Sabato scorso sono andato a Tolmezzo, provincia di Udine, dove si incontrano tutte le vallate della Carnia, alla Sagra della mela. Frittelle bollenti, esibizioni soft air, gruppi astronomici, grandi paioli di acqua bollente riscaldata a fuoco vivo per mantenersi caldi: è ancora settembre, ma non si direbbe. Mentre nel tendone principale della pro loco, tra le casse di mele, una docente di ballo biondo platino e in tutina leopardata si esibisce in una sessione di mambo triestino, dall’altro lato del paese, all’Auditorium Candoni, Massimo Silverio presentava in anteprima Surtùm, il suo nuovo lavoro in uscita il 10 ottobre.
Già che ero lì, sono andato a sentirlo. Sul palco con lui a suonare le nuove sette tracce, Benedetta Fabbri (al violino) e la diade – sodalizio consolidato – Nicolas Remondino (alle percussioni) e Manuel Volpe (synth e produzione), entrambi già al suo fianco in Hrudja. Per tirare le somme della serata, dopo l’abbuffata in sagra e il concerto, posso asserire con certezza che il suo nuovo lavoro è anche meglio del cestino di frico croccante con i porcini fritti e foglie di mele divorato poco prima. E vi assicuro, chi lo ha assaggiato confermerà: era un piatto veramente delizioso.
Partiamo da Hrudja, tuo album d’esordio scritto e cantato interamente in carnico. Un lungo tour e un apprezzamento generale della critica, con endorsement altisonanti. Che consapevolezza ti ha dato l’esperienza acquisita? E come ha influenzato la nascita Surtùm?
Tutto quello che è successo con Hrudja non me l’aspettavo. Non perché non credessi nella mia musica, ma perché è sempre stato difficile riuscire a portare qualcosa di mio fuori dal Friuli-Venezia Giulia. È una terra bella ma decisamente difficile a livello musicale. Durante il tour ho iniziato a sentire un rapporto fortissimo con i ragazzi con cui stavo portando in giro il disco (Volpe e Remondino, nda). Ci siamo trovati tutti e tre molto sintonizzati su questo progetto, abbiamo iniziato a crederci molto di più, a voler fare esplodere questo potenziale che stavamo scoprendo. Allo stesso tempo stavamo vivendo tutti grossi cambiamenti nelle nostre vite personali, e per me è stato molto prezioso vedere che – nonostante le varie incombenze – avessero deciso di includere questo progetto all’interno dei loro intensi processi di cambiamento. L’idea di Surtùm è nata lì, da questa sintonia, che si è tradotta in necessità e volontà di fare un disco nuovo. Che può sembrare una banalità, ma ciò non toglie che sia meno vero.
Immagino che anche il processo creativo sia stato differente rispetto a Hrudja, figlio di anni di composizioni condensati in dieci giorni di registrazioni.
Sorgjâl, uno dei due singoli di Surtùm, è nata proprio da quell’entusiasmo, dal riconoscimento della volontà di fare nuova musica in trio. È stata composta assieme, a partire da una sessione di improvvisazione in studio. Il resto dell’album è più personale: io porto melodie e armonie in studio e – assieme – si decide in che direzione svilupparle.
Ti do qualche impressione a caldo dall’ascolto del nuovo disco, che vogliono essere smentite. La voce si percepisce più in faccia, esce fuori in maniera decisamente più nitida, così come le ritmiche: molto più decise e in primo piano. Sonorità che tendono al trip hop.
Non è stato un processo conscio. Ci siamo lasciati andare, abbiamo deciso di smettere di porci limiti, facendo quello che ci sentivamo. Del trip hop mi ha sempre appassionato la mantricità di certe ritmiche, e la ricerca di determinate atmosfere, che allo stesso tempo ti svegliano, ti tengono conscio, incollato, ma che hanno comunque un’armonia e delle arie che sono completamente introspettive. Riescono a tenere l’attenzione facendoti pensare. I Massive Attack per me sono un punto di riferimento, anche per posizioni politiche e soprattutto per la questione ambientale.
L’immagine fondativa di Hrudja era la crosta che si crea al rimarginarsi di una ferita. La ferita si è cicatrizzata con Surtùm?
