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Woody a pezzi (nel suo primo romanzo)

‘Che succede a Baum?’ è una tragicommedia spassosa e un’autobiografia travestita. Che condanna il nostro tempo ma non cerca mai l’assoluzione

Woody a pezzi (nel suo primo romanzo)

Woody Allen a Venezia nel 2023

Foto: Franco Origlia/Getty Images

“… ciò che desiderava ardentemente, ed era certo di poter realizzare, era creare con la sua immaginazione: scrivere narrativa, […] costruire storie che commuovessero le persone, che vibrassero con le loro emozioni, le loro paure e i loro desideri più appassionati”. Ed eccolo, il primo romanzo, a un mese e qualcosa dai novant’anni, di Woody Allen. Che subito dopo, in qualità di narratore onnisciente (prima di tutto di sé stesso), dice che “ci sono troppe cose dentro di me. Sono profondo. È un male per un autore? Dillo ai grandi autori russi”; per poi rispondersi un attimo dopo: “Tu hai un talento modesto, ma sai venderti bene”.

Perché il protagonista di Che succede a Baum? (in libreria con La nave di Teseo) parla da solo, o meglio parla a sé stesso, ed è quello che fa Woody con il suo primo romanzo. In cui ribadisce quello che ci dice da una vita, e a cui noi non abbiamo mai voluto credere: così come, secondo lui, non è mai riuscito ad essere un grande regista (i grandi sono i Bergman, i Fellini), così non potrà mai essere un grande scrittore (i grandi sono i Dostoevskij, i Philip Roth). Tutti debitamente citati, così siamo tutti avvisati fin dal principio.

Che succede a Baum? è una tragicommedia ebrea newyorkese, un re-coming of age (cioè: la storia di un tizio che capisce cosa vuol dire essere un uomo di questo tempo, lui che appartiene a un altro tempo), e un’autobiografia inventata, falsata, mascherata ma nemmeno troppo.

Asher Baum parla da solo, ha una bella moglie che non lo ama più, un figlioccio che ha scritto un libro paraculo su questo tempo e che dunque potrebbe vincere il Pulitzer (vi ricorda qualcuno? ora ci arriviamo), un’accusa di molestie sulle spalle (!), una scarsissima autostima. Più di tutto, vede quello che gli sta attorno e non lo riconosce più, dunque non riconosce più sé stesso.

Dopo il vero memoir A proposito di niente, che non era una richiesta di assoluzione ma la tragicommedia ebrea newyorkese di un uomo tutt’altro che ridicolo, Che succede a Baum? ne è quasi la versione immaginifica, onirica, dunque – se crediamo come lui nella psicanalisi – ancora più vera.

“Il cinismo non è che realismo scritto diversamente”, si legge in queste pagine. Tra Steve Tesich e Mark Sarvas (anche se l’autore punterebbe a Saul Bellow: il fantasma dei grandi, sempre), la storia di Baum è realistica (e reale), dunque piena di pizzini. Thane, il figlioccio di Baum adorato da mammà, parrebbe la copia conforme di Ronan Farrow, e difatti il protagonista ha una “rabbia repressa per l’ossessiva adulazione materna per un arrogante genietto in erba, il cui talento veniva confermato da quella che Baum considerava una cricca di volgari filistei” (c’è molto altro, ma non voglio togliervi il piacere).

La casa in Connecticut quando in realtà si amerebbe il caos di Manhattan, la nostalgia di vivere in un altro luogo e in un altro tempo (o direttamente dentro un quadro di Pissarro) alla Midnight in Paris, l’ipocondria, il Bemelmans Bar, Dio che non c’è e se c’è non ci ascolta. C’è tutto, più vero del vero, e c’è soprattutto non tanto l’accusa, ma il rammarico per questo tempo. Il tempo dei volgari filistei.

Woody Allen sarà anche un romanziere principiante, ma sappiamo che è uno scrittore accortissimo, checché ne dica, e non ha l’ingenuità di far pontificare su questo tempo al suo protagonista, cioè a sé stesso. Lo fa fare all’amico ebreo che ormai non ha più niente da perdere. “So che è brutto subire una calunnia o una diffamazione”, dice Amnon ad Asher, “ma a volte è meglio aspettare il proprio momento e non fare nulla, piuttosto che prendere le armi contro un mare di guai e renderli molto peggiori”. E anche: “Nella cultura attuale un’accusa vale quanto una condanna”.

Woody Allen, artista e uomo che non meritava nessuna accusa e nessuna condanna (non sto a ripetervi qui perché), mette nel romanzo i suoi tormenti (è giusto? è sbagliato? di certo non ha scelto la facile via dell’autofiction, e in questo tempo è già una vittoria) e una speranza: “Tutto questo non durerà e la razionalità farà ritorno”. Ce lo auguriamo tutti, scrollando post filistei giorno dopo giorno, ora dopo ora.

Baum “ha scoperto che un romanzo può essere dieci volte più lungo di uno dei suoi racconti, ma scriverlo è cento volte più difficile”, e così Woody. Che succede a Baum? è un libro spedito, spassoso, piacevole come i suoi film anche meno celebrati (sono di parte). Un coup de chance che si è concesso a novant’anni, un Baum a pezzi che prova a fare a pezzi dicerie, idiosincrasie, pettegolezzi, ma anche solo a divertirsi (e divertirci).

“Librerie, negozi di dischi, sale cinematografiche. Quanto gli piacevano, anche se erano quasi tutti scomparsi”. È lì che Baum tenta di rifugiarsi, è lì che torna Woody. Non lasciate che scompaia anche lui, non archiviatelo come un cineclub polveroso. Non liquidatelo con quella che Baum teme potrà essere la sua epigrafe: “QUI GIACE ASHER BAUM. E ALLORA?”. E allora grazie Dio per averci dato un altro Woody, anche se non ci sei, e se ci sei non ci ascolti – e ci lasci tra questi volgari filistei.

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