Negli ultimi anni si è parlato molto della manosphere: una galassia di podcaster, youtuber e content creator che diffondono una visione iper-maschilista del mondo, impregnata di misoginia e ostilità verso il femminismo. Le analisi delle elezioni americane del 2024 hanno riconosciuto ampiamente il ruolo decisivo di questo universo nel portare Donald Trump alla vittoria. Attraverso la manosphere, infatti, Trump e i suoi alleati sono riusciti a raggiungere segmenti sociali che, fino ad allora, erano tra i meno politicamente coinvolti.
Oggi iniziano a emergere i primi segnali di un fenomeno speculare: la womanosphere. Si tratta di un tentativo organizzato di costruire un ecosistema mediatico conservatore rivolto specificamente al pubblico femminile giovane negli Stati Uniti. I podcast e i siti che compongono la womanosphere non trattano direttamente di politica elettorale, il loro focus è altrove: pop culture, salute, benessere, lifestyle, ma filtrati attraverso una lente conservatrice.
Questi programmi, pur con stili e registri diversi, veicolano una visione iper-conservatrice della donna, ancorata a un passato idealizzato in cui essere moglie e madre costituiva l’unico destino possibile. Un tratto distintivo della womanosphere è il suo posizionamento come reazione al femminismo di terza ondata e al cosiddetto “wokismo”. Figure come Brett Cooper (influenze 23enne “tradizionalista”) attaccano l’idea di empowerment femminile, sostenendo che le giovani donne siano state ingannate dal mito di poter avere tutto, ricevendo in cambio solitudine e precarietà.
View this post on Instagram
È paradossale come alcune protagoniste di questa galassia si autodefiniscano come femministe “autentiche”, accusando il femminismo contemporaneo di aver tradito le donne. Invece di rivendicare diritti concreti – come congedi parentali o accesso a servizi per l’infanzia – la proposta è il ritorno a un modello tradizionale, in cui la realizzazione femminile coincide unicamente con la famiglia. Questa retorica ha presa perché intercetta frustrazioni reali ma le canalizza in una nostalgia regressiva. Il modello di donna che viene celebrato è magro, eterosessuale, fertile, conforme ai canoni estetici tradizionali e bianco. Chiunque esca da questo schema ristretto diventa facile bersaglio di scherni e derisioni incessanti.
Queste caratteristiche collocano la womanosphere su un piano diverso rispetto al fenomeno delle femcel – l’equivalente femminile degli incel, donne che si definiscono “involontariamente celibi” e che costruiscono comunità online segnate dal risentimento verso uomini e relazioni. Se le femcel vivono la propria condizione come esclusione e fallimento, le protagoniste della womanosphere celebrano il ritiro dall’emancipazione femminista.
Sono quindi due archetipi opposti: da una parte una sottocultura basata sulla vittimizzazione individuale, dall’altra un movimento politico-culturale che ambisce a ricomporre un’identità collettiva. In questo senso la womanosphere si distingue anche dalla manosphere. Quest’ultima è dominata da un linguaggio violento e misogino, che considera le donne nemiche da umiliare o addirittura “eliminare”, e in alcuni casi ha alimentato episodi concreti di violenza. La womanosphere si muove invece nella direzione opposta: non rifiuta gli uomini, li esalta. Propone un ritorno a ruoli complementari, in cui la virilità è protezione e guida, e la femminilità accudimento e grazia.
Le armi della manosphere sono l’odio e la minaccia. Quelle della womanosphere sono l’estetica e i podcast patinati. È un radicalismo culturale e simbolico, che agisce meno per shock e più per seduzione, normalizzando l’idea che tornare a modelli regressivi sia naturale. Emblematico è il caso di Evie, la rivista online descritta dal New York Times come un “Cosmopolitan conservatore”. Tra rubriche di bellezza e consigli di lifestyle, propone una visione rigidamente gender-essentialist: sesso solo all’interno del matrimonio, critica alla contraccezione, esaltazione della maternità.