Hrudja era uno sfogo di qualcosa che avevo dentro, che tuttora non so bene cosa fosse. Il processo non è mai pienamente consapevole, magari solo dopo anni che ho scritto una canzone capisco cosa stavo effettivamente lasciando andare quando l’ho composta. Con Surtùm il processo è stato diverso: sono partito da una domanda più interna, più profonda, che andava a scavare dentro. Mi sono chiesto: che senso ha stare a fare quello che faccio? Che senso ha fare canzoni, cantarle davanti a un pubblico? Ragionando su questo volevo creare qualcosa che avesse una forza anche fine a sé stessa, ma che – nonostante ciò – avesse un suo senso di esistere. Senza essere semplicemente un esercizio egoico. La notte che è uscito Hrudja, alla mezza, stavo guardando Fitzcarraldo. Surtùm è probabilmente nato lì. Mi stavo già interrogando sulla conquista dell’inutile, ancor prima che venisse pubblicato il mio primo disco: che senso ha tutto questo? È una domanda ovviamente ancora aperta. Cosa resta di un canto una volta che è finito? Dove si deposita?
Si deposita in Surtùm ovvero, se i miei traduttori sono corretti nella palude.
Esatto. Mi piaceva l’immagine di questo luogo astratto in cui gli echi, le code dei suoni, il caos dei riverberi – tipici dei luoghi come le chiese, le navate, dediti al canto e all’orazione, in cui puoi sentire il tuo suono che se ne sta andando – si andassero a depositare. L’idea che l’eco che muore si possa depositare in un luogo ideale. Il termine surtùm è desueto, l’ho recuperato nei vecchi scritti della società filologica friulana. Mi convinceva come suono e mi sono immaginato un luogo che – come la palude – ospita la morte, ma è fonte di vita. Un luogo in cui tutta questa eco, il nostro lascito, possa andare a sedimentarsi.
In Hrudja l’atto psicomagico jodorowskiano era il bruciare della Femenate nella Val d’Incaroio, immortalata dal video di Jevâ. Si tratta di un grande rombo bruciato il giorno precedente l’Epifania per attuare una previsione sul raccolto dell’anno successivo: se le faville vanno verso levante, si preannuncia un buon raccolto per l’anno successivo. Il raccolto è finito, e Surtùm si apre con Sorgjâl, un altro chiaro riferimento all’universo contadino: il fusto secco del mais reciso, ciò che rimane della pianta dopo il raccolto.
Sono molto contento che tu abbia notato questi richiami agricoli. Il carnico è una lingua che è sempre stata molto legata al mondo del lavoro. Tanta della profondità della lingua si sta perdendo perché esisteva tutta una costellazione di terminologie legata agli utensili, agli oggetti di lavori, che non vengono più utilizzati, e questo retaggio si trasporta alla lingua. Il rito della Femenate si basa sull’idea di arrivare alla fine dell’anno per vedere cosa hai raccolto durante quei 12 mesi. Il rogo di questo rombo – che dovrebbe rappresentare una strega – a me sembrava proprio una crosta. Decidere di bruciare le ferite di quest’anno e di rinascere. Questo moto continuo delle persone, il bisogno che hanno di ricominciare.
Da che parte sono andate le faville?
Basta guardare quello che sta succedendo nel mondo: sono andate dalla parte sbagliata. Mi sono chiesto: ma da dove ricominciamo? Qual è il nostro raccolto? Sembra che quello che stiamo raccogliendo siano piante che sono già state amputate. Non è bello questo “attuale”. Per niente.

Foto: Riccardo Carpa
Il tuo “attuale” si svolge in Carnia. Dopo un periodo ad Udine – non esattamente New York – hai comunque sentito la necessità di tornare tra le valli. È un atto di resistenza il tuo?
Io sono stato parte dello spopolamento. Sono stato il giovane che se ne andava dal paese alla ricerca di altro. Ma ho sempre voluto tornare. Per me è importante tornare in posti del genere e consentirgli di vivere un po’ di più. In soli cinque anni il mio paese, Cercivento, ha subito un declino totale. È difficile vivere in Carnia, è duro, gli inverni sono difficili. Molto difficili. Però allo stesso tempo non credo di voler altro che poter aprire la porta, fare dieci passi ed essere nel bosco. Un novembre in cui vivevo ancora a Udine avevo deciso di tornare per 15 giorni al mio paese. Ho fatto delle lunghissime passeggiate in tutti i luoghi della mia infanzia. Scrivevo tanto. Per una volta in vita mia mi sono sentito dentro di me. Mi sono abitato e sono riuscito a vivere effettivamente qualcosa. Ero presente. E credo che questo possa succedere solo lontano dalla frenesia. Ne sento il bisogno, e credo che tante persone dovrebbero tornare ad una vita più lenta. Avere un po’ più di cura di quello che ci circonda. Dalle altre persone, alla natura. Tornare su per me significa anche questo. Decido consciamente di vivere quei luoghi lì. Banalmente fare le prove lì. Portare gente che suona, far risuonare un po’ di musica nelle case vicine alla mia.
