L’abbattimento di San Siro è una pessima notizia per Milano | Rolling Stone Italia
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L’abbattimento di San Siro è una pessima notizia per Milano

Lo diciamo a priori di qualsiasi fede calcistica. Perché la delibera del Consiglio comunale del capoluogo lombardo sembra suonare la campana a morto per l'ennesimo quartiere della città, dove si rischia l'espulsione di chi lo abita da tempo

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San Siro

Foto: Zach Rowlandson/Unsplash

Luci a San Siro non ne accenderanno più, cantava Roberto Vecchioni, e dopo il voto del Consiglio comunale a favore della delibera per l’abbattimento dello stadio, la sua ricostruzione e la riqualificazione del quartiere circostante, la canzone suona come un requiem per uno dei simboli di Milano.

L’annuncio è stato dato la mattina del 30 settembre, dopo una nottata estenuante in cui è stata convocata una commissione a oltranza (evenienza solitamente adottata in casi di estrema importanza, come per esempio l’approvazione del bilancio) terminata quasi alle quattro del mattino con vittoria strappata solamente per quattro voti, grazie all’uscita dall’aula di Forza Italia, che ha permesso l’approvazione della delibera. Ben oltre lo smottamento politico provocato all’interno del Consiglio – chiosato dal Sindaco con un commetto sul fatto che l’unica cosa importante fosse l’approvazione della delibera – questo voto segna un punto di non ritorno per il futuro di una grande fetta della città, oltre che di uno spazio simbolico e culturale come lo stadio.

Costruito a partire dal 1925 su iniziativa di Piero Pirelli, l’allora presidente del Milan, il nuovo stadio di Milano – intitolato a Giuseppe Meazza, storico calciatore milanese e campione mondiale – dal 1935 è proprietà del Comune di Milano che ne ha gestito ristrutturazione e ampliamenti (il più importante nel 1990 con l’aggiunta del terzo anello) fino a pochi giorni fa. La delibera approvata infatti ne sancisce la vendita ai due club calcistici di Milan e Inter per un valore di quasi 200 milioni di euro.

Un ritorno alle origini, insomma, all’interno di una prassi peraltro non così anomala – come taluni sostengono – che vede molte società sportive essere proprietarie dello stadio in cui giocano. Tuttavia il Meazza, soprannominato “la Scala del calcio”, è oramai un luogo oramai impossibile da associare unicamente allo sport. Lo stadio è infatti da sempre stato eletto a luogo deputato per i concerti dei grandissimi – ultimo e non ultimo Bruce Springsteen – contribuendo a importare a Milano proprio quel respiro europeo e internazionale di cui la città si fregia e che tuttavia si traduce oggi nell’irruzione dei capitali privati all’interno della gestione della città.

È infatti proprio seguendo la scia della narrazione di una città scintillante, dinamica, imprenditoriale e internazionale che Milano ha attratto grandi investitori esteri, i quali hanno lentamente invaso lo scenario urbano rimodellandolo, ripulendolo e ristrutturandolo proprio sulla base di una presunta eccellenza e decoro, rivelatasi poi nient’altro che esclusività e allontanamento delle categorie sociali meno abbienti – ma anche di gran parte del famoso ceto medio, oramai largamente impoverito e forzato a migrare verso la cintura periurbana.

Se è vero infatti che vendere (o addirittura regalare) brani della città a investitori privati è un esperimento che caratterizza la storia urbana milanese fin dagli anni Ottanta, è altrettanto vero che tale modello di sviluppo ha conosciuto un picco negli ultimi dieci anni; una storia iniziata con la ristrutturazione del distretto di Porta Nuova (finanziato da Qatar Investment Authority (QIA), il fondo sovrano del Qatar, che ha poi acquisito nel 2015 il 100% del progetto) concomitante all’Expo, transitata poi in periodo Covid-19 attraverso la “Milano che non si ferma” e che “non chiude”, e in procinto di approdare alle Olimpiadi Invernali del 2026.

Storia questa che, come tutti i racconti sfavillanti e rosei, ha tentato di celare i suoi lati oscuri, emersi grazie alle inchieste sorte quest’estate intorno all’edilizia e alle ingerenze politiche in materia che se hanno effettivamente svelato retroscena e nefandezze, paiono tuttavia essere passati in secondo piano nella discussione politica e giornalistica in merito alla città. Ecco perché, nonostante fosse un chiaro terreno di battaglia, non ci si aspettava tanto cinismo politico in un contesto così delicato.

