Quando la favola del ghetto diventa spettacolo: benvenuti al ‘Gran Teatro’ di Ghali | Rolling Stone Italia
«Fumo sighe pacifiste»

Quando la favola del ghetto diventa spettacolo: benvenuti al ‘Gran Teatro’ di Ghali

Tra musical anni ’40 e '50, circo felliniano e maranza sul palco, Ghali trasforma il suo ultimo concerto del 2025 in uno show globale e multiculturale. Che unisce generazioni e bolle diverse: TikTok e Sanremo, second-gen e fashion system, politica e festa

Quando la favola del ghetto diventa spettacolo: benvenuti al ‘Gran Teatro’ di Ghali

Un momento di 'Gran Teatro', lo show di Ghali a Rho

Foto: Antonio De Masi

«Adesso sta per salire sul palco l’artista preferito di mia mamma, l’unico forse più stiloso di me… direttamente da Baggio, l’inimitabile Ghali»: è così che Silvestro Baffo, nome noto per chi segue i social per l’occasione travestito da giullare, introduce Gran Teatro, un vero e proprio show con ballerini, performer e musicisti, ispirato ai musical degli anni ’40 e ’50, alle Ziegfeld Follies di Broadway con Fred Astaire e al circo felliniano.

È l’ultima data del 2025 per il cantante, un arrivederci in grande stile al pubblico alla Fiera di Rho, a poche fermate di metropolitana dalla sua Baggio. E a salutarlo ci sono i suoi tanti fan, Millennials, qualche Gen X, e molti ragazzini accompagnati dai genitori, alcuni dei quali ballano sventolando bandiere della Palestina mentre i figli fanno i video per TikTok. È proprio questo crossover generazionale che rende unico Ghali, uno dei pochi artisti ad aver unito bolle che non avrebbero mai comunicato né condiviso una platea, la bolla del fashion da sfilata, divisa tra area vip e pit, quella giovane pop e social, quella politicizzata, le seconde generazioni, i devoti di Sanremo, gli influencer e i maranza.

Foto: Antonio De Masi

Ghali entra in scena con un stiloso collanone di proiettili, una sorta di divisa militare glam, come se volesse dirci che sta combattendo la sua personale guerra con la musica, non ha bisogno di sventolare bandiere, perché la bandiera è lui, sono le sue canzoni. Basta ascoltare Wily Wily, uno dei suoi primi successi, era il 2017 – “Questa guerra, questa merda, giuro, wallah, fra’, non mi piace/io sono un negro, terrorista, culo bianco, ladro, bangla, muso giallo” – per capire che oggi niente è cambiato, siamo ancora un paese profondamente razzista, ma non qui, stasera si fa festa.

Ecco allora 36 ballerini che si trasformano a seconda del brano in zombie, soldati di un sud del mondo in rivolta, cosplayer; un pianista accompagna il cantante in una versione acustica di Boulevard, su Lacrime si aggiunge una fisarmonica e l’orchestra egiziana porta la musica araba dentro alla trap, al pop e al rap, rivendicando una comunanza di ritmo e di linguaggio tra passato e futuro. L’identità multiculturale di Ghali non è mai stata così a fuoco nella messa in scena e lo spettacolo ne guadagna. Sarà anche perché dietro allo show c’è un collettivo artistico di livello, una rarità per il panorama poverello e provinciale dei concerti italiani: il direttore creativo Mohamed Sqalli per questo Gran Teatro ha chiamato la costume designer franco-algerina Constance Tabourga, la coreografa di origini congolesi Mariana Benenge e l’artista franco-marocchina Saradibiza per i visual 3D, senza dimenticare Nick Weiss da New York, che ha curato la direzione musicale.

Foto: Antonio De Masi

Baggio ombelico del mondo, la favola del ghetto raccontata da Ghali in molte delle sue canzoni ora sembra realtà, e in questo futuro accelerato c’è spazio non solo per celebrare le sue hit – da Paprika a Barcellona passando per Happy Days e l’ultima Maneskin – ma anche per tre inediti, ancora senza titolo, che fanno sperare non bene, benissimo: il primo sembra un pop-rai alla Cheb Mamì, con un mix di elettronica e realness neomelodica, mentre il secondo si candida a diventare un nuovo Cara Italia, un po’ latin patchanka alla Manu Chao, e un po’ Celentano quando canta “fumo sighe pacifiste”.

Foto: Antonio De Masi

Ma è il terzo inedito a stupire, quello che Ghali piazza nella parte finale dello show, la più esplicitamente politica con lui vestito in abito da cerimonia tunisino, insieme a Banya e Casa Mia, introdotta da scritte sui ledwall come “Finora ho soffocato le mie radici/ora basta!”: parte una base arab-tronica alla Omar Souleyman, il cantante clubber siriano con la kefiah che ha collaborato con Bjork, e sul palco salgono degli original maranza a ballare mentre Ghali rappa, il ritmo è ipnotico.

Foto: Antonio De Masi

Il concerto si era aperto con Ninna Nanna (sembra passato un secolo da quando uscì ma erano solo 8 anni fa) con Ghali che canta “Sono uscito dalla melma/Da una stalla a una stella/Compro una villa alla mamma/E poi penserò all’Africa”. Alla fine dello show Gran Teatro ci sembra di capire che all’Africa, musicalmente, ci sta pensando eccome, e questo non può che fare bene alla Cara Italia e alle nostre orecchie.

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