Francesco Sossai: cinema, Veneto e basta | Rolling Stone Italia
I bar di pianura

Francesco Sossai: cinema, Veneto e basta

La provincia come universo, un mondo fatto di strade e ritrovi alcolici, un road movie all'italiana che pare tutto un sogno e forse lo è: abbiamo chiacchierato con il regista de 'Le città di pianura', al cinema il 2 ottobre

le città di pianura

'Le città di pianura' di Francesco Sossai

Foto: Lucky Red

È la seconda volta che conosco Francesco Sossai. Di persona non ci siamo mai incontrati, filmicamente è un altro discorso. Scrissi di un suo cortometraggio, Il compleanno di Enrico, era passato alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes nel 2023. Il compleanno di Enrico era la storia di un lampo, l’amnesia presente di un bambino capace di trasfigurare l’attimo in fiabe e contorni vari. Con un bel twist horror e tanti omaggi al cinema italiano, quello di Dario Argento soprattutto.

La seconda volta che conosco Francesco Sossai è in occasione dell’uscita del suo lungometraggio di esordio, Le città di pianura, passato da Un Certain Regard, sempre a Cannes, però quest’anno. Non è davvero-davvero il suo primo film. Ce n’è uno perduto, si chiama Altri cannibali, è arrivato prima del corto e a Sossai è costato un bel po’ di compromessi, ma forse qui, anche se non ne sono del tutto sicura, meglio non parlarne. Ogni cosa a suo tempo.

Le città di pianura di Francesco Sossai - In concorso Un Certain Regard a Cannes 2025 - Trailer HD

Perché qui ora si narra delle gesta di una pianura veneta ostaggio delle sue stesse abitudini alcoliche, in accezione assolutamente goliardica. Sossai è feltrino, Feltre è in provincia di Belluno, ma ora si è trasferito a Venezia. Nella provincia, che è tutto un mondo anzi forse il mondo, Sossai c’è da sempre e sempre, credo, ci rimarrà. Come nel film, dalla pianura di provincia non c’è scampo.

Lo imparerà a proprie spese Giulio, interpretato da Filippo Scotti, uno studente campano arrivato al Nord per l’università che una notte rimarrà invischiato nel gozzovigliare di Carlobianchi (Sergio Romano) e Doriano (Pierpaolo Capovilla). Dall’autostrada ai bar, ai monumenti patrimonio del FAI, sulla strada ce n’è per ogni gusto. Specialmente se si condisce il tutto con un flair alla Kaurismäki-Jarmusch, non che abbiano mai lavorato insieme, però… Tanto che lo si sarebbe potuto chiamare Tassisti di giorno, questo film.

le città di pianura

Foto: Lucky Red

Così non avviene; è meglio, naturalmente. Ciononostante, Le città di pianura è vigile e vegeto, dialoga spigliatamente con la storia del cinema (comico) italiano e alla fine la verità vera è che manco vuole farci sbellicare, proprio non è quello il punto. La provincia potrà avere un sorriso intrinseco, ma è più quel fremito interiore, moto rettilineo uniforme, a cui si vibra a contatto con i vecchi della propria terra d’origine, qualunque essa sia.

È la goliardia saggia dello scrittore Daniele Benati (di Reggio Emilia), la disperazione di Vitaliano Trevisan, la saggistica partecipata di Gianni Celati mentre discende Verso la foce del Po. È un film di strada e sulla strada, nel senso di on the road. È un film riflessivo senza voler fare il filosofico. È un marchingegno di leve ben attivate, come se il mestiere del cinema potesse stare tutto in una formula giusta. Ok, qui esagero io, non credo che Sossai ne parlerebbe mai in questi termini. Allora, per evitare ulteriori sconfinamenti, rimane da dire che tutto quello che c’è da sapere, su questo film che esce il 2 ottobre a livello nazionale dopo una distribuzione limitata nel Triveneto (il tutto sotto la bandiera di Lucky Red), si troverà nell’intervista di seguito. Dunque, eccola che arriva.

Sergio Romano (Carlobianchi), Filippo Scotti (Giulio) e Pierpaolo Capovilla (Doriano) in ‘Le città di pianura’ di Francesco Sossai. Foto: Vivo film/Maze Pictures

Dopo Il compleanno di Enrico, opera molto diversa, come sei arrivato alle Città di pianura?
Volevo portare sullo schermo e descrivere il paesaggio della Pianura Padana. Sia appunto il paesaggio inteso come luoghi, sia quello umano. Questa è la motivazione ufficiale. Quella ufficiosa si radica in un evento di vita che mi è capitato una sera durante una bevuta lunghissima, sono capitato a Venezia e lì ho incontrato uno studente di Architettura dello IUAV originario di Napoli. Cioè, precisamente dall’Irpinia. Abbiamo passato una notte in giro a chiacchierare, è stato un confronto stupendo. Un ottimo incontro alcolico. Ho pensato che avrebbe potuto essere un valido spunto narrativo.

