Come sta il cinema italiano? | Rolling Stone Italia
Buongiorno tristezza

Come sta il cinema italiano?

È morto, in attesa di (ennesima) resurrezione. Tra tagli e abbagli, abbiamo fatto un giro fra i set parlando con i produttori, gli autori, le maestranze e tutti quelli che sono coinvolti nell’ennesimo terremoto che colpisce il settore. L’altra faccia della gioia: o forse no

Come sta il cinema italiano?

Ciak si gira... ma a volte no

Foto: Jon Tyson/Unsplash

“Raccontaci come sta il cinema italiano”. Questa era la consegna di questo articolo. Un articolo che ho scritto e riscritto. È stato sapido pamphlet, prudentissimo report, inchiesta dalla schiena dritta, sguardo affettuoso, consolatorio, un po’ paraculo. A un certo punto ho anche provato a rinunciare, ché questo è pure un mondo di permalosoni.

Però. Però più andavo avanti, più alcune risposte mi intrigavano, altre mi deprimevano, alcune mi sorprendevano. Anche se, ed era la cosa che più mi stupiva, tutti mi dicevano “scrivilo, scrivilo questo”, subito prima però di “non metterci il mio nome”. Neanche fossimo a Catania e io fossi Pippo Fava.

Piccola pausa. Non scriverò i vostri nomi se mi avrete chiesto di non farlo. E cercherò di smettere di parlare in prima persona, ché una che si crede una grande giornalista – a volte si scambia il proprio ego per competenza – mi ha detto che non si fa. E infatti lei lo fa sempre.

Però. Però serviva a favi capire che mica era facile. Vivere nel 1942, intendo. Che poi perché in uno speciale chiamato, almeno in fase di lavorazione, “Il cinema della gioia” a me danno la parte triste, dovrei chiedermelo. Ma facciamo finta di niente.

Come sta il cinema italiano? Ma soprattutto, dove sta? Indipendentemente da quella forbice che possiamo tracciare tra i due Paolo, Sorrentino e Genovese, tra Parthenope e Follemente, che ci dicono che amiamo gli autori e le commedie ben scritte. E che a naso siamo un pubblico migliore di quello che quasi tutti, tra gli addetti ai lavori, credono. E l’abbiamo anche sempre saputo.

«È sempre colpa del governo»

Il cinema italiano, intanto, ce lo dice uno dei pochi che non ha chiesto l’anonimato, è un cinema in cui i migliori film non vengono fatti. O addirittura non si riescono neanche a proporre. Un mio maestro – no, non quella di prima – mi disse che se vuoi sapere come stanno le cose vai dal fool shakespeariano, vai dal più punk, dal meno pettinato. Ecco, Claudio Serughetti, super indipendente autore di molte avventure affascinanti, lo è. Tutte queste cose e soprattutto poco pettinato. Uno di quelli che alle feste ai Parioli – che poi che immaginario anni ’80 e ’90 (allora in quel quartiere sì che c’era una vita spericolata), però è pure vero che dopo l’innamoramento per Piazza Vittorio se ne stanno tornando tutti là – non ci va. E forse neanche lo invitano. E che i suoi film di finzione – da The Hysterical Visionary Tour a Il nostro messia li ha dedicati in fondo all’odissea per chi è indipendente nel mettere su un film. E che nei suoi documentari ha trattato temi come la pena di morte (È tuo il mio ultimo respiro?) e il voto (È la mia prima volta!, di cui fra qualche mese dovrebbe esserci il sequel). In quest’ultimo, peraltro, intuì i successi di Giorgia Meloni (allora al 2%) e ottenne la presenza di un Grillo che ancora non aveva sbancato il Parlamento, ma voleva aprirlo come una scatoletta di tonno.

Non l’ultimo arrivato, Serughetti, ma uno che può rappresentare quel popolo di autori che da anni, decenni, fanno fatica per mostrare le loro opere, figuriamoci per guadagnare qualcosa. Uno che per fare un pugno di film ci ha messo vent’anni, nonostante il primo fosse stato apprezzato in tutta Europa. Già, l’Europa.

