Scritto dall’autore francese Philippe Vilain, Lo studente è innanzitutto il romanzo di un giovane della provincia francese che diviene scrittore e intellettuale. In seconda battuta, e anzi sopratutto, è il racconto di una storia d’amore durata cinque anni con Annie Ernaux, già famosa, quando lui ancora era, appunto, uno studente. Molto si è detto attorno a questo romanzo, definito in alcuni casi banalmente come una risposta a Il ragazzo di Ernaux del 2022. In realtà la forma stessa del racconto di Vilain va ben oltre la relazione erotico-amorosa con Ernaux, concentrando il tutto in un classico romanzo di formazione in forma di autofiction.
D’altronde da un bel pezzo è chiaro a tutti che: «Madame Bovary c’est moi!», al punto che non si rende nemmeno più necessario dare ai protagonisti dei romanzi un nome e un genere diverso da quello di chi li scrive. L’autofiction regna ormai incontrastata sulla letteratura contemporanea, unendo prurigine e curiosità, qualità letteraria e vita quotidiana.
Certo, tutto si sarebbe potuto pensare meno che la vita di scrittrici e scrittori potesse in qualche modo risultare interessante, ma forse è lo scotto da pagare al progresso e alla tecnica, come si usava ancora dire nel Novecento. Demandare, delegare, far fare e stare a guardare ossessivamente oltre ci ha trasformato negli auto-controllori delle nostre stesse vite, e inoltre ha reso le medesime così svuotate da privarci non dico di eroi e di eroine, ma anche solo di qualche aneddoto memorabile e spendibile quanto meno alla cena di Natale, che duri il tempo di un vanto con i parenti.
Ma racontare di sé è anche il risultato di una vita per chi scrive di letteratura, obbligatoriamente vissuta oltre i libri e la letteratura stessa. La crisi dell’editoria non è solo generatrice di sconforto nel ceto medio riflessivo internazionale, ma ha generato quello che negli altri ambiti economici si definisce razionalizzazione delle risorse. Ristrutturazioni che quasi sempre corrispondono a destrutturazioni, ugualmente la riorganizzazione degli organici non è che il sinonimo elegante per dire esuberi.
I primi a essere colpiti sono ovviamente le scrittrici e gli scrittori, che non solo non possono contare di mantenersi basandosi sui diritti d’autore relativi alle vendite dei loro libri (questo era abbastanza improbabile anche prima), ma difficilmente possono trovare stampelle economiche in quel mondo editoriale oggi, più che fatiscente, praticamente in via d’estinzione. Dalle case editrici ai giornali poco resta di redazioni, editor, consulenti e scout. Così ormai, poveri ma famosi, non resta che mettere a frutto la propria stessa vita fatta spesso di sorprendenti e drastici cambiamenti.
Ovviamente a presidiare il tutto deve esserci un’impronta letteraria capace d’imporsi, non basta certo la cronaca di una vita vissuta – propria o altrui – a dare forma e sostanza a libri come quelli di Emmanuel Carrère. È necessaria una consapevolezza del sé e anche della letteratura che riesca a trasformare una vita “e basta” in una letteraria, anche riducendo al minimo la naturale presenza di fiction che avrà però rispetto a prima una natura diversa. Perché spesso proprio le parti di fiction non sono le parti più volutamente letterarie, ma quelle che indicano quelle pieghe e ambiguità spesso difficili da definire e affrontare su di sé; e che riguardano l’esistenza al suo stato più puro, se così si può dire.
Una destrutturazione autoriale che a differenza di quelle editoriali ha portato negli anni nuova linfa nella letteratura europea contemporanea, e di cui Annie Ernaux, Premio Nobel per la letteratura nel 2022 e ora protagonista di una sorta di contro storia di sé, è tra le principali artefici.
Lo studente, dicevamo, è il classico ritratto dell’artista da cucciolo che in più punti risulta affine alle opere di Didier Eribon, Édouard Louis o di Laurent Petitmangin. Un’attenzione non banale e sempre più diffusa nella letteratura contemporanea francese, che intreccia le proprie pagine con lo stato di disagio di una giovinezza che vive in particolare nella provincia impoverita e nelle periferie infinite delle grandi città, Parigi in testa. Un’età sempre più arresa alla destra fascista di Le Pen e alla propria condizione, la quale spesso riflette un interno famigliare segnato da disagio alcolico, disoccupazione e lavori a basso reddito.
