La vita strana e meravigliosa di Tom Odell | Rolling Stone Italia
Il circo del pop

La vita strana e meravigliosa di Tom Odell

Vi piace la canzone d’autore pop vecchio stile? Ascoltate ‘A Wonderful Life’ che uscirà domani e leggete qui la storia dell’ex ragazzo prodigio che ha trovato la sua strada. Incontro con un outsider che riempie i palazzetti

La vita strana e meravigliosa di Tom Odell

Tom Odell

Foto press

La sera prima del concerto all’Halle Gasometer di Vienna, suppergiù un anno e mezzo fa, Tom Odell era in hotel e non riusciva a prendere sonno. «Saranno state le notti in bianco, sarà stata l’adrenalina, non lo so». Tempo prima aveva chiesto aiuto a un dottore che gli aveva prescritto dei sonniferi. «Funzionavano, eccome, ma avevo paura di diventare dipendente e quindi avevo smesso di prenderli. E a Vienna ho avuto un crollo. Ho perso la voce, ho preso del cortisone, ho tirato giù altre pasticche per dormire. Erano cinque giorni che non chiudevo occhio e intanto continuavo a fare concerti. Iniziavo ad avere le allucinazioni. Mi sentivo un cliché. Ho preso il quaderno e ho scritto “Can we just go home now”, possiamo tornare a casa adesso?».

Oltre a scrivere quella supplica indirizzata a chissà chi, forse a sé stesso, Odell ha fatto un’altra cosa dopo che s’è ripreso: ci ha scritto su una canzone che s’intitola proprio Can We Just Go Home Now. Inizia con una strofa alla Comfortably Numb, la preghiera della star a un Dr. Feelgood per stare meglio, ovvero il cliché di cui parla Odell, il cantante che scoppia in tour: “Chiama il dottore nella mia stanza d’albergo, ho perso la voce e sono di pessimo umore, dammi delle medicine, fammi una flebo, fammi fare 20 minuti di riposo e ti prometto, amico mio, che tornerò in forma”. E poi le immagini alterate, l’assenzio sul cucchiaino di metallo, l’alcol che lo fa sentire un Dio. Odell la canta con un trasporto che sta al confine fra razionalità e irrazionalità, tra vita ordinata e disfacimento, tenendosi come suo solito sempre un passo prima della disperazione. Ci sono musicisti che ci hanno lasciato la pelle imbottendosi di roba in tour. È una cosa che Odell canta mettendoci sia del pathos, sia dell’umorismo, o almeno così mi dice un anno e mezzo dopo Vienna, in un hotel a Milano: «È un’esperienza vera, ma c’è anche qualcosa di beffardo».

Can We Just Go Home Now è contenuta nel nuovo album di Tom Odell. S’intitola A Wonderful Life ed è una delle cose migliori, anzi, forse la migliore in assoluto che ha fatto nella sua ultradecennale carriera discografica. Nel caso non abbiate mai intercettato la musica di questo inglese di 34 anni, sappiate che è una vera star che riempie i palazzetti grazie a canzoni pop costruite in modo piuttosto tradizionale e quindi decisamente fuori da questo tempo e dalle regole della discografia del 2025. Di canzone ne ha una, addirittura, che ha cumulato su Spotify più di tre miliardi di stream, ma ci arriveremo. Per ora torniamo al cantante che implora il dottore di dargli qualcosa. Odell mi dice di avere provato droghe e altro per tenere il passo con la vita in tour, per anestetizzare il dolore, per cacciare i cattivi pensieri. «Ma non funziona perché in fin dei conti io sono della scuola di Springsteen, ovvero: m’importa troppo del concerto. Quella roba ti tiene su per qualche giorno, ma alla fine non ti aiuta. Ho anche avuto un periodo da super salutista e oggi sono ancora così… con qualche scivolone. Ma la verità è che questo nostro è uno stile di vita insostenibile. Oggi i musicisti devono fare tantissimi tour, come negli anni ’70. Solo che allora pubblicavi un disco, diventava oro, facevi la bella vita, mentre oggi non è più così. E forse è meglio, perché troppi soldi non fanno bene alla musica e neppure alla vita».

Tom Odell - Don't Let Me Go (Official Music Video)

A Wonderful Life è in bilico tra il vitalismo di questo cantautore romantico, borghese e perbene, che in fin dei conti è un outsider senza avere alcunché del ribelle, e il carattere ossessivo che nasconde dentro l’aspetto da bravo ragazzo. Queste canzoni che raccontano il bello e il meno bello della vita sono musicate col suono grezzo di una band dal vivo e interpretate con uno stile canoro appena sopra le righe, ma mai troppo, uno stile che può ricordare certe performance di Jeff Buckley o di Thom Yorke senza il pathos sovrannaturale del primo o la stranezza del secondo, ma con un senso del melodramma pop decisamente più tradizionale, che è poi il limite di Odell in parte superato proprio in questo disco. «Se vuoi far bene una cosa», dice, «un po’ ossessivo devi esserlo. E io, sì, sono una persona ossessiva. Ok, a volte troppo. Come dico in una canzone, ho una mente incline all’ossessione. È la verità, immagino. Ed è fastidiosa».