“Estate 2016. In un’Italia assolata e remota, Nina e Thomas fuggono da una Parigi blindata per trovarsi di fronte all’indicibile: il mare ha vomitato la sua vergogna. E loro, che cercavano quiete, trovano orrore. Corpi, silenzio, e un vagito spezzato. Un bambino solo, tra corpi inermi galleggianti. Vivo. Un pianto che non è lamento. È domanda. La legge tace, l’anima grida. Nina lo prende, lo rapisce. Lo ruba alla morte. Per salvarlo. Gli ha già dato un nome: Jonas Aylan. Omaggio straziante a un altro bambino, ad un’altra spiaggia, ad un’altra vergogna mondiale. Non c’è eroismo, solo umanità feroce. È un crimine, le urlano, la stampa divora. O forse è un gesto sacro. Il passato la insegue: l’uomo più ricco e discusso di Francia è suo padre; un cognome rifiutato, una verità occultata sotto jet privati e champagne. La fuga diventa insurrezione morale, la maternità un atto politico. E se fosse proprio un atto illegale a riscrivere la legge morale del nostro tempo? Negli utopici Stati Uniti d’Europa”.

Ci siamo sentiti, con Claudio, perché mi ha mandato queste righe. Una sinossi, un pitch, come dicono quelli bravi. Con ingenuità gli ho chiesto quando sarebbe uscito il film. «Per ora, mai», mi ha detto con il misto di ruvido ottimismo (il “per ora” è determinante) che gli (ri)conosco. Racconta di come stia proponendo quello che sulla carta sembra un bel thriller politico, impegnato e d’intrattenimento, ai produttori illuminati e di come le risposte che riceve per un’opera con un budget decisamente sostenibile siano sconfortanti.

Il tax credit e il nuovo governo sono le motivazioni più gettonate. Ricordatevelo, è sempre colpa del governo. Che a sua volta se la prende con quello precedente, e venne il gatto che si mangiò il topo che al mercato mio padre comprò. Va pure detto che Sangiuliano e Giuli sono i perfetti Babau dietro i quali una schiera di produttori non proprio cuor di leone si nasconde per consegnare all’oblio quei progetti che sarebbe troppo difficile e oneroso (non tanto in termini di denaro, quanto di fatica) portare avanti.

Il satiro e il dandy, sembra già un film. «Vivo in un ambiente che mi ha sempre considerato un oggetto volante non identificato, un outsider». Che è un modo elegante per non dire che non piaci alla gente che piace, a quella bolla che ancora usa Twitter senza sapere che è diventato X, per intenderci. «I più gentili, o quelli che pensano di esserlo, se leggono il mio progetto mi dicono: “Be’, se me lo presentasse Paolo Sorrentino questo script potrei metterlo su subito il tuo film”». Ride, amaro. «Non ti sembra tragicamente comico? O viceversa? E infatti quando sento questa cosa, o qualcosa di ridicolmente simile, rido rumorosamente in faccia all’interlocutore. E così mi gioco anche quello straccio di rapporto professionale che mi aveva portato da lui. Ma come si fa non trovarlo esilarante? Così però la terra bruciata attorno a me aumenta».

Vale per molti che abbiamo sentito. A partire da quei colleghi, giovani, che hanno fatto scuole, esperienze all’estero, sono assistenti alla regia o registi di seconde unità stimatissimi. I loro progetti accendono la fantasia di molti. Però poi la realtà è ben più squallida, come ci racconta il Collettivo U35 (Under 35, come se a 35 anni fossi un giovanissimo alle prime armi: già questo ci dice molto, a 35 anni Xavier Dolan pensava al ritiro), che è realtà trasversale alle associazioni di categoria 100autori e WGI (Writers Guild Italia). Ha compiuto uno studio a tappeto dai risultati avvilenti: tre su quattro di loro guadagnano meno di 15.000 euro. In media un regista “giovane” ne guadagna quasi 14.000, ma la metà di loro si attesta sui 7.000, gli sceneggiatori si attestano su una media di 12.000 e spicci, ma la metà di questi ultimi arriva a stento a 5.000. Poi ci indigniamo se i loro genitori si disperano quando scoprono che al posto in banca o al ministero preferiscono il set.

