Nella scuola italiana del 2025, l’educazione sessuale è un tabù e quella finanziaria un’utopia. Ma già che ci siamo, ci sarebbe un’altra materia in cui i bambini, adolescenti, adulti di domani e oggi avrebbero bisogno di una formazione lunga quanto tutto il percorso scolastico e oltre: l’educazione al lutto. Il nome accademico è Death Education, che in lingua traduciamo con un più soffice riferimento al lutto, piuttosto che alla morte stessa. Si tratta di una disciplina nata nei paesi anglosassoni intorno agli Anni ’70, per affrontare con approccio educativo il tema della morte, inizialmente in contesti ospedalieri e di formazione. Tra le più famose esponenti c’è Elisabeth Kübler-Ross, di cui il nome magari non vi dice nulla, anche se probabilmente avrete sentito parlare del suo modello, le cinque fasi dell’elaborazione del lutto, anche solo per quella famosa puntata di Scrubs.
Detto in brevissimo, la Death Education serve a questo: affrontare la perdita, smantellare il tabù attorno alla morte, la sua negazione. E lo fa da un punto di vista emotivo, cognitivo e sociale. Dai contesti sanitari a quelli accademici, oggi la Death Education è una realtà piuttosto diffusa nel curriculum scolastico inglese e americano, mentre in Italia è – come nel caso delle già citate educazione affettiva ed economica – un’iniziativa sporadica lasciata nelle mani di associazioni volontarie e di quei professori con il dono della lungimiranza. Per la verità, c’è anche un caso virtuoso: l’Università di Padova è stata la prima in Italia ad avviare un Master in Death Studies & the End of Life, cioè in Death Education. All’argomento è dedicato anche un festival, decisamente longevo, chiamato Il rumore del lutto.
Creato nel 2007 da Maria Angela Gelati, tanatologa, docente e formatrice e Marco Pipitone, critico musicale e fotografo, è arrivato quest’anno alla sua 19esima edizione, che si svolge tra Parma e altre città dell’Emilia – con una puntata a Los Angeles – tra il 27 settembre e il 9 novembre. Il festival si struttura attraverso performance musicali e artistiche, incontri in forma di death cafè, laboratori scolastici per studenti e adulti, convegni. Il tema di quest’anno è l’invisibile, ovvero quello spazio intimo e fragile che quotidianamente mettiamo da parte per concentrarci su un piano pratico.
«Invisibili sono gli affetti, i legami, i ricordi, non solo di chi non c’è più, ma anche di chi è lontano dagli occhi, chi magari abita molto distante. Parlare di invisibile significa riconoscere che non tutto si misura o si fotografa e che, anzi, proprio ciò che non si vede spesso ci guida, perché ci muove da dentro», mi spiega Maria Angela Gelati quando la raggiungo via telefono. È a lei che ho fatto un sacco di domande sulla morte, per arrivare a capire che di una cosa così intrinsecamente collegata alla vita, a cui siamo sovraesposti dai giornali, i film, i prodotti culturali e i social, in realtà non siamo ancora riusciti a parlare davvero.
Secondo lo studio L’effetto dell’educazione alla morte sulla paura della morte tra gli adolescenti italiani condotto nel 2019 e pubblicato nell’archivio di National Library of Medicine, la Death Education a scuola ha effettivamente un riscontro positivo sugli studenti. Preso un campione di 534 alunni delle scuole superiori che hanno partecipato a un programma di educazione alla morte, i risultati hanno mostrato come le lezioni abbiano ridotto la paura della morte e la rappresentazione di essa come annientamento, migliorando al contempo la dimensione della spiritualità che – attenzione – non è da confondere con la religione in sé per sé.
Maria Angela Gelati cita una più recente indagine di Alma Diploma: «Quando hanno chiesto ai ragazzi diplomati nelle scuole superiori che cosa fosse mancato maggiormente nel percorso scolastico, i ragazzi per percentuali altissime hanno detto che è mancato trattare la gestione dei cambiamenti e dello stress, il benessere, la gestione della perdita. Perché la perdita c’è sempre, non è collegata solo alla morte, riguarda anche la perdita della vicinanza, della casa per una calamità naturale, la perdita della terra d’origine, la perdita di un partner, la perdita di un’amicizia. Si cresce cambiando e i ragazzi sentono molto questi aspetti. Gli insegnanti possono essere resistenti, perché valutano il tema della morte come “pesante”, ma quando vedono i risultati dei laboratori rimangono molto colpiti, perché capiscono che, invece, è un tema urgente».
