C’è un episodio dei Simpson, anno 2003, in cui la famiglia più celebre della televisione animata si trova costretta a lasciare la città e rifugiarsi in un ranch a causa del successo di una canzone che li perseguita. Il fatto è che quella canzone l’ha scritta proprio Homer con l’aiuto di David Byrne. Il titolo: Everybody Hates Ned Flanders.
Durante la fuga dalla città Byrne si lancerà sulla macchina dei Simpsons per far sentire a Homer il suo remix salsa del brano. Il musicista infine scivolerà, cadendo nell’auto del barista Boe, che gli annuncerà un finale alla Misery non deve morire.
Il dipinto che i Simpson fanno di David Byrne, che nell’episodio è doppiatore di se stesso, a dimostrazione della forte auto-ironia che ha sempre contraddistinto la sua persona, è piuttosto reale. Byrne lo si adora o non lo si sopporta, niente vie di mezzo. Lo adora chi vuole ascoltare canzoni allegre, ma intelligenti, chi non ha paura di affrontare quella sfacciata positività verso la vita, chi adora l’esuberante ricerca di nuovi stimoli nel mondo dell’ex Talking Heads. Non lo sopporta chi non pensa che nel mondo ci siano reasons to be cheerful, motivi per essere allegri, chi vede in questa attenzione verso la world music un approccio colonizzatore alla musica di altre tradizioni, chi pensa che Byrne ci stia semplicemente provando troppo dopo il naufragio delle sue teste parlanti.
Who Is the Sky?, il nuovo album di Byrne, il primo da American Utopia del 2018, non farà cambiare idea a nessuna delle due fazioni. In fondo, niente è più David Byrne di questo disco. Who Is the Sky? è – prima di tutto – un album preso bene. SeAmerican Utopia era stato criticato di essere troppo spensierato durante un momento storico piuttosto complicato come la prima era Trump, cosa diranno di un album che nel secondo mandato del più impreparato tra i Presidenti americani non teme di essere ancora più giocoso, scherzoso e bambinesco? L’ultimo aggettivo non è casuale: in un brano dell’album, Moisturizing Thing, l’artista si trasforma in un bambino di tre anni dopo essersi spalmato addosso una crema antirughe consigliata dalla sua partner. “Mi sono svegliato la mattina dopo, e cosa vedo? / ho l’aspetto di un bambino, ma sono ancora io/ il mio amore si sveglia, mi guarda e urla spaventata/ questa lozione è magica, sembro un bambino di tre anni”. Una gag davvero molto Byrne: un motivo per amarlo, oppure odiarlo. A voi la scelta.
Molti dei brani in scaletta sono piccole storielle come quella di Moisturizing Thing. L’autodescrittiva I Met The Buddha at a Downtown Party (“mi sono dovuto ritirare dal business dell’illuminazione spirituale/ non ho le risposte, non le ho mai avute/ pensano che io li possa aiutare, ma non sono così intelligente/ quindi assaggia un pezzo di questa torta di mirtilli”); la gita al museo di The Avant Garde; A Door Called No, dove una porta spiega a Byrne perché non dovrebbe aprirla; la pandemica My Apartment Is My Friend. A volte geniale, altre divertente, altre ancora un po’ troppo sciocco. O come direbbero gli americani, più vicino ai dad jokes che a dei veri lampi di intellettuale umorismo. Se nell’esecuzione live Byrne riesce a tirare fuori il meglio di ogni suo lavoro (come già dimostrato nella sua partecipazione al Tonight Show di Jimmy Fallon), su disco sembra mancare sempre un pezzo, ovvero tutto ciò che visivamente l’artista sa costruire sul palco: coreografie, coralità, estetica.
Per il suono di questo disco, il musicista ha scelto di affidarsi a Kid Harpoon (già al lavoro con Harry Styles e Miley Cyrus), con l’aiuto della Ghost Train Orchestra, un ensemble di 12 elementi, e una lista di amici come St. Vincent, Hayley Williams dei Paramore e Tom Skinner, batterista degli Smile. Il risultato è una somma di tutte quelle scelte strumentali tipiche della carriera solista di Byrne: l’uso smodato degli arrangiamenti coi fiati, le incursioni in terreni latini e centroamericani (come scherzavano i Simpson), la vocalità volutamente quasi amatoriale. Gli arrangiamenti, inoltre, sono puro ottimismo musicale, costruiti su aperture e momenti corali. In Who Is the Sky? si canta, si balla e ci si prende bene anche nei momenti un po’ più stronzetti come l’irriverente (ma forse fuori tempo massimo?) The Avant Garde.
David Byrne, anche a 73 anni, ama camminare funambolo tra il kitsch e lo chic, tra l’intellettualismo e il terra-terra, in un gioco che non può che dividere gli ascoltatori. David Byrne – come solista – non metterà mai d’accordo nessuno: e questa sarà per sempre la sua più grande forza. Per qualcuno, invece, il termine corretto sarebbe condanna. «Riuscirò mai a capirci qualcosa?» ci aveva ammesso in questa intervista parlando di come le risposte che cercava nell’album si fossero trasformate in nuovo e numerose domande. “Pensa noi, David”, ci verrebbe da rispondergli.
Who Is the Sky?, il cui titolo riprende un errore di comprensione di una IA (la frase era, in realtà, “Who Is the Guy?”), è un altro stravagante, entusiasta, insopportabile, amabile tassello di una discografia di un artista che ha scelto – a differenza della maggior parte di noi – di credere che ci siano dei motivi per essere felici nel mondo. Anche oggi, con tutto ciò che sta accadendo. Una volta li chiamavamo inguaribili ottimisti. Ora, che sono rimasti così pochi, li chiamiamo per nome. E uno di questi nomi è David Byrne.