«Il problema», continua Serughetti, «è che, giovane o non giovane, nessuno ti dice che devi studiare non solo cinema, ma pure scienze diplomatiche. Il nostro è un cinema dove non ti chiedono la conoscenza, ma le conoscenze. Ricordo un’amica attrice che voleva aiutarmi e mi diceva di partecipare alle cene, alle feste che lei definiva con grande garbo “propedeutiche”. Io sdegnato la provoco e le dico: “Ma sì, magari una serata massona?”. E lei: “Ce l’ho”. A me, invece, manca». E sull’amichettismo, che è l’accusa che da destra si fa verso sinistra, lui commenta caustico. «Di sicuro io sono non amichettabile – una crasi tra amichettismo e ricattabile – ma è un’abitudine, quella delle relazioni da coltivare e sfruttare, senza colore politico, totalmente bipartisan».

«Il nostro è un cinema dove non ti chiedono la conoscenza, ma le conoscenze»

Lo conferma uno che ha scritto per l’Unità e Il Giornale, uno che è stato un grande critico (lo è tuttora, ma sui social) e che ha saputo percorrere con malizia e ruvida ironia anche le strade lastricate di pessime intenzioni del cinema italiano. Su Facebook è stato tra i pochi a far notare che mentre gli ultimi due Ministri della Cultura hanno massacrato Saverio Costanzo e Mario Gianani, regista e produttore di Finalmente l’alba, per la discrasia tra il budget (e il conseguente tax credit) e l’incasso (dimenticando che il primo ha portato alla Rai, quindi allo Stato, soldi a palate con L’amica geniale e il secondo ha prodotto C’è ancora domani, che ha avuto numeri zaloniani al botteghino salvando la pellaccia del settore per un anno e più), hanno partecipato sorridenti alla prima di Albatross di Giulio Base sul militante del Fronte della Gioventù Almerigo Grilz, che ha incassato così poco che a spanne neanche il 10% degli iscritti a CasaPound è andato a vederlo. E il pur bravo regista – scandaloso che il suo bellissimo Il maledetto con un titanico Nicola Nocella sia andato, senza passare dalla sala, direttamente su RaiPlay – ha ricevuto come l’altro dallo Stato aiuti a sei zeri.

Così siamo stati su qualche set. A parlare con chi “er cinema ’o fa”. Quel generone romano – in un altro articolo parleremo dell’eterno male del romanocentrismo, ora in parte sanato dal fatto che Napoli e Torino non sono più periferie creative e industriali, per motivi diversi – è depositario delle verità più nascoste e al contempo evidenti. Certo, devi scremare aneddoti e esagerazioni, perché Carlo Verdone come sempre nei ritratti socio-antropologici delle nicchie romane, che siano trasteverine o di Cinecittà, non ha sbagliato mai. E se parli con queste comitive che in fondo sono compagnie di giro che si muovono con la stessa agilità e fiuto delle ciurme delle navi dei porti più pericolosi d’un tempo, ti ritrovi in spettacoli da strada simile a quelli in cui Oscar Pettinari parlava d’anaconde.

«Ma de che stamo a parlà», ci incalza un attrezzista. Uno di quelli che pure a inizio estate tiene su un berretto alla Biascica di Boris. «Te racconto una cosa: film, brutto ma aiutame a di’ brutto, produttore di quelli che a voi giornalisti piace. Uno che paga quando je va, se je va. Il penultimo giorno di set spariscono tutti gli arredi dello sponsor che fa product placement. Nun c’è traccia de scasso, se li so’ portati via senza neanche struscià il parquet de finto legno. L’assicurazione arriva e in due ore quello sconta il risarcimento in banca. Beato chi se li fa i sofà. Nun te dico dove l’ho rivisti».