Da tutto questo il giovane Phiillpe Vilain vuole liberarsi, ma prima ancora deve comprendere, davvero, che può liberarsene. Il suo è un percorso accidentato che lo porta molte volte a rischiare di cadere per sempre in quel baratro che prende avvio con un arresto per un qualche piccolo furto in un grande magazzino e che si conclude con un fermo e poi con l’impossibilità di completare gli studi. A salvarlo inizialmente è Sandrine, la prima compagna; ma sarà poi Ernaux a sostenerlo e aiutarlo nella sua formazione.
Certamente i due libri, se raffrontati, contengono due punti di vista molto diversi, ma non potrebbe essere altrimenti. Quando si conoscono lei ha già cinquant’anni ed è una scrittrice affermata, lui ha appena iniziato l’università e non sa ancora bene cosa fare della vita. Alcuni giudizi rivolti al ragazzo da parte di Ernaux sono sicuramente molto affilati e in alcuni casi duri, ma non di meno è duro e asciutto il modo in cui Vilain si allontana da lei – anche se sarà la scrittrice a rompere ufficialmente la loro relazione.
E in fondo molto di più del breve racconto di Ernaux svela il romanzo di Vilain. Perché se il primo poco aggiunge alla letteratura anche classica di quell’incontro amoroso che spesso si trasforma in scontro e che vede opposti due generi e in questo caso due generazioni e due ceti sociali, il secondo offre invece uno spaccato più originale e denso di un tempo che vive fortemente il disagio di una crisi sempre data per perenne, tanto più se letta e interpretata oltre la bolla di una svagata e vacua borghesia europea.
Il romanzo di Philippe Vilain ha la forza – che contraddistingue la parte migliore della letteratura francese contemporanea – di ricostruire un contesto che va ben al di là della visuale di Annie Ernaux, e lo fa senza contestarne la visione intima e privata, ma aggiungendo alla relazione amorosa l’evidenza di una condizione sociale ineluttabile. Quella forse da bifolco, come direbbe Ernaux, ma che riguarda milioni di giovani dispersi in uno stato di confusione perenne e ottundente.
Un essere giovani che vede le proprie giornate consumarsi tra slanci criminali e visioni politiche ultra-reazionarie, vite prive di famiglia e genitori al seguito che appaiono più immaturi e figli dei figli stessi. Con gli spazi di libertà più banali ridotti a zero diviene impossibile per molti di loro comprendere anche solo la situazione in cui si trovano immersi, e trovare o anche solo immaginare di conseguenza possibili vie d’uscita. Uno stato di abbandono che prosegue all’interno di istituti scolastici – spesso tecnici e quindi ritenuti di serie B – incapaci di affrontare quella che è a tutti gli effetti una delle più grandi emergenze europee degli ultimi cinquant’anni e che contempla praticamente tutti i temi cosiddetti caldi: dall’immigrazione alla sicurezza, dalla salute mentale al lavoro.
Tutti disagi che si concentrano sui giovani, trasformandoli in carne da macello utile solo al consumo e al perpetrarsi – anche attraverso la loro energia e la loro forza – di una società classista e diseguale che basa i propri principi non certo sul liberismo, ma sulla rendita di tradizione borghese, nobiliare e ultra-secolare. Lo studente dunque ha la forza di agire sì come autofiction, ma andando oltre gli sterili confini privati. Delineando così un’idea di romanzo sociale che già appartiene non a caso all’opera di Annie Ernaux. Alla fine, sia Vilain che Ernaux sanno benissimo che la loro relazione è stata reale quanto è tutt’ora meta letteraria. E che vive, là dove le cadute e le fragilità di ognuno ritrovano senso in un discorso sensibile che si fa universale e dentro al quale nessuno può dirsi – nel bene come nel male – escluso.








