Per Maurizio Lastrico è “Tutta colpa del rock” | Rolling Stone Italia
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Per Maurizio Lastrico è “Tutta colpa del rock”

L'attore e comico genovese torna con un nuovo film con Lillo, Elio e Naska, una commedia rock curata musicalmente da Motta. La nostra intervista

Per Maurizio Lastrico è “Tutta colpa del rock”

Maurizio Lastrico

Foto: press

«Io non posso dirlo. Son genovese, mi porto sfiga». Risponde così, se provi a fargli un complimento o a mettere sul tavolo questi suoi primi vent’anni di carriera. Scanzonato, scaramantico e con una gentilezza d’altri tempi, schiva ogni pronostico futuro ma è ben saldo nel presente, mentre cita i suoi maestri storici e la scuola che l’ha formato (lo Stabile di Genova, neanche a dirlo), nel mezzo di un’impennata clamorosa dal teatro verso film e serialità: «Per me è la cosa più importante che mi possa capitare». È uno capace di strapparti una risata e un applauso anche durante un’intervista, mentre parla con periodi lunghissimi, caotici, pause brevi e intercalari liguri. Aver letto Joyce e Saramago senz’altro aiuta a rincorrerlo, ma se il flusso di coscienza fosse esso stesso Maurizio Lastrico?

L’occasione della chiacchierata è l’uscita in sala di Tutta colpa del rock di Andrea Jublin – prodotto da Piper Film e Be Water Film in collaborazione con Netflix – storia di un ex chitarrista (Lillo) caduto in disgrazia e finito in carcere, dove decide di fondare un’improbabile band di detenuti. La commedia rock riunisce invece una band di attori-comici-musicisti per raccontare un’umanità allo sbando che ritrova speranza nella musica, con annessa colonna sonora a cura di Motta e un pezzo originale composto da Naska insieme ai Cor Veleno e Danno, mentre Lastrico condivide il set con il suo eroe di gioventù: Elio. Così, dopo i recenti successi di Call My Agent Italia, Maschi veri e Follemente, per lui questo è l’ennesimo guanto di sfida lontano dall’habitat in cui è cresciuto: un palco, il teatro, il cabaret. Il metodo stanislastrico, però, è lo stesso dal principio: «Fare Don Matteo come fosse True Detective».

Insieme all’amica Maria Chiara Giannetta – galeotta fu mamma Rai – presto saranno protagonisti al cinema, per la prima volta insieme, della commedia romantica diretta da Chiara Malta, La sindrome degli amori passati, remake del film belga di Ann Sirot e Raphaël Balboni: «Qui siamo diversi», anticipa Lastrico, «e quello che faremo dopo sarà influenzato da questo». Nel frattempo, sulla traccia autoironica di un universo maschile goffo e romantico, Lastrico continua a perfezionare il trait d’union tra le Divine Commedie a cui ci ha abituati e la quota comica da portare nei nuovi progetti, imparando a sbattersi come un cane» per il gioco di squadra e prendendo le distanze da una generazione di attori impegnata a «mangiarsi i colleghi». Per sempre devoto a Zelig ma senza eccessi di nostalgia, guarda alla nuova scena capitanata da Ravenna, Lundini, Fanelli e Ferrari e, con sollievo suo, ma con stupore mio, lo dice: «Ci hanno proprio superato».

Dunque stavolta è Tutta colpa del rock: com’è stato misurarti con un tipo di commedia in cui vale tutto?
Cercare di abitare quel mondo e capire i propri limiti lì dentro, per me è stato fondamentale. Ma ancora di più lo è stato vedere anche la creatività di Lillo e di Elio. È una roba pazzesca, no?

Be’, sei cresciuto con Elio e sognavi di lavorarci. Una dichiarazione d’amore da comico a comico?
Elio non solo è un comico incredibile, ma ha influenzato l’umorismo della mia generazione, il modo di parlare e il linguaggio. Perché mentre parla, lui prende già per il culo il parlare. Come i grandi poeti riescono a raccontare il mondo, lui ha un tipo di sensibilità e di forza che prende in giro il comunicare stesso. Considerando che da piccolo ascoltavo le sue cassette, ritrovarmi in un’ellissi temporale con lui che mi bussa al camerino – “Oh Maurizio, andiamo a mangiare qualcosa?” – mi sembrava una roba quasi da averne soggezione.

