Manifestare è un necessario, e divertentissimo, atto creativo | Rolling Stone Italia
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Manifestare è un necessario, e divertentissimo, atto creativo

Ieri sera, le piazze del 22 settembre si sono riformate spontaneamente per protestare contro l'abbordaggio della Global Sumud Flotilla da parte di Israele. Riprendendosi le città e i loro spazi, e non per modo di dire

milano cadorna 1 ottobre manifestazione

La sera dell'1 ottobre, la stazione di Milano Cadorna è stata occupata spontaneamente in sostegno alla Global Sumud Flotilla

Foto: Andrea Carrubba/Anadolu via Getty Images

Chi l’avrebbe mai detto che poco più in là delle banchine tra i binari della stazione di Milano Cadorna proliferassero piante di menta? È sera e per tutta la giornata il fiato è stato tenuto sospeso sui tracker della Flotilla in avvicinamento alla zona critica a largo di Gaza; poi attorno alle 19 la notizia arriva, scatta l’operazione di intercettazione da parte di Israele, le imbarcazioni vengono abbordate, si perdono i contatti, le informazioni iniziano a farsi confuse così come lo saranno per il resto della serata e della notte fino al momento in cui scrivo.

Ciononostante, il movimento culminato nello sciopero del 22 settembre si risveglia con una rapidità sbalorditiva, in meno di un’ora le piazze si mobilitano a Roma, Milano, Torino, Genova e in tantissime altre città. Lo scopo è sempre quello, bloccare tutto, manifestare, nel senso di palesare la propria presenza, il proprio dissenso contro il silenzio delle istituzioni, preparandosi a scioperare ancora il 2 e il 3 ottobre, con una forza e una determinazione che da tempo non si vedevano. Tuttavia, mentre anche io mi affretto verso Piazza della Scala (rinominata dai manifestanti Piazza Gaza) per poi sfilare in corteo fin dentro ai binari della stazione di Cadorna e poi verso Piazza Duomo, cercando di registrare e riportare annotazioni e considerazioni sulla serata, una riflessione sovrasta nella mente tutte le altre.

È stato lo psicologo statunitense James Gibson a parlare della teoria delle affordances. Fondatore della teoria ecologica della percezione, Gibson concepisce le affordances come le caratteristiche fisiche di un oggetto o di uno spazio tali da evocare all’utente o all’attraversatore una gamma di “possibilità di azione” che possono essere intraprese per utilizzarlo o entrare in contatto con esso. Proprio per questo motivo la capacità di azione di un soggetto su un oggetto o uno spazio dipende dalle facoltà di azione che egli possiede su quell’oggetto o in quello spazio (per esempio: l’ultimo ripiano di una mensola può essere un luogo di possibile stazionamento per un gatto, ma non per un cane; una strada carrabile può essere attraversata a piedi solo in determinate condizioni, una porta deve avere un meccanismo di apertura e così via).

L’affordance può essere definita perciò come un invito all’utilizzo in relazione al soggetto: essa è perciò una qualità che appartiene a un rapporto dinamico con lo spazio circostante, sottolineando come il modo in cui percepiamo gli oggetti e gli spazi sia dato essenzialmente in funzione delle azioni che possiamo svolgere con e in essi. Al centro non solo delle scienze cognitive, l’idea di affordance diventa sostanziale così anche per il design e la progettazione di ambienti ed è facile dunque comprendere come gli spazi che attraversiamo siano concepiti per un determinato uso, parlino da sé, ci dicano, raccontino in qualche modo come debbano essere utilizzati. Per questo motivo, certamente, tutti gli spazi sono in un certo grado normativi, dalla nostra relazione con essi ci si aspetta qualcosa e non qualcos’altro.

E però scriveva il sociologo Michel de Certeau che in opposizione al racconto calato dall’alto, tra le maglie della tecnica di un ordine impositivo e regolare, potesse proprio essere l’uomo comune, il passante, in grado di ridefinire profondamente l’interazione con gli spazi, di creare cioè linee proprie, proprie mappe, di saltare eludendo alcuni aspetti dello spazio urbano e di risemantizzarne altri mediante una creatività intrinseca e in grado di eludere i blocchi dell’ordine costituito.

E proprio tale punto mi è parso di cogliere in queste due giornate di manifestazioni dedicate al bloccare: l’irruzione in spazi proibiti, il sovvertimento delle funzionalità, la riscrittura delle affordances e quindi una conseguente riappropriazione dello spazio urbano. Il quale da inerte e grigio, rettilineo e monotono, come ci appare nelle grandi città, muta in nuovi significati civili e politici. Si riempie di gente, sì, ma soprattutto, si riempie di senso.

Ecco perché fa ridere il commento del ministro Tajani giunto in tarda serata a dire che i blocchi in tutta Italia non serviranno ad aiutare il popolo palestinese; perché è proprio, invece, da questa riappropriazione del territorio, da questa ribellione nell’uso degli spazi che si cela di sicuro uno dei cuori di questo movimento.

Se l’autorità locale regola gli spazi prediligendone l’aspetto funzionalista, proseguendo con de Certeau, camminare attraverso o penetrare in luoghi normalmente inaccessibili produce una sorta di “geografia seconda” legata a memorie, miti e sogni che si calano da un piano astratto, localizzandosi in quei luoghi, in questo caso risignificati dalla protesta. E se l’obiettivo di queste piazze è manifestare in favore dei diritti umani, ma soprattutto contro il silenzio e la connivenza delle istituzioni, allora esso è centrato proprio nel momento in cui il blocco, cioè la presenza fisica di centinaia di persone, riesce a eludere, sovvertire e spiazzare proprio quei codici normativi degli spazi che attraversa, creando di essi una nuova narrazione che privilegia il percorso sullo stato, che annida il disordine nell’ordine, che vive sempre muovendosi e che per questo motivo è tanto fragile quanto incisiva.

Il racconto è un atto creativo di significazione, uno strumento che permette di autorizzare il superamento di limiti e confini e, come scriveva Walter Benjamin, esso si incista nella memoria cambiando per sempre la nostra relazione con i luoghi.

È a questo che pensavo, salutando amici e conoscenti, attivisti ed ex studenti alla stazione di Cadorna, quando mi ha investito l’odore della menta tra i binari, che se non fossi stato proprio lì in quel momento, non avrei mai saputo un simile dettaglio in grado di colare nelle mie memorie e non scollarsi, di riplasmare un luogo anonimo e di transito. Ed è forse per questo che manifestare, scendere in piazza e in corteo, oltre a essere una cosa serissima è anche una cosa divertentissima, perché, proprio come i bambini che durante il gioco piegano lo spazio al loro volere, così nelle nostre vite adulte soprattutto in queste occasioni ci accade la stessa cosa, almeno per un po’ e, di certo, per una giusta causa.

Così, mentre godo di uno spazio inedito e di una prospettiva ribaltata, in mezzo all’odore insistente della menta, incontro un amico e collega. Quando gli chiedo come stia lui mi risponde sorridendo: «Sto molto meglio qui che a casa». Non potrei essere più d’accordo.