C’è un nuovo prototipo di uomo da evitare: il performative male | Rolling Stone Italia
bell hooks e le altre

C’è un nuovo prototipo di uomo da evitare: il performative male

Presi in giro sui social, replicati nella vita reale. Chi sono gli uomini che leggono libri femministi per strada, e perché ci fanno storcere il naso?

Jacob Elordi

Jacob Elordi in 'Saltburn'

Foto: X

Negli ultimi mesi è comparso sui social un nuovo archetipo maschile: il performative male. Porta con sé una tote bag di qualche negozio di vinili di Brooklyn, sfoggia una copia di Tutto sull’amore di bell hooks infilata nella tasca posteriore, sorseggia un matcha con latte d’avena mentre passeggia con indosso vecchie cuffie anni Duemila a coprire le orecchie. Una sorta di evoluzione contemporanea dell’hipster, questo modello maschile è diventato bersaglio affettuoso di ironie online: accusato di usare libri femministi e hobby “progressisti” come esca sentimentale, per poi rivelarsi deludente non appena esaurisce la sua conoscenza della narrativa di tendenza.

Non stupisce che TikTok abbia trasformato il fenomeno in meme e parodia: donne che documentano i loro avvistamenti di maschi performativi intenti a leggere Joan Didion tra una serie e l’altra in palestra, uomini che imitano l’archetipo fingendo di invocare l’insegnamento della “herstory” invece che della “history”, o portando sempre con sé degli assorbenti interni “per le donne che ne hanno bisogno”. Questa figura popola soprattutto i quartieri più creativi delle metropoli globali — da Londra a New York, da Milano a Sydney. La scorsa settimana a Toronto si è addirittura svolta una “competizione di performative male”: i partecipanti, in perfetto costume, erano armati di macchine fotografiche analogiche, camicie vintage e copie consunte de Il secondo sesso di Simone de Beauvoir.

Secondo il gioco ironico che circonda questo trend, il performative male avrebbe un unico obiettivo: risultare attraente agli occhi delle donne progressiste. Per questo motivo è stato paragonato al poser: colui che finge un interesse per un genere musicale, uno stile di vita o una moda solo per integrarsi o sembrare più interessante. Un termine dispregiativo, nato nelle sottoculture giovanili degli anni Novanta, quando rap, skate e altri linguaggi di nicchia vennero risucchiati dal mercato e trasformati in tendenze cool. Ma ci sono differenze sostanziali. Le mascolinità performative del passato, come quella dei poser, erano soprattutto esibizioni per impressionare altri uomini. Il performative male del 2025, invece, sembra rivolgersi direttamente all’universo femminile: non cerca la validazione di un contesto maschile, ma l’attenzione delle donne. Alcuni lo considerano l’evoluzione del softboi, un archetipo diffuso alla fine degli anni 2010: il ragazzo “diverso dagli altri”, che ostentava profondità emotiva e gusti musicali di nicchia per distinguersi dal mainstream maschile, ossia il maschio “basic”. Ma mentre il softboi esibiva soprattutto sensibilità, il performative male è più fluido: può mostrare durezza o tenerezza, impegno politico o spiritualità.

Il maschio performativo si inserisce dentro un contesto più ampio: quello della cosiddetta “crisi della mascolinità”, o, per meglio dire, crisi dei modelli tradizionali di mascolinità. Negli Stati Uniti, nel 2023, quasi la metà degli uomini dichiarava di sentirsi minacciata nella propria identità maschile, una sensazione frutto di anni di propaganda anti-femminista. Ma cosa significhi oggi “mascolinità” è tutt’altro che chiaro: ideali diversi, spesso in contrasto tra loro, cercano di imporsi. Con il progressivo sgretolarsi dei ruoli di genere tradizionali, molti uomini sono alla ricerca di nuovi modelli da incarnare. In quest’ottica, anche il bisogno di validazione da parte del contesto femminile può essere letto come un tentativo di ridefinirsi. Mentre la manosphere diffonde un ritorno aggressivo a forme esplicite di mascolinità tossica, c’è chi prova a segnare pubblicamente le proprie distanze, presentandosi come aperto, consapevole, persino femminista. È in questa tensione che nasce l’archetipo del maschio performativo: la sua immagine progressista diventa essa stessa un linguaggio estetico, uno stile da mettere in scena. Il problema è che, agli occhi di molte donne, questa rappresentazione appare meno come una reale trasformazione e più come una strategia di seduzione mascherata.

Come sottolinea James Factora, giornalista della rivista Them, ciò che probabilmente mette in cattiva luce il performative male è innanzitutto l’aggettivo performative. Nel filone del femminismo contemporaneo e della teoria queer – come teorizzato, per esempio, da Gender Trouble di Judith Butler – il genere è di per sé performativo: costituito da atti ripetuti all’interno di una cornice normativa estremamente rigida che, con il tempo, si solidificano fino a produrre l’apparenza di una natura intrinseca. In altre parole, l’identità di genere non è una verità stabile, bensì il risultato della reiterazione di pratiche e norme. Nel linguaggio dei social media, però, performativo assume un significato diverso, più vicino a un ostentato e malriposto sfoggio di virtù. Secondo Factora, dunque, la cultura dei meme rischia di riprodurre un’idea normativa della mascolinità, mettendo alla berlina uomini che provano, pur faticosamente, a metterla in discussione.

Su posizioni simili si colloca anche la giornalista Syeda Khaula Saad, che sull’HuffPost osserva come l’ironia di molte donne verso questo modello maschile sia un sentimento di autodifesa comprensibile, ma rischi di consolidare come unico accettabile un modello di mascolinità virile, tossico e malsano. «Siamo davvero così rigide guardiane dei ruoli di genere da arrivare a pensare che l’unico motivo per cui un uomo etero possa apprezzare lo smalto per unghie o i testi di bell hooks sia la sua duplicità?», si chiede. Saad aggiunge, infine, che questo meme rischia di svilire anche l’universo femminile, dipingendolo come talmente ingenuo da lasciarsi ingannare da una maglietta con scritto Respect Women e una palette di colori neutri, mettendo in discussione la capacità delle donne di distinguere una red flag da un uomo con una semplice tessera della biblioteca.

Oltre il meme c’è, dunque, molto di più. Sui social i content creator ironizzano su questo archetipo, inscenando il ruolo del performative male per un pubblico consapevole. Ma gli uomini che partecipano ai contest per maschi performativi hanno davvero quei tagli di capelli, ascoltano davvero quella musica in cuffia, portano davvero un Labubu appeso alla tote bag. Come racconta Eugene Healey al Guardian: «Nel tentativo di anticipare eventuali critiche alla propria reputazione, finiscono per mostrare di essere al di sopra di tutto ciò. Ma la consapevolezza non libera dalla performance: aggiunge solo un altro strato. Come dice il filosofo Slavoj Žižek: “Anche se non prendiamo le cose sul serio, anche se manteniamo una distanza ironica, le stiamo comunque facendo”».

Il performative male rivela, in realtà, qualcosa di più profondo: quanto sia lungo e complesso il processo di decostruzione della mascolinità, quando persino la lotta al machismo tossico rischia di trasformarsi in estetica, poi in moda, e infine in meme.

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