza. Come sono andate le ultime ore, prima dell’arresto? «Noi avevamo una formazione che prevedeva quattro imbarcazioni capofila, e il resto dietro. Abbiamo sempre viaggiato così, come una flotta appunto, mantenendo una distanza frontale e laterale con le altre barche. In coda c’erano due barche a chiudere. La nostra navigazione era prevista come un rettangolo all’interno del quale viaggiava la maggioranza della flotta. Abbiamo sempre proceduto così, fino a quando ci hanno intercettato».

Hai avuto paura, procedendo verso la costa? «In quel momento ho sentito la mia percezione aumentata, come se potessi sentire meglio i rumori, le voci, e come se la paura potesse essere governata. Eravamo preparati, ci eravamo organizzati per l’arresto, avevamo fatto corsi su come alzare le mani, come metterle a terra, per agevolare quel tipo di manovra poliziesca. È stato utile. Le navi madre, quelle che erano in testa, avevano i radar, abbiamo potuto seguire in questo modo l’evoluzione delle nostre imbarcazioni intercettate. Quando ne abbiamo contato 30, sapevamo che sarebbero arrivati».

La vostra barca quando è stata fermata? «Eravamo a 47 miglia dalla costa, quando sono saliti sulla Morgana. Come operazione militare, scusa la licenza, Rambo è un dilettante rispetto all’esercito israeliano. Tempo di sentire il gommone sbattere sulla nostra barca ed erano già tutti a bordo, armati fino ai denti, fucili puntati sulle nostre facce, mani in alto. Una volta messi i piedi per terra, è iniziata la serie di punizioni e umiliazioni. Mi hanno messo in ginocchio con la fronte a terra per ore, Greta era accanto a me, le hanno sputato addosso, l’hanno provocata avvolgendola con la bandiera israeliana, l’hanno insultata. Dopo alcune ore è iniziato l’interrogatorio. Mi hanno perquisito, fatto un milione di domande su Hamas, controllato i tatuaggi – ne ho uno con un fucile AK47 con la scritta in arabo “Internazionale”, era meglio non averlo… – e poi mi hanno bendato e ammanettato con fascette strette, lasciandomi li varie ore».

Vi hanno sequestrato i telefoni? «Non hanno potuto, li abbiamo lanciati tutti in mare, prima di essere arrestati. Mentre ci portavano via, vestiti con una sorta di pigiama, tutti uguali, ho visto di nuovo Greta, in coda, con accanto il militare israeliano che la molestava con la bandiera». E lei? «Lei rideva, è un fenomeno quella ragazzina». Per il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump è una pazza piantagrane. «Allora siamo tutti piantagrane».

Che cosa farete, voi piantagrane, adesso? «Stiamo organizzando uno sciopero internazionale, sono coinvolti moltissimi porti del Mediterraneo, per rompere l’assedio a Gaza. Facciamo leva sulle perdite economiche, calcola che bloccare una nave che trasporta, per esempio, 20 tonnellate di container prevede una perdita giornaliera di 100mila euro al giorno».

Per la Global Sumud Flotilla la missione è compiuta? «Dal punto di vista politico e della partecipazione, sì. Ci siamo sentiti accompagnati, protetti e sostenuti dalle manifestazioni in tutt’Italia, il Paese che da questo punto di vista ha reagito di più. Siamo riusciti a catturare l’attenzione dell’opinione pubblica, e di conseguenza i governi, che continuano a non reagire di fronte al massacro in corso a Gaza. Sentiamo l’obbligo di mobilitarci ancora, l’assedio di Israele continua e non ci fermeremo pensando di essere eroi».

Nel poster alle tue spalle, mentre mi parli, vedo David Bowie. Se potessi scegliere la colonna sonora di quest’esperienza, quale sarebbe? «The Man Who Sold the World». E chi è quell’uomo che ha venduto il mondo? «Il capitalismo».