‘Broken English’ dà (finalmente) l’ultima parola a Marianne Faithfull | Rolling Stone Italia
Only you have such allure

‘Broken English’ dà (finalmente) l’ultima parola a Marianne Faithfull

Presentato a Venezia 82, il documentario-non-documentario di Jane Pollard e Iain Forsyth restituisce voce e potere a Marianne, oltre i cliché della ragazza di Jagger e dei tabloid. Starring anche George MacKay, Tilda Swinton e l'ultima, splendida performance di Faithfull mai registrata

‘Broken English’ dà (finalmente) l’ultima parola a Marianne Faithfull

Marianne Faithfull e George McKay nel doc 'Broken English'

Foto: La Biennale

“Marianne è stata fregata dalla Storia perché la sua storia, soprattutto le parti non vere, sono state scritte nella pietra, congelate nel tempo. Per quale motivo è più facile credere che le artiste siano il prodotto di tutto ciò che gli è accaduto, invece di dare loro merito e potere per quello che hanno fatto?”, dice Tilda Swinton a un certo punto di Broken English. Swinton è la guida, il capo del Ministero della Non-Dimenticanza, un dispositivo narrativo che fa da cornice a questo documentario-non-documentario «che non è su Marianne Faithfull ma di Marianne», ci tengono a precisare i registi Jane Pollard e Iain Forsyth, già autori di 20,000 Days on Earth, potentissimo ritratto di Nick Cave in forma di a day in the life.

Il cuore di Broken English è tutto qui: non resuscitare per l’ennesima volta il mito congelato della ragazza che cantava As Tears Go By (qui al Savoy con Bob Dylan nel 1965, mentre lui picchietta sulla macchina da scrivere una poesia dedicata a lei: «Se avessi un dollaro per ogni tizio carino che mi ha detto “Questa poesia, questa canzone, sono per te”, sarei ricca», ride), la ragazza di Mick Jagger, la tossica trovata in coma a Chelsea, l’icona da tabloid titolata “Naked Girl at the Stones’ Party”. Ma restituirle agency, voce, credito pieno. Non più Marianne come l’effetto collaterale delle sue cadute, bensì l’artista che per sessant’anni – trenta album, un Grammy sfiorato, mille rinascite – ha continuato a reinventarsi.

Foto: profilo Instagram di Mick Jagger

«La prima cosa che ci siamo detti», racconta Jane Pollard, «è stata: dobbiamo fare il film con lei, doveva esserci proprio fisicamente. Abbiamo girato le scene con George (MacKay, ci arriviamo) e Marianne due anni fa, quando temevamo che la sua salute peggiorasse. Vederla incontrare sé stessa nel passato, ancora e ancora, è stata la cosa più emozionante. Non volevamo “rimettere i puntini sulle i”, ma mostrarla come questa donna di una certa età splendida, magnifica, resiliente, che si confronta con un esercito di Marianne di epoche diverse».

Per questo entrambi sono un po’ a disagio con la definizione di “documentario”, come sottolinea Iain Forsyth: «È diventata una parola carica di aspettative, come se si dovesse rivelare la verità. Ma i grandi artisti rivelano verità più grandi raccontando storie. Marianne raccontava storie, Nick Cave racconta storie. L’idea che un film debba smontare giornalisticamente la loro vita è riduttiva. Sono artisti che hanno creato per tutta la vita, ed è quello ciò che resta. Noi pensiamo a questi lavori come a ritratti: dipingere un volto, non elencare fatti. Internet è già pieno di biografie, non serve certo che il cinema ripeta Wikipedia». E qui arriva il concetto del non dimenticare. «È diverso dal ricordare», insiste Swinton nel film. Non è nostalgia né cronaca, ma un atto politico: impedire che la Storia resti fissata solo sugli scandali, reali o (più spesso) presunti.

Le immagini la mostrano oggi, fragile eppure indomita, accanto a George MacKay (Pride, 1917), che la accompagna dentro e fuori gli archivi della sua stessa vita. Un attore che qui diventa perfetto “medium”, come lui stesso spiega: «È stato un compito meraviglioso. I registi scrivevano dei copioni basati su immagini e interviste che volevano mostrare a Marianne, ma li decidevano la sera prima, e lei ovviamente non li vedeva. Le sue risposte erano sempre spontanee. Io avevo un auricolare, e Jane e Iain mi parlavano in diretta: “Spingi di più su questo, lascia andare quest’altro”. È stato un esercizio dal vivo, un teatro continuo, con tre camere accese. Dovevo sapere tutto: se Marianne nominava qualcuno solo per nome, io dovevo riconoscerlo. Mi hanno preparato come una specie di diagramma a flusso, ma poi seguivo l’istinto».

Pollard definisce MacKay «la nostra musa. George ha cuore, disciplina, una tecnica impressionante, si getta totalmente in quello che fa. Quelle scene andavano trattate con delicatezza estrema. Abbiamo girato per tre giorni, con sessioni di 40 minuti e lunghe pause per far riposare Marianne». Ancora Forsyth: «Lo script era un lungo dossier, avevamo bisogno di qualcuno che incarnasse “noi” davanti alla macchina da presa. Ci fidavamo ciecamente di George».