Hai confessato a Elio la tua adorazione?
Sì! Ha fatto una faccia particolarissima, l’ho visto sinceramente imbarazzato, in senso bello. Mi è capitato anche a LOL con Rocco Tanica. È davvero il pudore di scherzare o fare una battuta vicino a quel tipo di grandezza.

Anche la tua comicità ha fatto un bel po’ di scuola…
Io sono genovese e sono anche figlio di mia mamma, che mi diceva: “Ma ti danno almeno qualcosa?”, che ha una paura fottuta che tutto finisca e che me l’ha un po’ trasferita. Vedo che quando uno si gasa un po’, poi gli capita sempre una roba in cui è in difficoltà. Dal mio punto di vista è cercare di crescere, di far bene, di dare continuità. Però evidentemente, se mi stanno chiamando con questa frequenza e anche per certi ruoli difficili, vuol dire che ci vedono qualcosa.

E spesso ti chiamano proprio per raccontare le note tragicomiche di un disagio maschile e sociale, di cui sei un grandissimo esponente.
Questa cosa del disagio è bella perché racconto anche tanti miei amici, persone che amo e che hanno un animo artistico nell’osservare il mondo, i sogni che avevamo e poi le difficoltà quotidiane dei rapporti, di essere gratificati dall’amore, dal lavoro, di sentire una compiutezza nel percorso della nostra vita. Ho sempre imitato le persone che mi piacevano e le vette comiche dei miei amici, è un’occasione per prendere il caffè come lo prendono loro, amare come io mi immagino che facciano loro. Delle volte imito mio papà e poi mi viene attribuita come una cosa mia, allora si crea un qualcosa di magico.

Scopro con sorpresa che ti definisci permaloso e vanitoso. Proseguiamo con la lista?
Irascibile. E con la persona che mi segue – uno psicologo valente – stiamo lavorando anche sul discorso della vergogna. Soffro molto la vergogna, e con la testa anticipo sempre cosa potrebbe succedere. Scenari catastrofici. Uno dei sogni ricorrenti che faccio è che sta arrivando una guerra ma la gente intorno a me è tutta tranquilla, fa il bagno in piscina, scherza, mangia le patatine. E io dico: “Ma che scemi sono, questi?”. Credo sia un po’ la metafora della mia vita nel mio ambiente. Adesso sto facendo il protagonista al cinema e dentro di me ci riesco anche a scherzare, ma alle volte mi dico: “Questa gente non sente la cosa importantissima che stiamo andando a fare? Non è in subbuglio ventiquattr’ore su ventiquattro?”. In realtà no, hanno le loro vite.

Tu invece?
Per me è la cosa più importante che mi possa capitare.

Sei passato da solista al gioco di squadra, tra serie tv, dinamiche corali e nuove temperature di comicità. Non è che ci stai prendendo gusto?
È una cosa che mi inorgoglisce perché tanti miei maestri, da Anna Laura Messeri a Valerio Binasco, mi hanno insegnato ad amare i gruppi, i miei partner e le partner di scena, e che la forza del mio personaggio è far recitare bene gli altri. Questo significa imparare le loro battute e capire come puoi valorizzarli, che un piano d’ascolto può essere una cosa preziosissima, che devi avere un arco narrativo credibile, al di là del numero di battute e delle volte che fai ridere in una scena. Perché se tu fai lo scemo e magari prendi anche una risata, ma scazzi il tuo arco narrativo e l’urgenza del tuo personaggio, succede che vinci in quella scena lì, ma tra quattro scene, quando chiederai al pubblico di crederti se soffri o sei a disagio, avrai perso parte di quella potenziale fiducia.

Metti un ragazzino che si scopre attore comico. Qual è stato il tuo movente?
Io credo che quel tipo di affetto che arriva durante le date riempia in un modo tale che, se non lo facessi, lo desidererei incredibilmente. È arrivato fin da subito, da ragazzino, quando facevo le piccole scemate nel mio paese e veniva un po’ di gente a sentirmi. Mi sono percepito con un’identità e con una nuova forza, e poi mi sono costruito anche un po’ di racconto, no? “È una specie di vocazione, queste risate sono importanti, io adesso starò qua a scrivere anche d’estate”. Però sento che stanno bene le persone e che io faccio qualcosa di concreto. Poi oh, bisognerebbe chiedere agli psicologi, ce ne avranno da raccontare…

Figurarsi il tuo…
Il mio sai, è genovese. Direbbe: “Ma dai, ma va bene così!”.

