Vice è l’unico giornale che mi abbia mai commissionato un pezzo per poi rifiutarlo (tutto da soli), e io non gliene ho mai voluto: forse, semplicemente, non ero così esperienziale per loro, e direi che è stato giusto così per entrambi. Comincio volutamente questo articolo su Vice Is Broke come fosse, appunto, un pezzo esperienziale, qualunque cosa significhi. È un omaggio, ma anche un monito a quello che il giornalismo tutto è diventato.
A un certo punto del film, questa cosa dell’esperienzialità viene datata. Il fu redattore Jesse Pearson dice che tutto ha iniziato a vacillare quando, attorno al 2010, il giornale ha cominciato a mandare ragazzini-wannabe-grandi firme in luoghi come la Liberia, «e quelli tornavano che sapevano giusto scrivere: “È un posto pericoloso”». Nasceva lì il giornalismo esperienziale, moriva il giornalismo-e-basta, qualunque cosa significhi.
Non che il giornalismo esperienziale non esistesse prima: era esperienziale pure Tom Wolfe (scusami, non fulminarmi da Lassù). Ma quel “faccio cose vedo gente” misto alla fine dell’ancien régime dell’editoria misto all’avvento dei social ha provocato l’inizio della fine. Vice Is Broke è il documentario (si vede su MUBI) che indaga questa deriva. L’ha diretto Eddie Huang, chef esperienziale del genere Bourdain, scrittore (l’autobiografia Fresh Off the Boat, poi diventata una serie ABC), e soprattutto testimone diretto di quel bengodi finito in bancarotta. È pensato, scritto, montato come un documentario di Vice, e anche questo è un omaggio e un monito.
L’America sta ragionando sui dibattiti culturali degli ultimi anni. Non è vero che hanno fatto piazza pulita di MeToo, e Black Lives Matter, eccetera (e dico io: giustamente). Semplicemente, stanno cercando con evidenza di portare un po’ di complessità che prima è talvolta mancata. Anche Vice Is Broke lo fa, e più che un ritratto (pur notevole) della caduta di un singolo gigante suona come la radiografia di un intero sistema culturale che è mutato alla radice.
C’è un altro punto illuminante. Quello in cui Lesley Arfin, altra giornalista della redazione-matrice, dice: «Io volevo essere figa, non dalla parte giusta». Che è l’altro tratto che ha definito, nel bene e nel male, un modo di fare giornalismo (e dunque cultura, politica, società) che oggi sarebbe impossibile, se non vietato.
Quella di Vice Is Broke (e dunque di Vice) è una storia comicamente tragica che potrebbe essere il vero sequel di The Social Network. Ci sono fratricidi commessi da quelli che erano i (presunti) migliori amici, cattivi che forse sono solo dei paraculi, compagnie dell’anello benedette a suon di statuette di Hitler. Ma è, soprattutto, la vera tragicommedia della fine dei giornali: dal picco digitale dei primi anni 2000 a – e non solo per colpa della crisi – la rovinosa caduta degli anni Dieci, quando non solo hanno gentrificato Williamsburg (il simbolo della cultura Vice originaria), ma hanno anche smesso di rimborsare le spese delle trasferte e soprattutto, nel caso specifico di Vice, «sono arrivati gli adulti» (forse la frase più bella del documentario) e, per loro e per tutti, i contenuti brandizzati.
Cioè quello che abbiamo sotto gli occhi tutti quando, oggi, apriamo “i giornali” (d’ora in avanti tocca mettere le virgolette). Intanto però il giornalismo esperienziale cresceva, solo tradotto in tag, hashtag, occasioni per scroccare un pranzo o un viaggio stampa, e tutto quello che vedete oggigiorno. Sono cresciuti i video che però – e di questo va dato merito a Vice – non vanno più a caccia della verità, qualunque cosa significhi, ma solo di qualche facile clic.
Avete visto tutti l’infamous video di una giornalista italiana che, a Venezia, fa una domanda su MeToo e Black Lives Matter a Julia Roberts e Andrew Garfield, lasciando fuori la terza intervistata Ayo Edebiri, “l’unica persona nera nella stanza” (cit.). Sono i temi caldi che citavo prima, sono al centro – soprattutto il primo – del nuovo, sottovalutato film di Luca Guadagnino After the Hunt. Penso sia legittimo fare a chicchessia qualsivoglia domanda, ma anche che sia poco furbo cannare così tanto la mira, quando hai tre minuti per intervistare tre persone, solo per sperare in un titolo con il virgolettato della “persona più famosa nella stanza”.
Dice Simon Ostrovsky, il reporter più famoso di Vice, che la forza di quel giornale era aspettare. Tutti volevano uscire subito con, che so, il video dell’ultimo attacco in Ucraina; Vice faceva passare anche due o tre giorni e intanto raccoglieva fonti, cercava «le storie». Era il lato buono del giornalismo esperienziale. Oggi bisogna uscire subito, prima, male – e pazienza se ci si attira delle altrettanto stupide ma comprensibili polemiche.
E allora qual è la morale di questa storia? La stessa dell’inizio: che è finito Vice ma anche il giornalismo tutto. E che noi continueremo, esperienzialmente, a raccontare i fattacci nostri, sperando almeno che alla fine ci sia un prosecchino gratis.












