Brady Corbet non va per il sottile. Il prima attore, poi regista, poi candidato all’Oscar con The Brutalist si esprimerà senza giri di parole, durante la nostra chiacchierata, avvenuta alla Cineteca Arlecchino di Milano, che ringraziamo per l’organizzazione e la disponibilità. Il suo d’altronde è un caso più unico che raro, ormai, ovvero quello di un regista che abbraccia in primis un modello produttivo, e le sue storie dopo.
Corbet è giovane, e nonostante il successo si porta dietro l’affabilità concentrata di chi ha le mani in pasta. Ho l’impressione che, se anche saltassimo le domande, lui saprebbe già comunque che cosa dirmi. Nei fatti è anche quello che accade: Corbet, lo dico scherzando, si fa le domande da solo. Nel senso che sembrava che fossi io a chiedergli questo e quello, e in realtà dal primo minuto ha acciuffato la conversazione. Portandola esattamente dove voleva lui. E dove volevo io, di conseguenza.
Tutto quello che è bastato fare è stato dare il la: “Ciao, Brady, mi piacerebbe parlare con te non di The Brutalist nello specifico, ma dello stato di salute del cinema americano, e soprattutto di quello indipendente…”
Quello che è successo dopo potete leggerlo qui sotto.
Come sta il cinema indipendente negli Stati Uniti, oggi?
Oggi negli Stati Uniti esiste pochissimo vero cinema indipendente. Anche i film a basso budget, di solito, sono finanziati dalle major. O direttamente dagli Studios, dove esistono le cosiddette “boutique” di cinema indipendente, che in realtà sono divisioni interne delle grandi case di produzione. Oppure da importanti società di vendita internazionali che stanno dietro anche a film che costano 4 o 5 milioni di dollari.
Girare con un capitale 100% indie: è possibile?
Nella mia carriera ho realizzato film davvero indipendenti, e anche altri che lo erano solo in parte. The Brutalist, per esempio, è un film finanziato interamente in modo indipendente sul lato statunitense. A livello internazionale, invece, c’era un piccolo accordo con Focus Features per i diritti esteri. Quello che voglio dire è che ci sono molti modi per mettere insieme un film. Per esempio, l’ultimo progetto della mia partner Mona [Fastvold], The Testament of Anne Lee, è stato finanziato al 100% con capitale privato indipendente. In quel caso, si può davvero parlare di indipendenza totale.
C’è una ricetta, per riuscirci?
Ogni film ha le sue esigenze, non ce n’è uno uguale all’altro. Nel mio caso, lavoro spesso con attori già noti, e questo è il mio modo di attrarre investimenti. Per altri come Sean Baker, che lavora soprattutto con attori sconosciuti, il modello dev’essere completamente diverso. E non esiste un modo giusto o sbagliato di farlo. Finora, io ho sempre preparato i miei film negli Stati Uniti e li ho girati in Europa. Naturalmente c’è un rapporto di amore-odio tra il modello indipendente e quello industriale. Le grandi aziende hanno bisogno del cinema d’autore, perché rappresenta il loro “brand di prestigio”, visto che ormai è diventato rilevante anche in ottica premi. È qualcosa in cui Hollywood vuole continuamente investire. Dall’altro lato, il cinema indipendente ha bisogno di ciò che le grandi aziende possiedono: i soldi. Ciò detto, al momento l’equilibrio tra le parti non è dei migliori. Vent’anni fa, prima della crisi finanziaria, la situazione era molto più sana.
E poi?
Poi sono successe molte cose, tra cui la nascita delle piattaforme di streaming. Non si è trattato di un cambiamento distruttivo come nel caso dell’industria musicale, ma produrre un film o una serie tv ha costi così alti da rendere comunque il processo molto selettivo, anche per le piattaforme. È un mercato molto più ristretto. Non puoi girare un film in camera da letto. O meglio, forse puoi, ma non è così interessante. Lo streaming ha avuto un’influenza sottile sul cinema. Alcuni film non sarebbero mai esistiti senza le piattaforme, ma in altri casi l’impatto è stato decisamente negativo. Quindi cerchiamo costantemente di capire come usarlo in modo più intelligente, visto che ormai è una realtà. E lo stesso vale per l’intelligenza artificiale. Non è qualcosa che io abbia richiesto personalmente, ma visto che è già sulla soglia di casa, mi interessa capire come integrarla e trovare un utilizzo che abbia senso nel contesto dei media.