«Ci sono state altre discussioni in merito alla questione dello stadio, certo, con altre tempistiche» commenta Francesca Cucchiara, consigliera dei Verdi, «nessuno però si aspettava una mossa simile, che è a dir poco scorretta. Le società hanno avuto mesi per occuparsi della manifestazione di interesse e il comune non si è comunque mai mosso in cerca di una soluzione alternativa. A noi, per questa delibera, (la più importante) è stata data invece solamente una settimana, pochissimo per discutere la bozza senza dare il tempo di accogliere e presentare questioni rilevanti, come, per esempio, il fatto che il comitato antimafia abbia individuato una serie di criticità tra cui il mancato obbligo da parte delle società di comunicare le fonti di finanziamento e, chiaramente, il rischio di speculazioni».

Continua Cucchiara, sostenendo poi come l’intera manovra risulti riprovevole, da un lato su un piano politico, perché ha impedito la discussione degli emendamenti proposti, forzando il processo di discussione democratica su una questione tanto sensibile, dall’altro sul piano urbanistico in quanto evidentemente troppo a favore del privato.

La delibera non riguarda infatti solamente lo stadio, il suo abbattimento e la sua ricostruzione, ma si contestualizza in un intervento che interesserà un’area di 280.000 m2 affidata agli architetti Norman Foster e David Manica.

Si legge sul sito Urbanfile che «il masterplan esclude la residenza privata e punta a un mix funzionale che arricchisca l’intero quartiere: 43.000 mq destinati a uffici, 20.000 mq per un hotel, 15.000 mq di parcheggi, negozi, ristoranti e il museo condiviso di Inter e Milan. Un distretto dello sport, della cultura e dell’intrattenimento, concepito per vivere tutto l’anno». E però, in un tempo storico in cui le città europee sono in preda alla crisi abitativa, che ne sarà di chi abita proprio la zona di San Siro, da sempre connotata e popolare?

All’odore della grande opera, infatti, già si preparano i soliti agenti gentrificatori in un meccanismo già visto e ben raccontato da Sarah Gainsforth nel suo ultimo saggio L’Italia senza casa. In particolar modo questi meccanismi vanno a intaccare l’Edilizia Residenziale Pubblica (ERP), notoriamente orientata a fasce indigenti di popolazione (si parla anche di 5000€ di ISEE), in favore del cosiddetto Social Housing, che pur non essendo rivolto a un’utenza abbiente, alza l’asticella mediamente attorno ai 15.000€, garantendo inquilini in grado di inserirsi nella rete di consumi di quel «comparto plurivalente» fatto di «uffici, hotel, spazi commerciali e parcheggi» che andranno a sostituire il tessuto abitativo esistente.

Sempre online si leggono commenti entusiasti nel merito di un’operazione «necessaria per la città» che parlano di un futuro di investimenti. Ma se le condizioni di abitabilità di Milano sono drasticamente calate negli ultimi anni, con costi alle stelle per affitti e non solo, se la città è giunta al paradosso di allontanare da sé proprio quelle categorie sociali che ne permettono il funzionamento (dagli insegnanti ai conducenti della metropolitana), se le fasce più a rischio vengono marginalizzate e ghettizate nelle periferie non offrendo spazi di cura e servizio, i quali diventano invece appannaggio di chi se li può permettere (così come accade per esempio nel deterioramento della sanità pubblica), dicevamo, se tutto ciò accade è proprio in relazione alla finanziarizzazione del suolo urbano, diventato oramai lo strumento prediletto dagli investitori stranieri attraverso cui estrarre ricchezza.

Ne parla anche il neonato collettivo Gessi White nel saggio Città in affitto, dove attraverso tre casi studio (Roma, Bologna e proprio Milano), si indaga come l’ossessione trasformativa del tessuto urbano sui vettori di decoro ed elitismo – tipica peraltro del capoluogo lombardo – faccia oggi da sponda all’intrusione nuovi proprietari privati per fette della città sempre più ampie, inserendosi nel vuoto di politiche abitative e controllando la pianificazione urbanistica.

Ma se altre città europee hanno già preso ingenti contromisure – come nel caso di Barcellona – quest’ultimo capitolo della vicenda milanese sembra confermare una narrazione delirante che né le manifestazioni in favore degli spazi autonomi, né le inchieste della magistratura e neppure l’aura simbolica, popolare e storica di un luogo come San Siro sembrano in grado di scalfire.

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