View this post on Instagram
Bisogna dire, però, che la womanosphere non è un blocco monolitico. Da un lato troviamo figure con solidi legami istituzionali e mediatici, come Candace Owens, proveniente dal network del Daily Wire e da Turning Point USA, proprio la no-profit fondata da Charlie Kirk per promuovere i valori conservatori all’interno delle scuole e delle università. Secondo lei, Brigitte Macron sarebbe “nata uomo”. Dall’altro lato, ci sono creator apparentemente “spontanee” che, pur prive di un background politico, veicolano messaggi conservatori attraverso contenuti su moda e benessere.
View this post on Instagram
Questa ambivalenza è strategica: permette di intercettare pubblici diversi, dalle giovani che cercano consigli su capelli e ricette a chi è già immersa nei circuiti politici della destra. Ciò che le accomuna, però, è l’allineamento totale all’agenda dell’amministrazione Trump: smantellamento dei diritti riproduttivi, riduzione delle tutele per le persone LGBTQ+, promozione di una linea anti-scientifica sulla salute pubblica. La differenza rispetto alla manosphere è significativa. Il movimento MAGA ha potuto cavalcare una cultura iper-maschilista già radicata in ambiti come il bodybuilding o in un certo tipo di comicità. La womanosphere, invece, è in gran parte un prodotto confezionato dai media conservatori: un ecosistema costruito a tavolino per penetrare negli spazi femminili della cultura digitale e colonizzarne i linguaggi.
Katie Miller, 33 anni, ha trascorso gran parte della sua carriera dietro le quinte della politica di Washington, lavorando con diversi esponenti repubblicani, tra cui l’ex vicepresidente Mike Pence. Moglie di Stephen Miller, vice capo di gabinetto della Casa Bianca, fino a poche settimane fa era anche dipendente di Elon Musk. In agosto ha annunciato di aver lasciato i suoi incarichi per lanciare un nuovo show online su YouTube. Il percorso non è del tutto inedito: da anni, infatti, molti ex funzionari della Casa Bianca trovano spazio come opinionisti retribuiti nelle emittenti via cavo. La novità, nel caso di Miller, è l’ingresso nella nascente womanosphere con un elemento inedito: l’accesso diretto ai vertici della Casa Bianca. Nel primo episodio il suo ospite è stato il vicepresidente JD Vance, intervistato più sugli aspetti personali che sulle scelte politiche. Il target dichiarato è quello delle donne conservatrici, in particolare madri lavoratrici interessate a uno stile di vita sano, come spiegato dalla stessa Miller nel video di presentazione.
View this post on Instagram
Anche Katie Miller entra così nell’universo emergente della womanosphere. Ci sono poi Culture Apothecary, il podcast di Turning Point USA guidato da Alex Clark, che sotto lo slogan “Make America Healthy Again” (MAHA) invita le sue follower a fare più figli e a non consumare olio di palma; Relatable, dell’influencer cristiana Allie Beth Stuckey; e Gaines For Girls, il podcast della nuotatrice diventata attivista anti-trans Riley Gaines. Le grandi piattaforme di podcast hanno già fiutato il potenziale economico del genere: Brett Cooper, per esempio, ha da poco firmato un accordo con Red Seat Ventures, che cura la pubblicità anche per il podcast del volto più noto del giornalismo conservatore americano, Tucker Carlson.
La womanosphere appare dunque come un tentativo strategico dell’élite trumpiana di colonizzare i giganteschi fandom digitali legati a trucco, moda, gossip pop e cotte adolescenziali. Un terreno finora scoperto, in un momento in cui le giovani donne erano celebrate come il contrappeso in grado di bilanciare l’ondata di giovani uomini spaventati dall’empowerment femminile e pronti a sostenere Donald Trump.
Eppure, non è un dato garantito. Come dimostrano i casi di altri segmenti demografici, i blocchi elettorali non sono immutabili e, in questa tornata, si sono già visti segnali di spostamento. Nel 2020 Joe Biden aveva un vantaggio di 35 punti tra le giovani donne; nel 2024, Kamala Harris lo ha visto ridursi a 24. È la conferma di un vecchio assioma di Andrew Breitbart, uno dei pionieri dell’ideologia conservatrice americana: «La politica scorre a valle della cultura». Una lezione che la galassia trumpiana sembra aver appreso meglio di chiunque altro.