La Carnia, terra densa di ritualità e leggende. Una dimensione mistica che traspare nella tua musica. Se cerchi Cercivento su Google Maps, leggo, appena sopra: Pian di Streghe. Citata, peraltro, anche da Giosuè Carducci.
Le aganes, le streghe della Carnia. Mia madre me le descriveva come delle donne brutte, cattive, che indossavano i vestiti al contrario e mangiavano i bambini. Esiste una leggenda a riguardo che vede come protagonista un mio compaesano che porta peraltro il mio stesso cognome. Si narra che il signor Silverio spostasse ogni giorno il confine del suo campo, rubando un po’ di terra agli altri. Processato, durante l’udienza, si era messo un po’ di terra negli stivali e davanti alla corte giurò di avere “sempre camminato sulla propria terra”. Arringa inattaccabile. Scoperto però il trucco, viene condannato a picchettare la montagna per l’eternità. Mentre picchettava, tra le dolomiti, nei canaloni di sedimenti franati, il signor Silverio si fermava a guardare ballare le streghe – o fate, come dice il Carducci – che si incontravano a Pian. Che vada messo agli atti: a discapito del mio avo, io non ho mai rubato terra a nessuno.
Tu ti rifai alla scuola cantautoriale friulana, tra gli altri, Loris Vescovo e Lino Straulino. Chiaramente però il tuo lavoro si distacca in maniera viscerale da quella tradizione.
Lino era il mio maestro alle elementari. Questo signore bellissimo, con i capelli lunghi. Ci faceva cantare Jimi Hendrix. Per me Lino era il musicista per antonomasia. C’era mio nonno che suonava la fisarmonica, ma era comunque un musicista da festa. Lui invece aveva un’identità, lo vedevi che stava cercando qualcosa. Io parlo in carnico, penso in carnico, parlo da solo in carnico, è la mia prima lingua, di conseguenza, non potevo che cantare in carnico. La mia scelta non è solo sonora. C’è una narrazione nei miei brani. C’è sempre un chiaro punto di partenza, da cui poi il resto si delinea. Poi ho capito che tutte le illuminazioni mi arrivano attraverso il tentativo di lasciare che le parole si scelgano da loro. Emulare la vera poesia. Io non sono un poeta, ma amo leggere la poesia e leggerci della verità all’interno. Non parlo di esercizi di stile. Quando cerchi di lasciarti andare e lasciare che le parole successive arrivino da sé. Scoprendo cosa segue, lì, in quel momento, si manifestano alcune verità. Almeno per me funziona così.
Lino Straulino canta la villotta (composizione polifonica su testo in friulano su base ottonaria) Fasìn un cjant: “Facciamo un canto alla carnica, che ci possano sentire da lontano”. È quello che fai tu.
È vero, è una canzone molto forte. Io le sentivo le signore che mentre facevano la mede (tagliavano il fieno), cantavano le villotte. Era una cosa meravigliosa. In montagna a cantare con l’idea che, da lontano, qualcuno ti senta. Mi piace questa sensazione di tendere verso qualcosa di lontano. A me personalmente, anche sbagliando, anche senza magari mai incontrarla davvero nella mia vita, piace l’idea di inseguire una verità. Anche se la sento lontana, mi piace tendervi.
Un tema, quello della ricerca della verità, che ritorna, e che forse spiega la tua passione per il cinema documentaristico.
Sono sempre stato estremamente toccato dai documentari di Herzog. Mi sarebbe piaciuto aver avuto la possibilità o la manualità di lavorare con le immagini in maniera effettiva, ma sono totalmente negato. Ed è un grosso limite, perché in questo senso il cinema mi ha sempre ispirato molto più della musica stessa. Ti permette di condurre una vera ricerca, in un tentativo di raggiungere qualcosa di importante, di veramente utile. La delicatezza che devi avere per trattare certi argomenti. La dedizione alla ricerca dell’immagine, e per i documentaristi, come Giulio Squarci, che ha la regia dei miei contenuti video, verso la ricerca anche di una verità. È uno che lavora con il reale, in tutte le sue forme. Il documentario è una forma d’arte che ti consente di conoscere veramente le persone che stanno male, e di cercare di prendere la loro voce e provare a portarla un po’ fuori. Senza artifici, senza abbellimenti, con l’unico obiettivo di ridare dignità a persone o storie che sono al margine. Per me è fondamentale rendere ciò che è marginale grande, importante. Mi piacerebbe tendere a qualcosa che abbia un seme di autenticamente genuino, senza sfociare nell’artificioso, nell’edonismo e nel controllo. Quello che faccio deve essere in funzione della verità.