MacKay poi ricorda un momento speciale: «Quando venne sul set John Dunbar, il primo marito di Marianne. Fu improvvisato, a un certo punto si baciarono. Un gesto semplice, pieno di amore e rispetto. Era un rapporto finito da tempo, ma lì c’era ancora qualcosa. Vederlo è stato speciale, intimo. Marianne è un’icona, ma lì era una donna con una storia personale. E questo mi ha toccato molto».

Too much, too soon. Faithfull era stata spinta nell’Olimpo e poi lasciata cadere. «Per un decennio è stata incatenata da quello che le era successo», afferma Pollard. Negli anni Sessanta, la Decca le impose di cantare pop, mentre lei amava il folk. Pubblicò due album lo stesso giorno, Marianne Faithfull e Come My Way: indovinate quale ha venduto di più. Intanto la stampa voleva il sangue: Sister Morphine venne ritirata dopo soltanto tre giorni dall’uscita perché “una donna non poteva cantarla”. «Mi ha fatto male», ammette. «Avrei dovuto protestare, non l’ho fatto e me ne pento».

Poi il collasso: il figlio perso, il tentato suicidio, i barbiturici, il coma fotografato da un paparazzo. «Non volevo solo morire, volevo morire in un modo speciale», dice. Tony Richardson la dirige in Amleto come Ofelia, e lei stessa lo sa: sta recitando la propria tragedia.

Eppure nel 1979 Marianne rinasce con Broken English. «Con quel disco sono diventata me stessa», dichiara. «Non ero la persona che pensavano fossi. Ero più forte, più intelligente. Scrivendo quelle canzoni sentivo: questo è quello che devo fare». Per dirla con Pollard: «Si è ripresa la vita, si è consumata nel lavoro. Da quel momento in poi, non si è più voltata indietro». E, come spiega Forsyth, «in fondo nel film lei stessa dà la risposta: “Fuck them”. È così che ha fatto pace con tutto. Non puoi non essere ferita da tanto sessismo, misrepresentation, crudeltà dei tabloid inglesi: non era solo cattiva stampa, era vendetta. Sul piano personale l’ha devastata, ma su quello professionale… fuck them!».

Broken English new clip official from Venice Film Festival 2025 - 1/2

Il film non è mai lineare: un coro di donne parla di Faithfull e poi interpreta le sue canzoni. Beth Orton, Courtney Love, Suki Waterhouse, Jehnny Beth. I loro nomi appaiono come scarabocchi sullo schermo, a malapena leggibili, come se non importassero davvero: tutto converge su Marianne.

E poi c’è la musica, che attraversa il film come un filo elettrico. MacKay confessa: «Ho scoperto The Ballad of Lucy Jordan e mi ha colpito moltissimo. E poi No Moon in Paris, dal disco con Nick Cave e Warren Ellis. Ho trovato meraviglioso il modo in cui trasformava la saggezza raccolta in una vita in musica». Cosa rappresenta per lui Marianne? «Resistenza. Reinvenzione. Non la conoscevo bene prima, ma mi ha insegnato che non conta il successo immediato: lei ha continuato a creare, a reinventare la sua voce fino alla fine. È un esempio per chi oggi vuole tutto subito».

Marianne Faithfull con Warren Ellis. Foto: Rosie Matheson

Il momento più commovente arriva con l’ultima performance mai registrata di Faithfull. E nessuno sapeva che sarebbe stato davvero il suo atto finale. Marianne entra in studio con Nick Cave e Warren Ellis. Bacia Nick sulla bocca: c’è una confidenza, un affetto che scavalca le barriere tra arte e vita. Cantano Misunderstanding (Is My Name), con Cave che sussurra il verso “only you have such allure”. Mai come qui sembra una dedica diretta, tenerissima.

«È stato un privilegio vederla in studio», ricorda Pollard. «In un istante sembrava avere vent’anni di meno: nel respiro, nell’atteggiamento, nell’umorismo. Avevamo pianificato ogni scenario: che non sarebbe riuscita a cantare, che avrebbe fatto solo un brano, che avrebbe letto una poesia. Quello che non avevamo previsto è che non volesse più smettere di cantare. All’improvviso si è girata verso Nick: “Sai qualche canzone di Bob Dylan?”. Era di nuovo lei». Forsyth aggiunge: «È stato come veder tornare qualcuno a casa. All’improvviso, semplicemente, era Marianne Faithfull». Pollard conclude: «E lo vedi negli occhi di Nick».

Quando Marianne è morta, nel gennaio del 2025, il film era quasi finito. «Non volevamo trasformarlo in un necrologio», spiegano Pollard e Forsyth. «C’è stato solo un piccolo cambiamento: le parole di Tilda nel finale. Per il resto, il film resta com’era, con lei viva dentro. È stata Marianne a portarlo fino in fondo».

Così Broken English diventa davvero ciò che promette: non un film su Marianne, ma un film di Marianne. Non l’icona congelata nei titoli dei giornali, ma l’artista che ha continuato a risorgere. «Amo il mio lavoro», dice. «È quello che mi fa andare avanti. Nonostante tutto, e nonostante queste stupide interviste con persone stupide che abbiamo ripercorso, ho avuto una bella vita. Quindi, fuck them». Per la prima volta, l’ultima parola è davvero la sua.