‘No Other Choice’, cattivissimo (e magnifico) Park Chan-wook | 'No Other Choice', la recensione del film di Park Chan-wook da Venezia 82Rolling Stone Italia
Non c’è altra scelta

‘No Other Choice’, cattivissimo (e magnifico) Park Chan-wook

"Eh grazie", direte voi, ma questo è forse il film più parkchanwookiano del regista sudcoreano. Che, vent’anni dopo 'Lady Vendetta', torna a Venezia. Poche volte il cinema ha saputo trasformare in modo così lucido, spietato e irresistibile la crisi occupazionale in tragedia greca e la disperazione quotidiana in commedia nera. Imperdibile

‘No Other Choice’, cattivissimo (e magnifico) Park Chan-wook

Lee Byung-hun (Man-su) in 'No Other Choice'

Foto: Lucky Red

Sarebbe un gran bel Leone d’oro No Other Choice – Non c’è altra scelta (pronto giuria, ci sentite?), e non puoi fare a meno di pensarlo già dopo dieci minuti. Park Chan-wook torna a Venezia vent’anni dopo Lady Vendetta, con quello che – forse – è il suo progetto della vita. Di certo sembra un regolamento di conti: con sé stesso, con le sue ossessioni, con il cinema inteso come la sua opera, ma pure in un certo senso l’industry. Ci ha messo due decenni a realizzarlo. Perché? «La risposta è breve», ha scherzato Park in conferenza. «I soldi». E spiega: «Non è che non avessimo un budget, ma volevo assicurarmi che fosse sufficiente per quello che avevo in mente». E poche volte il cinema contemporaneo ha saputo trasformare in modo così lucido, spietato e irresistibile la crisi occupazionale in tragedia greca, la crudeltà aziendale in balletto, la disperazione quotidiana in commedia nera. Perché, dietro le risate e la brutalità, resta la domanda che tormenta il pioniere della Korean Wave da sempre: cosa succede a un uomo quando il sistema lo scaraventa oltre il limite?

Man-su (Lee Byung-hun, ci torniamo) è un marito e padre come tanti, uno specialista nella produzione della carta che crede di “avere tutto”: famiglia perfetta, due cani, un lavoro solido. Fino al giorno in cui l’azienda lo convoca e, prima di distruggere la sua vita con l’annuncio del licenziamento, gli regala un’anguilla. Un simbolo ridicolo, perché l’anguilla «aumenta la virilità maschile». In realtà è un funerale: «Ci dispiace, non avevamo altra scelta». Ecco, nel mondo di Park licenziare qualcuno equivale a mozzargli la testa con un’ascia.

No other choice - Non c'è altra scelta di Park Chan-wook | In concorso a Venezia 82 | Teaser Trailer

Da lì inizia la caduta: Man-su cerca lavoro, sostiene colloqui umilianti, vede la casa di famiglia sfuggirgli dalle mani. Partecipa persino a un gruppo di auto-aiuto per disoccupati (!) che ripetono frasi di incoraggiamento come mantra picchiettandosi la fronte: “La mia famiglia mi sosterrà mentre cerco nuove opportunità”. È una messa in scena crudele del linguaggio aziendale trasformato in religione, dove il licenziamento si fa rituale e la crisi individuale diventa dramma collettivo. Eppure Park, pur muovendosi nella satira, mostra anche compassione: Man-su non è mai ridotto a caricatura, resta un uomo tragico che potrebbe somigliarci fin troppo.

Più in basso di così c’è solo da scavare (cit.), letteralmente. Se nel mercato del lavoro non c’è un posto per lui, allora Man-su decide di farsi spazio da solo. Come? Eliminando fisicamente gli altri candidati. E qui No Other Choice diventa un film di Park al cento per cento: la black comedy si tinge di sangue, e la macchina da presa danza letteralmente sopra le sequenze di omicidio. Una in particolare è un pezzo di cinema memorabile e travolgente dall’inizio alla fine, a tutto volume à la Parasite e coreografata come un balletto di morte. Park non ha perso l’eleganza millimetrica che lo ha reso il regista più raffinato in circolazione: ogni inquadratura è una lama che scintilla, ogni movimento di camera è una carezza letale ai suoi personaggi, a noi, al Cinema.

Foto: Lucky Red

Dopo essere stato il Front Man mascherato ed enigmatico di Squid Game, Lee Byung-hun qui fa all in: è un uomo che scivola nella follia, un corpo che si piega e si spezza, un volto che passa dalla dignità alla disperazione. Il suo Man-su non è mai un villain, ma nemmeno un eroe: Park non ci invita a fare il tifo per lui, eppure ci costringe a capirlo. È un personaggio che resiste alle etichette facili, come la performance stessa di Byung-hun: elastica, spiazzante, commovente.

In superficie, No Other Choice è un film estremamente divertente. Ci sono battute fulminanti, («Mai regalare scarpe a chi ami: potrebbe usarle per scappare»), dettagli assurdi, frecciatine contemporanee – come il momento in cui la moglie del protagonista annuncia di voler disdire Netflix per risparmiare, e il figlio replica «allora guardo qualcosa prima» mentre parte l’onnipresente Tudum. È Park che ci ricorda che il capitalismo non solo ci licenzia, ci affama e ci umilia: ci distrae, ci addormenta, ci addestra a ridere del nostro stesso naufragio. E, dal punto di vista tematico, No Other Choice sembra dialogare direttamente con Parasite. Dove il collega e amico Bong Joon-ho guardava alla guerra di classe, Park mette a fuoco la ferocia del lavoro che scompare, la disperazione di chi non ha più posto, nel mondo del lavoro e quindi nel mondo. Cosa succede quando il sistema spinge una persona oltre il limite? La follia diventa logica, il delitto diventa l’unica possibilità.

Foto: Lucky Red

Eppure, malgrado la ferocia, No Other Choice è anche un film toccante. Un monito, una riflessione sulla fragilità maschile, sulla crisi di un modello patriarcale incapace di reggere l’urto del mercato globale. Man-su non sopporta l’idea di non essere più il capofamiglia. La sua caduta è anche il crollo di un certo ideale di virilità (again, le anguille). Park stesso lo ammette: quando ha letto The Ax di Donald Westlake, il romanzo da cui il film prende origine (già adattato da Costa-Gavras nel Cacciatore di teste), si è identificato immediatamente col protagonista, perché anche lui vede il cinema come il suo lavoro-totem, la sua ossessione. Ecco allora che questa storia di licenziamenti e di sangue diventa un autoritratto distorto: Park riflette su sé stesso, sulla sua fissazione, sul tempo che passa. E il risultato è tanto personale quanto universale.

I segni del Park-verso ci sono tutti in No Other Choice, che non è solo un ritorno, è un ritorno al cuore stesso del suo cinema: l’ossessione per la vendetta (qui traslata sul lavoro), il grottesco e la ferocia che diventano sublime, il dettaglio assurdo che illumina la tragedia, il montaggio geniale. È un film meno visionario di Old Boy, meno romantico di Decision to Leave, ma è forse più imprescindibile, sicuramente per lui. Perché racconta con spietata lucidità chi siamo oggi: lavoratori precarizzati, famiglie sull’orlo, persone che non vedono altra scelta. Forse non è il capolavoro assoluto di Park (?), ma è quello in cui ha messo più di sé stesso. E, lo ripeto: sarebbe davvero un gran bel Leone d’oro. Perché non racconta solo la crisi di un uomo, ma la nostra: la sensazione che il sistema ci licenzi in ogni momento, che non ci sia altra scelta se non cedere, ridere o impazzire.