L’ossessione che provava nel settembre del 2024, una volta finito il tour che l’ha portato a Vienna, era mettere assieme le canzoni che aveva per le mani, «molte le avevo scritte a casa, qualcuna in giro per concerti». S’è messo in testa di dare a Wonderful Life il feeling del disco inciso dal vivo in studio. Lo ascolti e puoi effettivamente immaginare i musicisti che suonano in una stanza, c’è un sound di batteria incredibilmente naturale per gli standard odierni. «L’abbiamo registrato praticamente dal vivo tutti nella stessa sala ed è stato divertente farlo così, ma anche un po’ difficile, non facevo un disco in questo modo da un sacco di tempo. Avevo un mucchio alto così di fogli con le canzoni, forse una ventina, e cercavo di capire se erano davvero finite. Sai, quando entro in studio mi lascio spesso tre o quattro opzioni per una strofa e altrettante per il ritornello, cambio le parole, cose così. Non avevo alcuna idea preconcetta su come sarebbero venute fuori. Le avevamo provate un paio di volte ai soundcheck in giro in Europa, ma è stato un po’ come buttarsi alla cieca e imparare di nuovo a fidarsi del processo, di quello che accade in studio. L’abbiamo fatto, per inciso, nella stessa sala del mio primo disco».

Si intitolava Long Way Down, quell’esordio. Prima ancora, quando aveva 21 anni, Odell aveva pubblicato un EP titolato Songs from Another Love. Era il 2012. Dalla sua aveva un talento melodico acerbo e tanto entusiasmo. Contro aveva l’immagine del cantautore creato a tavolino dall’etichetta Columbia. È famigerata la feroce stroncatura del giornalista del NME che lo definì un povero, malaccorto wannabe finito nelle mani dell’equivalente nell’industria discografica dei trafficanti ungheresi di prostitute. «Se ci ripenso» mi dice oggi Odell «provo tristezza per il me stesso giovane. Vorrei tornare indietro e abbracciarlo. Che cosa orribile…». Alla fine cantautore e giornalista si sono incontrati nel backstage di un concerto dei Muse. «Mi ha chiesto scusa. Non ho provato rabbia».

Tom Odell - Another Love (Official Video)

Siccome Odell ha successo, ma è uno poco pop, tutti si sorprendono quando scoprono che Another Love, la canzone guida di quel primo EP uscita agli albori dell’era di Spotify, ha accumulato quasi tre miliardi e 200 mila ascolti sulla piattaforma svedese, cifra a cui non arriva nessun pezzo di Taylor Swift, neppure Cruel Summer (ci arriverà, ma per ora è sotto). Lui ride quando glielo faccio notare: «Ah, Taylor Swift è il benchmark di tutto». E questo senza contare le altre piattaforme e il miliardo e passa di visualizzazioni del video su YouTube, più di Blinding Lights di The Weeknd, per fare un esempio. Dice che grazie al pezzo non è diventato straricco, «io di quella canzone prendo la quota più piccola, la Sony la più grande, e comunque come ti dicevo prima troppi soldi non fanno bene». Il successo di Another Love viene solitamente attribuito al fatto che è stata usata online per sostenere l’Ucraina e le battaglie per i diritti in Iran, ma lui non è del tutto d’accordo. «Non credo ci sia una sola ragione per cui la canzone è diventata così grande. Stava già crescendo da sola. La gente la usa per tante cose e questo per un autore è motivo d’orgoglio. Ma provo anche un senso di distacco, sai, è roba di 13 anni fa. E quindi un po’ sono dissociato e un po’ lo considero un privilegio, un grande privilegio il fatto la gente voglia sentirla».

Odell ha dovuto crescere in fretta, come canta nella nuova Don’t Let Me Go. Quando si hanno 21 anni si fanno un sacco di stupidaggini. Quando gli chiedo se c’è qualcosa che rimpiange, risponde: «Da dove comincio? La lista è lunga… Però sai, una vita senza rimpianti non val la pena viverla. Crescendo si impara, la differenza è che io l’ho fatto in pubblico. Dopo il primo album non mi sono reso conto di quanto l’attenzione che mi circondava m’avesse destabilizzato. Fingevo di essere uno coi piedi per terra, sai, uno che va al pub, mica alle feste dove c’è la bella gente. Non so cosa avrei potuto fare diversamente, forse avrei dovuto prendermi del tempo per riflettere. E invece mi sono buttato troppo in fretta sul secondo disco. Non riesco a spiegartelo, ma è come se non fossi riuscito a tornare alla profondità del primo». All’epoca di quel secondo album, che s’intitola Wrong Crowd, diceva che andare in tour era come uscire con una ragazza. E le sere che sentiva di averla infine conquistata, quella ragazza, vale a dire il pubblico, saliva in piedi sul pianoforte (se volete essere quella ragazza, sappiate che Odell suonerà nuovamente in Italia il 27 novembre al Forum di Assago).