Un runner – sorta di tuttofare che, dall’alba in cui porta gli attori sui set alla sera in cui si mette a spostare le scenografie, fa tutto –, uno di quelli dalla faccia pulita e borghese che sta lì ma vuole fare il cinema dall’altra parte della macchina da presa, dice «sì, sì, tutto vero, è tutto un magna magna. E solo quelli che ci hanno mamma e papà coi soldi come me possono permettersi di lavorare gratis per anni. Ora stanno tutti a piangere, eppure durante la pandemia e subito dopo si lavorava come pazzi. Hanno rubato col tax credit? Ma certo che hanno rubato». E infatti Nicola Borrelli lo aveva capito prima e meglio di altri. Lui, il miglior Direttore generale cinema del dopoguerra per distacco, che s’è dimesso per evitare di insozzarsi con la lotta senza quartiere che pare un western di Serie B in atto tra Via Tuscolana (Cinecittà) e Santa Croce in Gerusalemme (MiBAC), tra gole profonde, casi di omicidio con commercialisti che sembrano presi dai soliti ignoti (il tragico duplice omicidio di Villa Pamphili si incrocia in modo grottesco con le fragilità del nostro sistema politico culturale) e leggi fatte con i piedi e corruttele un tanto al chilo. Lui in tempi non sospetti ha mandato la Finanza a indagare sulle tante irregolarità e stranezze legate al tax credit, tanto che uno dei produttori che facevano spola tra l’Italia e la Hollywood decadente dei divi in disarmo, Andrea Iervolino, sta passando pessimi quarti d’ora. Ed è solo l’inizio. Ed è solo il primo.

Continua il runner aspirante regista: «Abbiamo avuto vacche grassissime, tanto è vero che quel tax credit che ora fa così schifo al governo l’hanno copiato tutti, dalla Spagna alla Svizzera. Pure con percentuali più estreme, eh. E noi, tutti, abbiamo cominciato a chiedere un sacco di soldi, e siccome eravamo pochi ho visto miei colleghi diventare direttori di produzione, e gente che a stento sa parlare organizzatori generali. Poi questa bolla è scoppiata e piangono tutti. Piangiamo tutti. Ma sarebbe il caso di smettere di chiedere a tutti di fare qualcosa per il cinema, e chiedersi invece se chi lo fa, il cinema, qualcosa per il cinema lo fa».

Un regista che lavora poco «perché ve lo dico, bello il cinema, eh, ma una multinazionale per una sua convention dà il triplo a me e ci mette dieci volte il budget di un film indipendente per costruire eventi che sono molto più probanti per il tuo talento di qualsiasi film», ci dice che «non c’è anno, epoca, momento in cui il cinema italiano non faccia la vittima. Un settore industriale e artistico che è abituato a elemosinare dal pubblico senza mai, dico mai, rischiare di suo. Ditemi un produttore che ci ha messo soldi suoi in un film negli ultimi 15 anni. Uno serio, eh, non quelli che pur di esordire si vendono anche la madre e che mi fanno tenerezza e ammazzano i giovani, perché da loro ormai ci si aspetta il martirio e non che si punti su di loro». Commedia all’italiana purissima, tanto che vien voglia di scriverlo, un film sui film, una trilogia sul cinema più scalcagnato del mondo che poi tira sempre fuori l’asso, che sia Paola Cortellesi che conquista pure la Cina o Paolo Sorrentino che vince l’Oscar e diventa parametro di cinebellezza in tutto il mondo. «E che snobba quelli che altri mitizzano», continua il cineasta in incognito. «Ma lo sanno quelli che fanno la Settima Arte che all’estero amano, adorano, venerano Alice Rohrwacher e qui la trattiamo con sufficienza?».

Un esercente – «chiamami pure eroe, con le leggi attuali mi converrebbe prendermi denaro pubblico tra finte ristrutturazioni e aiuti risalenti alla pandemia, invece di rischiarmela con ’sti chiari di luna» – fa una considerazione geniale: «Hai presente il calcio? So’ trent’anni che la Federazione fa cazzate, che rubano, imbrogliano, tradiscono tutto e tutti. Poi vincono un mondiale nel 2006 e un Europeo nel 2021 e stiamo lì ad acclamarli come dei fessi ubriachi. Ecco, sostituisci La grande bellezza con il primo e Vermiglio col secondo, e il cinema fa lo stesso».

