Dopo aver pubblicato in streaming quasi tutti i pezzi del disco (ne mancava uno, Parachute) giovedì scorso Hayley Williams li ha raccolti nell’album Ego Death at a Bachelorette Party. A sentirlo tutto di fila è esattamente quello che ti aspetti: pop-rock sostanzialmente innocuo, con una piccola sfumatura di indie contemporaneo (qualche tastiera, qualche strizzata d’occhio sofisticata ma senza crederci veramente), senza grandi picchi ma anche senza cadute imbarazzanti. È il tipo di musica che non ti cambia la vita, ma che non ci si stupisce se arrivasse a significare qualcosa per qualcuno (è possibile immaginare Hayley Williams headliner al prossimo Primavera Sound? Secondo me sì).
La parte interessante, però, non è tanto la musica, quanto la cornice: Ego Death è il primo disco che Williams pubblica da sola con la sua etichetta indipendente, la Post Atlantic. Dopo vent’anni all’Atlantic, la nuova avventura inizia con un segnale di discontinuità strutturale già dal nome ma è anche vero che oggi Williams decide di scendere a terra proprio perché sa di potersi permettere un suo porto privato.
Per capire il senso di questa operazione bisogna tornare al momento in cui Hayley Williams diventa famosa. I suoi Paramore erano la perfetta band da metà anni Zero: pop-punk con il cuore emo, chitarre che facevano l’occhiolino ai Weezer, atmosfere soft da Coldplay e Snow Patrol, e un tocco di sofisticatezza indie alla Death Cab for Cutie. Singoli come Misery Business e Decode (quest’ultima infilata dentro la colonna sonora di Twilight, che era già un’estensione dell’emo-pop adolescenziale) sono diventati tormentoni da compilation – una volta le chiamavamo così, non playlist – di un periodo storico estremamente fertile per questa nuova sensibilità che avevamo chiamato new sincerity.
The O.C. aveva sdoganato l’indie rock nel mainstream, Grey’s Anatomy trasformava gli Snow Patrol in colonna sonora del pianto condiviso, Shrek 2 regalava visibilità a mezzo catalogo indie e Twilight faceva della malinconia indie-emo una commodity globale. Quando Lena Dunham lancia Girls, la colonna sonora sembra una playlist pensata dai nuovi hipster delle Williamsburg di tutto il mondo. Combinazione, sia Lena Dunham che Hayley Williams compaiano poi nel grande teatro dell’amicizia pop di Taylor Swift: il video di Bad Blood.
Quello era il momento in cui l’indie diventava definitivamente mercato. Non più zona franca, non più codice culturale di resistenza, ma categoria spendibile per una gioventù sofisticata e nominalmente alternativa che si concedeva ribellioni dentro confini sicuri, progettati e accettati dall’industria. L’indipendenza per come la conoscevamo si trasformava in un abito fast fashion preso da H&M per andare al Coachella.
E allora ci sta che oggi, dopo vent’anni di Atlantic, Williams possa permettersi il lusso di dire: grazie, faccio da sola. Con Post Atlantic e Ego Death non inventa un mondo nuovo ma prende atto che ormai le piattaforme sono il mondo. In un’epoca in cui sei già un nome riconosciuto, la visibilità non te la garantisce più una casa discografica, ma direttamente Spotify. La mediazione industriale diventa superflua, i singoli li puoi pubblicare uno a uno senza passare dall’ufficio marketing, il rapporto con i fan lo tieni in piedi su Instagram. Il caso più lampante è Taylor Swift, certo. Ma basta scorrere i crediti di molti dischi mainstream per leggere come sempre più spesso la pubblicazione è stata curata direttamente dall’artista o dalla sua label personale. Pensiamo a The Weeknd (che pubblica a suo nome), Beyoncé (che usa la sua Parkwood Entertainment), Kendrick Lamar (con pgLang) o per andare in territori rock i Linkin Park (a nome proprio).
È indipendenza? Probabilmente sì. Ci sono contratti di licenza, collaborazioni, edizioni, distribuzioni, ma il cuore della musica viene prodotto in proprio. È indie? Nel caso di Hayley Williams no. È piuttosto un’indipendenza di ritorno che però genera un paradosso per cui sbarazzandosi di ogni intermediazione – massimizzando il ritorno economico per legittimo guadagno personale ma senza la costruzione di una comunità o una divulgazione di una diversa idea di mondo e di mercato – questa logica dell’autoproduzione diventa la forma più efficiente di aderenza al sistema. Nessuno ti controlla, perché non c’è più bisogno di controllo (o perché tutto è ormai controllo). Ci sei tu, da sola, davanti alla piattaforma. Ognuno per sé e una playlist per tutti – o almeno per quelli che l’algoritmo decide di premiare.
In questo senso l’indipendenza diventa un punto di arrivo. Il traguardo di chi può finalmente liberarsi da inutili burocrazie per dire: ok, da qui in avanti faccio io. È un ribaltamento affascinante, ma anche un’appropriazione definitiva: ciò che nasceva come opposizione – il do it yourself, il rifiuto della mediazione – oggi è diventato il trionfo definitivo del mainstream.
Naturalmente, ci sarà sempre chi l’indipendenza la interpreta in modo diverso. Non come scorciatoia di lusso, ma come visione del mondo. Artisti che vedono nell’autonomia non un modo per massimizzare il sistema, ma per hackerarlo. Pensiamo a Ethel Cain, capace di costruire un immaginario gotico e intimo con canzoni che durano dieci minuti come se il tempo dell’algoritmo non esistesse e che pubblica il suo nuovo Willoughby Tucker, I’ll Always Love You con la sua personale Daughters of Cain (per citare un’artista che fa quattro milioni di ascoltatori mensili su Spotify). O a quelle band che continuano a preferire l’etichetta minuscola, il vinile stampato in poche copie, la logica dell’artigianato a quella della catena di montaggio globale.
La decisione di Hayley Williams, con tutta la sua ironia implicita – chiamare Post Atlantic l’etichetta che raccoglie l’eredità di una carriera passata sotto Atlantic – è comunque significativa perché racconta una fase storica dove l’indipendenza non è più un inizio, ma il lusso di chi è già arrivato e si riappropria di tutta la dimensione della propria carriera: dalla musica fatta in totale libertà al suo guadagno senza troppi intermediari. Un premio, certo, frutto di un lavoro che nessuno nega ma che resta, in ogni caso, il simbolo di un nuovo modo di intendere cosa significa fare musica oggi.