Foto: press

Nel frattempo aumentano i ruoli e le occasioni. Crisi o crasi? Ultimamente sto avvertendo una serpeggiante richiesta verso la mia figura, anche a LOL sapevo che c’era un po’ di timore, quasi a dire: “Oh, non far troppo il cervelloide!”. Da permaloso, all’inizio pensavo: “Ma che cazzo vogliono questi? Che devo far, lo scemo?”. Poi ho provato a relativizzare: “Mauri, occupati di raccontare una storia. Ma cerca, dove puoi, senza scazzare, di inserire anche un coefficiente comico più alto”, che magari significa aggiustare meglio quella battuta e avere un’occasione in più. Una mia nuova sfida, in certi tipi di film, è cercare di innalzare un po’ la frequenza comica, e questo presuppone anche un intervento in scrittura.

Sul sacro testo?
(Ride) Mi fa tanto effetto perché venendo dal teatro, quando ti arriva un testo di Goldoni non vai a dire: “Ah no, qua me l’aggiusto un po’ così”. Piuttosto passi quaranta giorni a pensare: “Come posso io, in maniera adeguata, dire queste battute?”. Adesso invece sto sperimentando e sto lavorando con il buon Domenico Pinelli su una specie di riadattamento. È interessante avere un collaboratore tra il collega, l’autore e lo sparring partner.

Un po’ come con Maria Chiara Giannetta? Sparring partner da Don Matteo a Sanremo, con il famoso sketch-varietà del 2022. Tra poco uscirà il vostro primo film da protagonisti, La sindrome degli amori passati di Chiara Malta.
A me quello sketch a Sanremo ha svoltato la carriera. È stata lei che ha preso me, quando l’hanno chiamata. Io le ho detto: «Ma no, vai con un comico più strutturato, più forte!». Invece lei ci ha visto più lungo di me, perché io non mi sarei mandato là. E ci ha visto più lungo degli agenti che ho avuto, che mai mi avrebbero mandato a fare una roba così. Quindi cazzo, una persona che riesce a vedere un suo collega in potenzialità, anche per far crescere sé stessa, c’ha una visione speciale. Il film che andiamo a fare insieme ha qualcosa di comico e di quell’intesa, ma al servizio della visione di una super regista. E noi siamo diversi, rispetto a quella roba lì.

È la storia di una coppia che non riesce ad avere figli e sceglie una soluzione piuttosto stravagante. Possiamo definirlo il tuo debutto da protagonista romantico?
Sì, è un po’ un debutto che equivale alle responsabilità che ho avuto a teatro. Chiara Malta ha una visione veramente forte che va sposata, e dal momento in cui abbiamo detto «Sì, lo voglio», è stato un matrimonio stupendo. Al di là di come andrà – e non lo dico per mettere le mani avanti, ma perché quello che faremo dopo sarà influenzato da questo – è stato un ribadire che per fare qualcosa di alto ci vuole la visione di un regista. Non è mai una grande scelta mettere dei paletti ai registi, controllarli o boicottarli. Noi, da attori, vogliamo artisti liberi che si giochino le chiappe, che si prendano delle responsabilità. È l’unico modo per andare a fare qualcosa di veramente autentico.

Con Follemente raccontate tutti di esservi giocati un po’ le chiappe: cast corale ma diviso in gruppi, riprese isolate dal contesto generale e un soggetto rischioso. Successo clamoroso.
Anche lì c’era una testa in più, quella di Genovese, che aveva un’idea e una visione davvero chiare. Andare a intercettare lui è stato intercettare il pubblico, perché in quel caso, per noi un regista libero diventa il nostro pubblico.

Sia in Follemente che in Maschi veri rappresenti la quota maschile più empatica e pronta a mettersi in discussione sui temi attuali. Coincidenze?
È interessante, credo che sia una specie di modo di recitare. Quello che ci hanno insegnato a scuola è che i personaggi sono più grandi di noi, quindi pensare che il romantico viva solo sospirando “Oh mio dio, quanto soffro” è limitante. Un romantico che si rende conto di essere inadeguato, che alle volte ha pensieri grevi, che soffre e poi ha slanci incredibili, che quando guarda gli altri si fa sempre un’opinione su tutto, ecco, questo dà un’umanità che credo ben si sposi alla modernità. Mettere quel tipo di modernità su dei cliché a me piace molto.

