Quarantadue brani e l’intenzione evidente di mandare un messaggio di appartenenza a un mondo hip hop che parte dal basso, almeno dalla prospettiva di chi in quel mondo ha fatto la gavetta nei primi anni Duemila tra battle di freestyle e graffiti sui muri. Questa l’idea dietro EM16, la data evento di Emis Killa per festeggiare i 16 anni di carriera.
Ad aiutarlo Lazza, Baby Gang, Niky Savage, Paky, Gemitaiz, Jake La Furia, Massimo Pericolo, Neima Ezza, Vegas Jones, Vale Pain, Nerissima Serpe e Papa V, 22 Simba. La nazionale cantanti hip hop edition si avvicenda sul palco durante tutto lo spettacolo, eseguendo brani con e senza il padrone di casa e facendo graffiti sulla bella scenografia che richiama i treni “vecchi” della M1 e la relativa stazione (fermata Emis).
Per Emis Killa doveva essere la serata, se non della consacrazione, avvenuta tempo fa, quantomeno di un ritorno in grande stile dopo un periodo piuttosto complicato, partito dall’indagine nell’ambito dell’inchiesta sugli ultras e il conseguente ritiro da Sanremo. A Rho, al Fiera Milano Live invece, è andata in scena una celebrazione a metà: ambiziosa, sincera, ma non completamente riuscite. Non bastano la parata di ospiti, l’attitudine old school, e nemmeno la retorica della celebrazione: Milano ha risposto tiepidamente.
Prima del concerto di Emis, la finale di Cypha Killa ha portato sul palco un po’ di autenticità: battle freestyle vecchia scuola, organizzata insieme a Mastafive, con 16 MC in gara, dieci pescati nei raduni in giro per l’Italia e sei cresciuti sul leggendario muretto di San Babila. È qui che si è respirata davvero l’aria dei tempi andati, quell’adrenalina di quando il rap non era numeri su Spotify, ma la rima giusta al momento giusto.
Poi è stato il turno di Emis Killa. Il rapper, almeno per attitudine e attenzione al ricambio generazionale, resta un riferimento. Magari non il è padre, ma sicuramente si è guadagnato il ruolo di tutore legale di un certo approccio italiano alla sottocultura più diffusa al mondo. Il suo compito è (stato) chiaro: accompagnare il rap italiano nella sua metamorfosi da roba per emarginati a fenomeno di massa. E in questo, il rapper di Vimercate dimostra ancora un amore intatto per la cultura che lo ha cresciuto.
In più, ha avuto l’intelligenza, e il coraggio, di non limitarsi a fare il cantante che vende dischi e biglietti. La celebrazione dei suoi 16 anni di carriera – che forse non era necessaria in sé dopo il riuscito evento per festeggiarne i 15 – è diventata un pretesto per fare da ponte tra generazioni, per “autorizzare” e battezzare di fronte ai suoi fan artisti che dividono ancora l’opinione pubblica.
Il problema è che a un concerto non basta la buona volontà. Alcuni momenti della carriera di Emis Killa restano dei punti deboli difficili da cancellare. Maracanà, presentato come «un brano che avrebbe fatto saltare tutti sul posto nel giro di due note», è un esempio di autogol più che di celebrazione, per mantenere l’analogia calcistica. Anche perché l’effetto Maracanà, quello dello dello stadio pieno che incita il proprio idolo, è piuttosto lontano.
Al live si conferma inoltre una tendenza ormai cronica: lo spegnimento complessivo delle platee. Non solo rap, ma musica live in generale. C’è meno energia, meno voglia, meno senso di comunità e coinvolgimento nel «fare un cazzo di casino al mio tre». E soprattutto resta la fotografia impietosa di un’arena mezza vuota. A dimostrazione del fatto che non basta essere un’icona di una delle golden age del rap italiano per garantirsi platee piene. Il pubblico cambia, i gusti si spostano, e la nostalgia da sola non riempie i palazzetti (impresa che Emis ha centrato due anni fa con il Forum di Assago).
Il ritorno di Emis Killa a Milano è stato un atto d’amore nei confronti dell’hip hop. Puro, sincero, generoso. Ma è anche stato il promemoria di quanto sia difficile, oggi, trasformare quell’amore in un qualcosa realmente capace di spostare masse. In fondo, forse, Em16 rimarrà più un manifesto di appartenenza che una festa riuscita fino in fondo.