Le cose sono cambiate anche a livello tecnico per il cinema, quindi?
Certo. Anche se alcune soluzioni digitali battono già il passo. Purtroppo è capitato anche a me, ho perso un film a cui avevo lavorato 18 anni fa per colpa di un hard disk che si è rotto. La pellicola invece rimane l’opzione migliore per i film, si conserva cento anni. Ma io voglio essere sicuro di avere tutti gli strumenti possibili nella mia cassetta degli attrezzi. Il mio prossimo film, per esempio, sarà in analogico per il 90%, in 65mm. Sto esplorando gli strumenti migliori per quello che voglio fare: possono arrivare da settant’anni indietro come avanti, l’importante è il risultato.
Ma tornando al cinema indipendente…
Abbiamo avuto prima la crisi economica, poi le piattaforme di streaming, poi il Covid e infine gli scioperi dell’industria. Il risultato è stato che, mentre i budget delle aziende calavano, le stesse aziende diventavano sempre più avverse al rischio. E quindi producevano e producono sempre più porcherie, che sono quelle che vengono immesse nella cultura collettiva, e che quindi la gente guarda. Le aziende interpretano tutto questo come un segnale: “A quanto pare alla gente piace la spazzatura, facciamone di più”. È un po’ come i piatti pronti da microonde: costano meno, sono più veloci, ma ti fanno malissimo. Aggiungiamoci poi gli algoritmi e i dati delle piattaforme: ora tutto è informazione. E il problema è che le persone non hanno più lo spazio per far crescere le proprie idee al di fuori di quello che l’algoritmo propone loro. È lo stesso meccanismo delle notizie che ricevo sul telefono: mi mostrano solo quello che voglio leggere. E così succede anche nel cinema, dove ti viene proposto solo ciò che si presume ti piaccia. Vedi sempre le stesse immagini, finisci dentro un loop. I pochi progetti che riescono a emergere da questo sistema lo fanno perché adottano approcci radicalmente diversi, e oggi è più difficile che mai provare a fare qualcosa di diverso. Devi davvero colpire nel segno il prima possibile, e non è giusto per chi è all’esordio, perché se è difficile per me, che ho passato una vita nel settore, non oso immaginare cosa significhi per chi ha meno privilegi. Il mio prossimo film, per esempio, sarà X-rated, vietato ai minori. È una scelta impopolare per gli Stati Uniti, in questo momento storico.
Com’è il livello degli indie che vedi oggi negli US, quindi?
Sono costretto a dire che negli anni Novanta era tutto più entusiasmante. Oggi, invece, non esce molto davvero di livello dagli Stati Uniti. Ci sono delle eccezioni, certo, ma… non so esattamente come tutto questo venga percepito all’estero. Posso solo dire come la vedo io: ogni anno escono forse un paio di film davvero belli, di cui vale la pena parlare. Il panorama, onestamente, è piuttosto desolante. Questo vale anche per i temi toccati e le strategie estetiche scelte per rappresentarli: sono sempre gli stessi, e in gran parte legati al sociale. Va bene così, certo, ma non c’è nulla di sorprendente: sono discorsi che facciamo già a tavola, in famiglia, e quindi il cinema finisce per ribadire continuamente gli stessi valori politici. Mi spiego: quando vedo un film di realismo socialista, di solito sono d’accordo con il suo messaggio. Ma mi annoio: sono due ore di predica per chi è già d’accordo.