Foto press

Un tempo gli rinfacciavano la mancanza di profondità. Alla fine l’ha trovata e nel giro di una mezza dozzina di album ha dimostrato che il tizio del NME aveva torto, che non era un ragazzetto ostaggio di discografici avidi, ma un autore solido in grado di usare la musica per condividere paure, debolezze, sentimenti e, nella migliore delle ipotesi, «far sentire la gente un pochetto meno sola». Ha anche lasciato la Columbia ed è strafelice della decisione che ha preso (l’altro grande cambiamento è stato il matrimonio due anni fa con la modella Georgina Somerville, pare con House of Woodcock di Jonny Greenwood al posto della tradizionale marcia nuziale). L’esito di questo processo è A Wonderful Life, la raccolta delle sue canzoni più “crude”. «Vengono dalle mie esperienze personali. Ci sono sempre un fondo d’onestà e un elemento di immaginazione, il confine tra esperienza e fantasia è mobile. Ma direi che rispetto al precedente anch’io trovo questo disco più emotivo, più diretto».

Molte di queste canzoni vengono dal quaderno su cui appunta idee come quel “Can we just go home now”. È il caso di Prayer, che ha qualcosa di Paul McCartney («Grazie, che complimentone»), ma con un fondo di malinconia che il Beatle forse non avrebbe mai messo. È il ritratto di un bambino che suona una chitarra giocattolo e sogna di diventare cantautore da grande. «Se non sono io, è qualcuno d’incredibilmente familiare», dice sorridendo. «Diciamo che è tutto frutto di una sorta di scrittura automatica. A volte è diaristica, a volte incredibilmente allucinata e mi ritrovo io stesso a pensare: da dove cazzo arrivano questi pensieri? Sono frammenti di vita conscia e subconscia, cose che ho visto o che ho vissuto. Quella canzone, che è peraltro una delle mie preferite dell’album, è un dialogo con il mio io più giovane. Non perché ci fosse chissà qualche trauma nascosto, ma per mettere a posto delle cose della mia vita oggi. Capire perché sono come sono. E a volte il posto migliore per farlo è il passato».

Tom Odell - Ugly (Official Music Video)

Ugly comincia col verso “Sono davanti allo specchio e voglio cambiare pelle, vorrei essere più alto, vorrei essere magro” e sembra evocare un sentimento simile a quello di Dancing in the Dark di Bruce Springsteen (“Mi controllo allo specchio, vorrei cambiarmi i vestiti, i capelli, il viso”) e anche un po’ di un pezzo di Odell titolato Black Friday (“Voglio un corpo migliore, voglio una pelle migliore, voglio essere perfetto come gli altri tuoi amici”). Odell piace, ma a quanto pare non si piace. «Chi sono io per provare dismorfia corporea? Chi sono io per guardarmi e dire che sono brutto? Ma la verità è questa qua, è così che mi son sempre sentito. È mancanza d’autostima. Probabilmente proiettavo molto del mio valore sugli altri. È per questo che tanti performer iniziano: sembriamo sicuri di noi stessi, in realtà abbiamo zero autostima. Il punto è che ho la fortuna di fare questo lavoro da un sacco di tempo ed è un lavoro che in parte riguarda la riflessione su me stesso. Attraverso la scrittura scopro cose del genere di Ugly. Vado in cerca di cose vive, vere, potenti. E pensandoci, emerge spesso questo elemento sgraziato: non mi ami perché sono brutto. Fa star male, ma è la verità, è reale. Sono questi i sentimenti che voglio andare a indagare con la musica» e cioè le cose che normalmente uno non direbbe ad alta voce e che invece si permette di mettere nelle canzoni.

Perché, dice Odell, non è mica vero che tutti gli artisti sono egocentrici, non è vero che se non lo fossero non salirebbero sul palco davanti a un pubblico dando per scontato che alla gente interessi quel che fa. «Ecco, nonostante la fama io do per scontato che le persone non siano interessate a quel che faccio e quindi devo inventarmi qualcosa. Non credo alla cosa dell’egocentrismo, credo invece che questa professione ricordi il circo. Sì, c’è un elemento circense o carnascialesco in questo lavoro, in questo trascinarsi in giro con la valigia da un Paese all’altro alla ricerca di applausi. Lo vedo ovunque, dai club minuscoli ai palasport, è uno stile di vita che attira emarginati, eccentrici, gente che non si sente a suo agio nella vita quotidiana. Gente che trova un’identità in queste strane carovane itineranti. Gente come me».

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