‘Honey Don’t!’, Margaret Qualley è l’asso nella manica del nuovo film di Ethan Coen | Rolling Stone Italia
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‘Honey Don’t!’, Margaret Qualley è l’asso nella manica del nuovo film di Ethan Coen

La sua interpretazione di una detective sarcastica e passionale, alle prese con l’indagine sulla morte di una ragazza, è la cosa migliore del nuovo twist del regista sul genere investigativo

‘Honey Don’t!’, Margaret Qualley è l’asso nella manica del nuovo film di Ethan Coen

Margaret Qualley in ‘Honey, Don’t!’

Foto: Karn Kuehn/Focus Features

Per le durissime strade di Bakersfield, California, deve camminare una donna che non è dura a sua volta, che non è macchiata (be’, un po’ macchiata, come lei stessa ammette) né impaurita. È lei l’eroina; è tutto. È Honey O’Donoghue e, interpretata da Margaret Qualley in Honey Don’t! (un titolo preso in prestito dalla hit del 1957 di Carl Perkins che funziona anche come un monito solitamente ignorato dalla sua protagonista), questa detective privata è l’esempio perfetto dell’ideale di protagonista secondo Raymond Chandler. Sono cambiati solo la couture e i cromosomi.

Qualley è, di gran lunga, la cosa migliore del nuovo twist che il regista Ethan Coen dà al genere del detective-mystery, e non si esagera nel dire quanto la sua interpretazione riesca a far scivolare il film sopra una marea di difetti e vicoli ciechi narrativi. Honey è un archetipo riconoscibile, il classico pilastro della pulp fiction affinato in decenni di pubblicazioni d’epoca, tascabili sgualciti e double feature da B-movie. Di solito questi cavalieri bianchi a tariffa oraria sono uomini, quasi sempre etero; e se l’idea di un’investigatrice queer che si aggira in un caso disseminato di cadaveri e tradimenti incrociati non è più rivoluzionaria nel 2025, O’Donoghue resta comunque un’anomalia. Eppure l’attrice di The Substance non la interpreta mai come tale. È semplicemente una detective privata estremamente brava in quello che fa, altrettanto vulnerabile al fascino di femme fatale quanto a quello di donne civettuole, e che non sopporta di essere presa per stupida. Ed è proprio il modo in cui Qualley calibra con leggerezza questa questa investigatrice privata a metà tra screwball e hardboiled a rendere il film infinitamente più riuscito di quanto, tecnicamente, dovrebbe essere.

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Il film comincia, come la maggior parte delle buone storie noir, con un cadavere. La vittima di un incidente d’auto in mezzo al deserto è una giovane donna che aveva contattato O’Donoghue pochi giorni prima; in realtà, avrebbe dovuto incontrare Honey proprio quel pomeriggio. Il poliziotto sulla scena, il detective Marty Metakawitch (Charlie Day) – che, diciamo, non è esattamente il più brillante in circolazione – è pronto a classificare il caso come suicidio. O’Donoghue sospetta invece un omicidio. E visto che abbiamo già visto una misteriosa donna francese su uno scooter (Lera Abova) sfilare un anello dal dito della vittima prima che arrivassero le autorità, siamo portati a dare ragione a Honey.

Il gioiello con lo strano simbolo collega la potenziale cliente a una chiesa locale nota come Four-Way Temple, guidata dal reverendo Drew Devlin (Chris Evans, pronto ad abbracciare senza remore la sua fase da screen-douchebag). Quest’uomo di fede ha idee particolari su sesso e salvezza, soprattutto per quanto riguarda il suo rapporto con le donne della congregazione. È anche coinvolto in loschi affari collaterali, che danno il via a sparatorie periferiche e scene tangenziali, che sembrano scelte accuratamente dal catalogo precedente dei Coen. Americana inacidita, crimine, idioti e violenza ironica: sono alcuni dei tratti distintivi del lavoro passato di Ethan insieme al fratello Joel, che non hanno mai incontrato un bifolco o uno psicopatico dallo sguardo vuoto senza prenderlo in giro o infilarlo nelle loro storie. Una tradizione che continua anche nelle collaborazioni con la co-sceneggiatrice, montatrice e moglie Tricia Cooke: la coppia è anche dietro Drive-Away Dolls del 2024, un altro genre flick ribaltato, con protagonista sempre Qualley. Rispetto a quell’incidente stradale con sette auto in corsa, Honey Don’t è un thriller arguto.