Perciò, se dovessi indicare qualcuno di davvero interessante là fuori…
Devo pensarci. Alcuni stanno facendo cose interessanti, ma non saprei. Mi piacerebbe poter dire: “Wow, c’è questa diciottenne visionaria che mi ha sconvolto”, ma la verità è che è difficilissimo trovarne, e non è colpa loro. È un problema sistemico: non viene data loro la possibilità di esistere. Un tempo avrei potuto nominare qualcuno come Sean Baker, ma ora anche lui è diventato mainstream, con l’ultimo film [Anora]. Siamo amici, Sean è una persona adorabile, e condividiamo molte preoccupazioni. Lo stesso comunque vale per altri lavori, e anche per i miei: sono finiti nel circuito mainstream, semplicemente per effetto del successo ottenuto. Ma ciò non significa molto, guardandoci bene: nel caso di Anora, si tratta di un film girato con 6 milioni di dollari, che per gli Stati Uniti è un budget molto basso. Non vai lontano con quei soldi. Se li spendi in Lettonia è un conto, ma se giri a New York City è tutta un’altra cosa. Sean ha cinquant’anni, spero che possa permettersi qualcosa di più per il prossimo progetto. Anche noi avremo un po’ più di budget per il prossimo, non è una rivoluzione, ma ci dà più margine. È una benedizione, e sono grato per questo.
Come vedi il futuro?
Sul futuro in generale sono moderatamente ottimista, proprio perché sono estremamente pessimista sul presente. Credo davvero che le cose non possano andare peggio di così. Tra l’altro, potrei nominare cinque o sei cineasti italiani che stanno facendo grande cinema indipendente: Alice Rohrwacher, Pietro Marcello, Gianfranco Rosi. Gli Stati Uniti sono un Paese molto più grande, eppure non mi vengono in mente nomi di questo calibro. Forse l’Italia non se la sta cavando male come pensate.
Quindi in che senso sta procedendo il discorso? Dagli Stati Uniti verso il mondo, oppure al contrario?
Credo che sia il cinema globale, oggi, a innescare una conversazione più ampia, non quello statunitense. Ed è un aspetto positivo che arriva anche dallo streaming. In parte è una questione di accessibilità, certo, ma il fatto è che oggi la gente guarda sempre più film e serie internazionali, usa di più i sottotitoli, e questo riflette l’economia globale e anche la volontà dell’attuale amministrazione americana di ritirarsi dalla scena, almeno in un certo senso. Penso che sia un’idea sciocca, alla fine dipendiamo tutti gli uni dagli altri. Però ce lo dimentichiamo, e finiamo in una grande confusione: ogni giorno, appena mi sveglio, vedo persone indignate per questioni che hanno scoperto appena 24 ore prima. È una tendenza a salire subito sul carro della causa del giorno, è tutto tribale: devi scegliere da che parte stare. E non è salutare.
Art for art’s sake?
Ho le mie idee politiche, ma sono felice di confrontarmi con chi la pensa diversamente. Non mi crea disagio, mai. Anche perché, quando faccio un film, quasi tutti sono in disaccordo con me. Ma non per questo odio chi mi contraddice. Il problema è che, con l’anonimato di internet, non devi più guardare le persone negli occhi. Così si crea l’“altro”, il diverso. E lo si disumanizza. È da lì che sono nate le derive fasciste e naziste in Europa, e nessuno vuole affrontare questo discorso. È importante che le arti e il cinema possano esistere in un loro spazio proprio, che non sia toccato dalla politica. Ormai, prima di fare un film, tutti vogliono conoscere la tua agenda politica. Il problema è che abbiamo già una parola per il cinema che ha un’agenda: propaganda. Personalmente, sono così a sinistra che rischio di cadere nell’Oceano Pacifico. Eppure, credo sia giusto che io passa creare storie su personaggi con idee tradizionaliste senza che questo voglia dire dare un giudizio su di loro. Quando qualcuno gira un film su un serial killer, non gli si va a chiedere quante persone abbia ucciso (il regista, nda).
Lo abbiamo citato più volte, ma sempre toccato di sguincio: su che cosa sarà il tuo prossimo film?
È una storia tratta dall’evoluzione della California del Nord, dall’era della corsa all’oro fino a oggi, alla Silicon Valley delle Big Tech. A volte mi chiedono se non mi piacerebbe fare un blockbuster, un film di supereroi, con uno Studio grande. La risposta semplice è: no. Ma quella ancora più semplice è che nessuno mi è mai venuto o verrebbe a chiedermi di girare un film da grande Studio. Perché evidentemente non è il mio.