Soprattutto in Veneto…
Sì. Mi son detto: cavolo, ma nessuno ha ancora fatto un film sull’alcol in Veneto, su una cosa che è così importante? Mi sembrava un buon modo per esplorare (a dire il vero, almeno un fil sull’alcol, in Veneto, è stato girato: Finché c’è Prosecco c’è speranza di Antonio Padovan, 2017, nda).

Parliamo di questo rapporto.
Da una parte c’è l’idea che l’alcol sia il succo della terra, quello che sgorga dalla terra e che quindi lega a essa nel senso dell’appartenenza. Bere il vino, in Veneto, ha un significato arcaico, perché è un farsi di nuovo padroni della propria terra. Anche per questo è stata distrutta, ci si sono costruiti capannoni e autostrade. Se una cosa è tua, ne fai ciò che ti pare. Anche il fatto che si bestemmi molto: non c’è altra autorità sopra di te, nemmeno quella divina. Sei il padrone della terra, della tua terra. Quindi in Veneto sia lavora tantissimo e si beve tantissimo. Mi viene in mente una frase di Francesco Majno, uno scrittore veneto: “Dove c’è mescita, c’è vita”. E infatti la vita in Veneto si raggruppa ormai solo attorno all’alcol. Le città, le strade… Tutto è vuoto, si va in giro in macchina e poi ci si ritrova al bar. Il resto è vuoto. L’unica via sociale passa attraverso l’alcol. E penso che nel mio film sia abbastanza evidente: si incontra qualcuno solo se si sta bevendo.

Francesco Sossai

Il regista Francesco Sossai sul set. Foto cortesia

C’è anche una dimensione iniziatica, in tutto questo.
Sì, nel viaggio dei tre ragazzi c’è di sicuro. Un viaggio lungo il quale non c’è mai giudizio, mai il positivo o il negativo. Non volevo pesare il cuore ai personaggi, e nemmeno ai luoghi, che sono ripresi tutti nello stesso modo, non c’è bello o brutto. Volevo fare un film che accettasse quello che c’era, e che lo guardasse con occhi nuovi. Altrimenti si estetizza tutto quanto. Io voglio solo mostrare le cose nella maniera più autentica possibile.

Andiamo da tutt’altra parte: tu ti reputi un regista indie?
Bella domanda, sono indie io? Le città di pianura è stato prodotto da Rai Cinema e Vivo film, distribuito da Lucky Red… Prima lo ero di più. Ora sono un turista dell’indie e, anzi, vivo molto fuori dall’orbita del cinema, sto qui in Veneto e mi faccio i cazzi miei. Faccio i miei film, sto al bar. Certo, ora lavoro anche nell’industria del cinema, ma ti devo dire che è andato davvero tutto bene, con questo film. Non mi spaventava nulla delle difficoltà del doverlo girare, indie o non indie. Sarà forse per quel lungometraggio perduto che ho girato prima del Compleanno di Enrico, completamente senza soldi, tre anni di post-produzione. Avevo camperizzato la mia macchina per dormirci, non sapevo come fare con i soldi…

Guardandoti intorno, invece…
Posso dire che quest’anno, oltre al mio film, vedo comunanza con Un anno di scuola di Laura Samani e Testa o croce? di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis. E se li guardi insieme, questi tre film, secondo me danno una bella fotografia di che cosa è in un certo senso l’indie italiano oggi, o comunque dell’opera di quattro registi che vengono dall’indie.

Ci sono dei tratti generazionali, anche.
Sì. Soprattutto con Rigo de Righi e Zoppis, condivido la voglia di fare un cinema che sia cinema. Di mettersi in dialogo con la tradizione. Io ho riletto il road movie, loro il western. Con Laura trovo la comunanza del periodo storico, l’anno 2008, e un’epoca che non era stata molto raccontata finora dalle nostre parti, quella della crisi economica. Non è un caso che siamo tutti più o meno della stessa classe.

le città di pianura

Foto: Lucky Red

Nel Compleanno di Enrico c’era una forte dimensione di ricordi autobiografici. Nelle Città di pianura troviamo all’inizio un personaggio che si chiama Primo Sossai. Chi è? Te lo sei inventato, esiste davvero…?
Questo fa parte di un riflessione più ampia, ovvero, che siamo in un periodo di crisi delle finzioni. Era una cosa che aveva profetizzato lo scrittore Gianni Celati, a un certo punto ci saremmo trovati in un crollo. E quindi, il contratto con il pubblico avrebbe dovuto basarsi su altri elementi. Secondo me, oggi uno di questi rapporti più importanti è l’autobiografismo. In questa vicenda io non l’avevo, da un certo punto di vista, oltre l’aneddoto scatenante. Allora ho pensato: se all’inizio il pubblico sente il mio cognome legato a un personaggio, allora si rilassa, perché pensa che abbia un legame con tutta la storia. E così accetta meglio la storia che sta per vedere.