In Miss Fallaci hai ribaltato tutto con Alfredo Pieroni. L’uomo che ha devastato Oriana, ma anche quello in cui è facile rispecchiarsi.
È una parte che volevo raccontare da sempre e che certe volte ho provato ad inserire, ad esempio anche in Don Matteo. È una roba che ho visto da vicino con mio papà. Un rapporto anche un po’ feroce con mia madre, con quel tipo di ira, quella specie di follia o di cattiveria tipiche di un tempo. So bene che cos’è, ma lo dico anche con una curiosità distaccata, da attore che desidera raccontare quella sofferenza. La vedo e purtroppo c’è.

Qualche anno fa, dopo aver ottenuto il ruolo per Call My Agent Italia, mi avevi confessato di essere un po’ preoccupato. Che tipo di paura era?
Le paure iniziali erano quelle che arrivano quando senti una bella potenzialità. Per me la paura più grossa è sempre quella di lasciare il tempo che si trova. Quando ho visto che avevano fatto un casting così forte ho capito che c’era una roba che funzionava, bastava che non facessimo le cagate solite di semplificare le cose. Ma lì Ribuoli, che è anche un ex casting director, è stato un grande.

Ed eccoci al gioco di squadra.
Sì, su Call My Agent per me è nata questa roba di occuparsi degli altri, che poi ha funzionato tanto anche in Maschi veri e in Follemente. E sono felice perché è una metodologia che sa di nuovo, mentre c’è una generazione non tanto più anziana della nostra che se la vive diversamente: “Ah, sto con quello! Adesso devo fargli il culo e mangiarlo”. È un tipo di approccio un po’ autolesionista e stupido, quello di non capire che se io faccio vincere gli altri e viceversa, allora si fanno anche la seconda e la terza stagione. La gente è contenta e tu torni a casa che ti abbracci col collega: «Minchia, come mi hai salvato in quella scena lì».

Pare che la tentazione di mangiarsi gli altri sia tipica dei comici. Ne sai qualcosa?
In una situazione tipo Zelig, o con quelli che ti capitano sempre ai provini, certo che se mi dicono che l’altro è uscito meglio di me mi gira il cazzo. Diciamo che è facile non invidiare Robert De Niro o Luca Marinelli, ma è più difficile non invidiare uno che è con te a giocarsi un film. La tentazione c’è, ma è molto salvifico imparare a far uscire bene proprio chi è vicino a te. In Don Matteo ho provato a dire: “Ok, adesso mi sbatto come un cane” per il concetto di amare il partner e dedicargli attenzione.

Gli anni di Zelig ti mancano mai?
No, credo che sia giusto così, che quella roba tramonti. Ne parlavo con Luca Ravenna: menomale che escono cose come In e Out, che si arrivi a un mainstream che sia loro. Ho vissuto il periodo di Zelig sentendomi un po’ fuori luogo e desideroso, in una maniera quasi autolesionista, che crescesse un’alternativa. Però io sono figlio di quei tempi e quando arriva la chiamata di Zelig, ancora oggi, anche se ho difficoltà, io scatto e vado in Viale Monza. Credo di aver avuto una coerenza nel cercare un tipo di umorismo e di comicità che funzionano ancora adesso a teatro e che mi danno dei numeri buoni per mangiare, e questa mia ricerca continuerà. Però vedo Lundini, Fanelli, Ferrari, lo stesso Ravenna… E alè, bene, forza!

Il loro è un registro comico che ti attrae?
Il fatto è che non è il mio, perché loro sono giovani, sono nuovi. Posso provare a intercettare, ma ho sentito che ci hanno proprio superato. Io posso portare un tipo di tradizione o di abilità narrativa, faccio le cose in genovese e le Divine Commedie, probabilmente le potrò fare anche tra vent’anni. Però la cifra loro è finalmente qualcosa, no?

Ma alla fine, questo metodo stanislastrico, ce lo dici cos’è?
(Ride) Secondo me è: vai e cerca di sfangartela. Credici di brutto, a costo di beccarti quello che mi hanno detto sul set di Don Matteo: «Oh Mauri, stai facendo Don Matteo non True Detective!». È proprio questo, fare Don Matteo credendoci come fosse True Detective. Poi spesso sei talmente inadeguato che fai ridere…

E se capita, comunque, hai portato a casa una risata.

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