«All’estero adorano Alice Rohrwacher, qui la trattiamo con sufficienza»

Tutto sbagliato, tutto da rifare. Però, tornando a Carlo Verdone, viene in mente un aneddoto mitico. Lui a teatro, un solo spettatore. Lui, giovanissimo, si fa attraversare dal dubbio che sì, forse può andare a stringergli la mano, rimborsarlo e andare a piangersi addosso da qualche parte. Poi si dice che no, il teatro è anche questo. Si fa lo spettacolo anche per una persona sola, e così mentre alla cassa al convenuto lo stanno rimandando indietro, l’artista arriva e sorridendo lo prega di entrare, lo spettacolo si fa. Ecco, quell’uomo era Franco Cordelli, il critico teatrale più severo e autorevole dell’epoca. Non lo aveva riconosciuto, Carlo. Ma per sua fortuna quell’uomo, amante del teatro e degli artisti, aveva riconosciuto in lui un talento enorme. E da lì nasce la sua fortuna, il suo successo. Grazie alle parole scritte dallo studioso lo verrà a vedere pure Enzo Trapani, regista Rai tra i migliori di tutti i tempi.

Ecco, ora la critica è marginale e residuale. E chi ha il potere, i soldi o anche solo la voglia di fare cinema in giro a cercar talenti non ci va. Quello era un periodo in cui i registi Rai, per fare trasmissioni mitiche come Non stop – da cui escono Verdone, Troisi, i Giancattivi che poi terranno su gli anni ’80 del cinema, che videro la morte della commedia all’italiana ma il successo dei mattatori nati grazie all’intuito proprio di Enzo Trapani, l’allora regista di quel contenitore – si facevano chilometri per dragare teatri indipendenti e locali. Ora, come scherza Serughetti, incontri un produttore e «quello risponde al telefono mentre state parlando e dice senza vergogna a un tuo collega: “Ti prendi quest’attrice perché è amica di quel politico”. L’altro protesta e lui ammette candidamente: “Lo so, è una cagna”, ma “è la cagna del tal politico o del tal imprenditore”. E lo senti che quello ingoia amaro, dall’altra parte».

Eppure, ci sono tante occasioni per farlo. Qualche settimana fa ero in un bel locale romano. Primo Piano. Bella musica, uno di quei ristotheatre che un tempo trovavi al centro e ora sulla Tiburtina, stanze adibite a miniteatri da una dozzina di posti per gli studenti del Laboratorio d’Arti Sceniche di Max Bruno. Uno di quelli, Massimiliano, che ai Parioli ci va per dirigere il teatro omonimo fuori dalle solite logiche, non per le cene. Uno di quelli che gli snob del cinema d’autore guardano con sufficienza perché fa film commerciali – ma il 90% di quelli che lo fanno non hanno neanche mai immaginato un’opera bella come il suo Gli ultimi saranno ultimi – e che passa il suo tempo libero a coltivare il talento di giovani appassionati. A dirla tutta, anche a vincere al Fantacalcio, ma quella è un’altra storia. Ecco, voi non avete neanche idea di quanto siano bravi. E quanti tecnici, artisti, registi, interpreti di valore ci siano pure alla Scuola Volonté, o a Firenze alla Pergola, la scuola diretta da Pierfrancesco Favino (tagliata dal CdA della struttura stessa perché ora nei teatri mettono chi un palco non l’ha visto mai neanche in cartolina). E sono solo alcuni esempi di tante splendide e fertili realtà. Ignorate da quelli che decidono qualcosa.

Io c’ero, quella sera – anche perché per qualche mese ho insegnato loro Storia del cinema (ma mi hanno dato ben di più loro) – e sono ancora commosso da quei poco più che ventenni che mi hanno riempito e spezzato il cuore con il coraggio di monologhi che si erano scritti da soli. Leonesse e leoni che potrebbero fare la fortuna di tanti registi, produttori, showrunner. Se solo qualcuno li stesse a guardare.

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