Secondo la Death Education, nel corso del Novecento è avvenuto un processo di rimozione della morte della vita quotidiana. Mentre prima, per esempio, si moriva in casa, con i progressi della medicina e della tecnologia la morte è stata delegata al settore sanitario, si è spostata al di là dello sguardo: negli ospedali, nelle strutture mediche, nei linguaggi tecnici. È come se la morte fosse stata allontanata da ciò che è quotidiano. Allo stesso tempo, il lutto contemporaneo assume nuove forme, passando anche attraverso gli schermi. Entrano in gioco le identità digitali, i social come luoghi di memoria collettiva, i profili che rimangono attivi anche dopo il decesso. Tutta una serie di nuovi rituali che, se da un lato offrono sostengo, dall’altro rischiano di banalizzare o spettacolarizzare il dolore. «Nessuna tecnologia può prendersi carico al posto nostro del dolore. Non è una soluzione, ma può essere uno strumento» conclude Maria Angela Gelati.
La Death Education non serve solo quando ci troviamo davanti alla morte di qualcuno, ma ogni giorno, per dare un senso al tempo che abbiamo, al qui e ora. È un richiamo alla consapevolezza. Da non scambiare con l’ostinazione della FOMO: «L’invito della Death Education è quello di vivere intensamente, il che non significa con la pressione a essere sempre felici o performanti, ma proprio come un richiamo a riconoscere il valore del proprio tempo. Non serve correre, serve esserci anche quando qualcuno è in difficoltà, esserci quando si va a un concerto, quando si va a un incontro senza perderci dietro, per esempio, lo schermo. Il proposito è quello di accogliere la vita nella sua interezza, anche nelle sue ombre. Tante volte vogliamo anestetizzarci pur di non affrontare qualcosa che ci fa male».
Abbiamo troppa paura del dolore, oggi? «Tante volte, anche da parte dei genitori, c’è una protezione eccessiva, per esempio nel non far partecipare i figli ai funerali perché hanno paura che soffrano. Nel scegliere di non parlare della morte per paura di traumatizzare i più piccoli. Poi questi bambini diventano adulti e quando la sofferenza arriva, che cosa succede se non si è mai stati preparati? Affrontare la sofferenza non significa esserne travolti, significa darle un linguaggio, darle uno spazio, un contesto. Il silenzio fa più male. Chi vive un lutto e ha la possibilità di esprimersi, scopre che la sofferenza non li schiaccia, ma li trasforma».
Quello di Maria Angela Gelati è un discorso legato alla morte, ma appare stringersi anche all’amore, all’abbandono, alla comprensione dei “No”, del rifiuto, della fine di una relazione: «La relazione che finisce è sempre un lutto, non muore qualcuno, ma muore una parte di noi, quindi è a tutti gli effetti un lutto. Muore un legame, una parte di vita che abbiamo condiviso, una parte di identità, una parte di futuro che avevamo immaginato insieme. Di conseguenza, il cervello e il cuore lo vivono come un lutto, perché c’è dolore, c’è mancanza, c’è bisogno di ricostruirsi e, tante volte, c’è difficoltà nel ritrovare le risorse interiori».
Ormai è più che chiaro: la Death Education non è legata solo alla morte biologica. È un’educazione alla finitudine come parte della vita, una preparazione al cambiamento, per dirla come Gelati: «Tutto evolve continuamente ed è pericoloso andare contro questo meccanismo, perché è come voler separare l’alba dal tramonto. Accettare il mutamento significa imparare a stare anche con la fine delle cose: corpi, legami, città, persino noi stessi». Conclude la tanatologa: «La morte non è un’interruzione, è il volto più radicale del cambiamento».
Arrivate alla fine di questa lunga riflessione ho ancora una domanda, la più fifona e meno nobile di tutte. Immagino che anche, come dire, lo studioso più grande di Death Education, alla fine continui un po’ a temere la propria morte. Maria Angela Gelati mi risponde così: «Chi svolge il percorso di Padova, del Master, lavora molto anche sul rapporto con la propria stessa morte. Affrontare l’argomento non significa essere immuni dal timore, perché la paura è umana e negarla sarebbe ipocrisia. La differenza è che chi si occupa di questi temi può avere degli strumenti per non lasciarsi paralizzare. La paura è parte del percorso, ma diventa un’occasione per conoscersi e per crescere. E sì, anche lo studioso più grande resta, prima di tutto, una persona, e può avere paura. La differenza sta nell’attraversare la paura senza scappare».