Coen e Cooke, che si identifica come queer, hanno raccontato che entrambi i film fanno parte di una “trilogia lesbica B-movie” definita in maniera piuttosto libera, che riflette il loro desiderio di iniettare vita e desiderio queer dentro il miglior cinema di serie B (un terzo film è già in lavorazione). Il loro primo tentativo non è mai sembrato davvero superiore alla somma delle sue parti, come se qualcuno avesse buttato in un frullatore il caos alla Coen e l’erotismo LGBTQ+, dimenticandosi però di premere il pulsante purée. Il mix agitato di Honey Don’t – noir saffico cotto al sole, cliché pulp ribaltati e umorismo nero – resta forse disordinato, ma risulta un cocktail molto più soddisfacente. E l’idea di filtrare questa ideologia attraverso una storia di investigatori privati appare molto più organica, soprattutto quando entra in scena la MG Falcone di Aubrey Plaza. È una poliziotta che lavora nello stesso distretto di Metakawich, e a cui piacciono i “tacchetti ticchettanti” di O’Donoghue. (Merita una menzione Peggy Schnitzer, i cui costumi impeccabili in Honey funzionano praticamente come sviluppo del personaggio: qui i vestiti contribuiscono davvero a fare la donna.) L’attrazione, inutile dirlo, è più che reciproca.

Aubrey Plaza Margaret Qualley in ‘Honey Don’t!’. Foto: Focus Features

Il fatto che le scene di sesso tra le due non risultino né troppo pruriginose né minimamente gratuite è un piccolo miracolo, oltre che un merito delle attrici, che hanno una chimica autentica tra loro. Plaza centra anche un monologo post-coitale che svela il suo passato sia a Honey che al pubblico, sottolineando come entrambe le donne si trovino a fare i conti con problemi irrisolti legati ai padri e piene di traumi personali. In realtà, quasi ogni personaggio femminile è segnato dall’eredità di maschi tossici: pastori perversi, padri assenti, fidanzati violenti, cretini assassini. Perfino Marty, uno dei pochi uomini “perbene” in questo stralunato crime movie di Coen e Cooke, ci prova con Honey con una fastidiosa insistenza. «Mi piacciono le ragazze», lo informa O’Donoghue più volte. «Lo dici sempre!», risponde lui, ridacchiando con ignoranza. Nemmeno i mille watt di simpatia di Day riescono a impedire che l’ostacolo sfoci nel disturbante.

Ma torniamo alla vera ancora di salvezza, il motivo principale per vedere Honey Don’t e sopportarne gli aspetti meno riusciti. Qualley si è sempre rivelata interessante sullo schermo, che si trattasse di rubare la scena a Brad Pitt in C’era una volta a… Hollywood o di trasformare apparizioni lampo in film come Povere creature! in momenti memorabili. In progetti come la miniserie Maid è riuscita a iniettare umanità in quello che avrebbe potuto essere un dramma annegato dal peso dei temi sociali. E anche se in The Substance non porta con sé la storia della sua co-protagonista Demi Moore, quell’instant classic del body horror non funzionerebbe comunque così bene senza di lei.

Il modo in cui Qualley porta la sua presenza da star e le sue doti in Honey O’Donoghue, però, ha qualcosa di unico. Siamo abituati a vedere interpreti nei neo-noir che propongono variazioni sulle inflessioni di Humphrey Bogart e Lauren Bacall; nessuno era ancora riuscito a fondere le rispettive personalità di quelle icone in un unico ruolo e a renderlo completamente proprio. È davvero una perfetta sintonia tra interprete e personaggio. Cooke ha dichiarato che, pur volendo continuare a scrivere cose per Qualley insieme a Coen, non hanno in programma nuove avventure di Honey O’Donoghue a breve. Speriamo che alla fine ci ripensino. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un’altra saga cinematografica, ma guarderemmo molto volentieri un’intera nuova trilogia dedicata a questa sensuale detective che non le manda certo a dire.

Da Rolling Stone US