Sfondi la quarta parete senza toccarla. Ci sono altri rimandi semi-onirici nel testo del film, per esempio quando un personaggio del passato si trova interpretato da uno del presente.
È un ricordo, questo che dici, che viene ripreso tre volte, in tre modi diversi e da diversi punti di vista. Era importante per me tornare nello stesso luogo più volte, e in maniera diversa. Così da far capire che le leggende e i racconti possono essere letti e riletti in mille modi possibili. Le storie sono esattamente quello che sono: storie. Mi sono chiesto: che ruolo deve avere il pubblico nei confronti di un film? E mi sono risposto: coinvolgimento totale. Anche perché è esattamente quello che succede nei racconti di paese: vengono ripresi e distorti, la verità nei ricordi non esiste, sono sempre nostre distorsioni, una nostra immaginazione. Per dirla in parole povere: basta mettersi il maglione di un altro personaggio per diventarlo.

C’è anche un altro dialogo con questa provincia: viene da pensare, guardando il tuo film, che sia molto più libera di una città.
È vero di sicuro per la provincia che navigano loro, in una condizione di zona d’ombra. Li hanno fatti fuori dal mondo del lavoro, Giulio ancora non vi è entrato, è l’ultimo fine settimana prima del resto della sua vita, come in American Graffiti di George Lucas. Hanno mappe per navigare una provincia e un Veneto d’ombra, nel doppio senso di oscurità ma anche di ombra de vin. Navigano queste zone grigie proprio perché sono liberi dal giogo del lavoro.

È una presa di posizione politica?
Be’, certamente. C’è un’ascendenza abbastanza chiara delle Città di pianura nel cinema italiano. Fantozzi, Rosi, Petri… film che intrecciano il politico e il lavorativo. Penso si percepisca che una componente del film critica la visione di un universo espansionistico che svanisce con la crisi economica. Proprio per questo lo faccio finire alla Tomba Brion, che Carlo Scarpa aveva inteso come polo di multiculturalità. E invece viviamo in un mondo dove le differenze manco si vorrebbero. E anche sul lavoro, l’accelerazionismo era una cosa di quindici anni fa. Ora le macchine rubano il lavoro all’uomo, invece che aiutarlo.

Torniamo al punto che dicevamo prima: la crisi della finzione al cinema. Da dove proviene?
Manca il contratto tra chi racconta storie e chi le riceve. Siamo nell’epoca del bombardamento delle immagini, dell’Intelligenza Artificiale: è difficile, quel contratto, c’è poco da fare. Ho pensato quale potesse essere per riattivare il patto di finzione. Ho pensato: quando vado al bar, e qualcuno mi dice, “oh, ma lo sai che cosa mi è successo?”, be’, io ci credo. Allora ho provato a fare questa cosa qui: una fiatella alcolica di storia guardandosi dritto negli occhi, e alla fine tu un po’ ci credi.

Ma il bar di provincia è uno solo? O ce ne sono tanti?
Innanzitutto, la provincia non esiste, è una categorizzazione fatta dalla città. La provincia è una mappa dell’universo. Io penso che la gente abbia un bar preferito, come li ho io alla fine. Però io, per deformazione professionale, cambio bar spesso, così sento roba diversa. Ma in quello sotto casa, per dire, ci sono sempre quelli fissi. È un senso di appartenenza forte, per qualcuno è proprio un’altra stanza della casa.

Ma gli avventori dei bar si categorizzano in base a quello che ordinano?
Certo che sì. In Veneto esistono le mappe di quello che si ordina in ogni provincia. Vedi subito chi è chi da che cosa si ordina. Se prendi uno spritz al Select sei dentro, ma anche spritz Cynar, perché sei anche tifoso del Venezia F.C. Anche chi ordina le ombre è dentro, è uno di quelli giusti. Se bevi birra vuol dire che hai appena staccato da lavoro. Spritz bianco: sei proprio austro-ungarico. Sei fuori dal giro se chiedi variazioni strane, o cocktail tipo l’Hugo, per dire.

C’è un segreto della vita, all’inizio e alla fine del film: qual è?
Ah! Non ne ho idea. Era più che altro un simbolo dell’atteggiamento pontificatorio di quelli che al bar vogliono rivelarti il senso del mondo. Forse il segreto è che non c’è nessun segreto.

Senti, il futuro?
C’è. Ma come nelle migliori tradizioni, non se ne parla.