Nuovo Cinema Indie: Nicolangelo Gelormini e Viola Prestieri | Rolling Stone Italia
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Nuovo Cinema Indie: Nicolangelo Gelormini e Viola Prestieri

Il cinema, soprattutto quello indipendente, è anche una questione di spazi e architettura. Ne abbiamo parlato con una coppia regista-produttore presente a Venezia nelle Giornate degli Autori con il loro nuovo film, 'La gioia'

Nicolangelo Gelormini e Viola Prestieri

Nicolangelo Gelormini (a sinistra) e Viola Prestieri (a destra)

Foto: Gioele Vettraino per Saccage Agency

Il cinema è (anche) questione di architettura. Parola di Nicolangelo Gelormini, che usa la figura come suggestione retorica ma anche qualcosa di più, dato che lui in Architettura si è pure laureato. Incontriamo il regista napoletano, classe ’78, insieme a Viola Prestieri, che con lui ha lavorato al suo secondo lungometraggio narrativo, La gioia (con la società di produzione HT Film). Sarà presentato alle Giornate degli Autori di Venezia, uscirà nel 2026.

È il primo lungometraggio su cui collaborano lui e Prestieri. Il suo esordio, Fortuna (2020), sempre prodotto à la indie, non li aveva fatti incontrare. Si conoscevano, però, da tempo. Galeotto fu un set, ma si guardano ed è meglio non rivelare il chi, il cosa, il come. «A dir la verità, Viola aveva prodotto il mio primissimo cortometraggio». Il riincontro avviene attraverso la serie L’arte della gioia (ma qui c’entravano sia Sky che HT Film, non si parlava strettamente di indie), dove Gelormini viene chiamato da Valeria Golino e Prestieri a dirigere un episodio. Golino diventa un fil rouge tra i due, almeno all’inizio. Ora, dicono scherzando, hanno le dinamiche artistiche di una coppia sposata.

«Ogni tanto si litiga», dice Prestieri, «è diverso e a volte peggio se si è amici. E naturalmente io preferisco lavorare con persone che mi sono amiche». Risponde Gelormini: «Bisogna stabilire delle regole, come in qualsiasi “coppia”. Io, per esempio, sono quello che a Napoli si chiama frettello. Se l’altro non lo è, bisogna allinearsi sul piano umano». Mica scontato. Soprattutto nel cinema indipendente, ottimi risultati derivano spesso da ottime collaborazioni tra regista e produttore, che invece spesso, nelle grandi produzioni, hanno pochi contatti. «Fare film indie lo vedo come muoversi in un monolocale, bilocale se ti va bene. Lo puoi riempire e ci vorresti mettere tutto, invece si impara – almeno, io ho imparato – che è importante lasciare dei vuoti. Non è semplicissimo fare il salto, arrivare alla grande produzione senza essere spaesati, da regista». Aggiunge Prestieri, «come non è facile dal punto di vista della produzione. Quando ti abitui a una casa grande, poi tornare a lavorare su progetti con un budget di, mettiamo, 2 milioni di euro è straniante, ti chiedi come ce la facevi, un tempo. Però lo spirito è anche quello: far di necessità virtù».

Un “bell’appartamentino” a Parigi, insomma, leggasi “nono piano senza ascensore, venti metri quadri”. Eppure, proprio come dai tetti della città dai cieli grigi, l’ispirazione si trova anche negli interstizi. «Che cosa significa essere indie per un regista? Be’, un vantaggio e uno svantaggio», continua Gelormini. «Puoi conservare la tua autenticità, pagando lo scotto di tempi più compressi per girare e mezzi economici ridotti. Ma a volte questo diventa un punto a favore: sei costretto a far emergere l’urgenza di quello che vuoi raccontare, a circoscrivere il tuo campo di azione e di ispirazione. Impari a portare avanti quello che ha davvero un senso, per te e per il pubblico. Questo è importantissimo, essere indie non vuol dire fare film solo per sé stessi».

Rispetto a Fortuna, La gioia a Gelormini pare già un trilocale: ispirato a un fatto di cronaca, il film narra dell’amore tra un’insegnante di francese «che non l’ha mai conosciuto» (Valeria Golino) e un giovane che invece lo sperimenta fin troppo bene (Saul Nanni), ma attraverso la lente della prestazione sessuale a pagamento, vendendo il suo corpo. «Abbiamo avuto più mezzi, quasi il doppio dei giorni di set rispetto a Fortuna, e lo trovo un ottimo esempio di quello che, per me, può essere un cinema indie virtuoso. Non ho dovuto scegliere tra la fattibilità e la visione artistica. È un film che parla a ogni livello: della trama, del tema, cioè di come dovremmo tornare a trattare il sentimento come centrale nelle nostre relazioni; e poi del cast, dove c’è anche Jasmine Trinca: gli attori hanno avuto la possibilità di sfidarsi con personaggi a tutto tondo. È un film che potremmo definire anche pensato per il pubblico. Ma questo non vuol dire che la mia visione registica sia stata tradita».

È un nodo importante, quando si parla di indipendenza e del rapporto del cinema indie con i festival. «Da produttrice ti dico che, certo, ogni regista vorrà sempre cercare di portare il proprio film a un festival, tanto più se prestigioso», confessa Prestieri. «Ma anche dal punto di vista della produzione e della distribuzione può essere un vantaggio, soprattutto se poi si vincono premi importanti come nel caso di Vermiglio di Maura Delpero. Il riconoscimento a Venezia lo ha fatto svoltare in termini di pubblico e incasso, e alla fine è questo lo scopo di ogni film e ogni regista, no? Arrivare a quante più persone possibile».

Gelormini non è d’accordo, ma d’accordissimo. Prestieri continua. «Poi devo dire che a volte non concordo con i discorsi che si fanno a proposito dei festival e dei film che ci vanno. Ci si lambicca se un prodotto sia da festival o da grande pubblico, ma non ci trovo una dicotomia. Il cinema è arte ma nei fatti concreti è anche, appunto, un prodotto, di qualsiasi tipo si tratti». Ecco, l’arte: alle categorie indie di ogni ambito viene, a torto o a ragione, o forse ormai come automatismo culturale, appioppata l’etichetta di salvatori dei rispettivi ambiti. Verità, mito, mistificazione? «Non è che l’indie deve salvare l’arte», ragiona Gelormini, «ma di sicuro permette di avere un filtro prima umano che produttivo sulle storie che si raccontano, ed è dunque capace, io credo, di ragionare sul presente in modo più complesso. In questo senso, certo, può essere una guida. Anzi: è una matrice, perché è dal suo punto di vista che si può ancora scovare il non detto, quello che esiste in latenza e che non è ancora stato raccontato».

Prestieri è ancora più netta. «Se non ci fossero esordi prodotti in modo indipendente, non ci sarebbero registi per il mainstream. Quindi il cinema mainstream non potrebbe esistere senza l’indie. Io sono pure felice di poter lavorare diciamo su due, tre film all’anno e non su sette. Dopo si entra nella cultura del numero e del risultato, ci si sente come i criceti sulla ruota». Pensa un attimo. Poi riprende. «Si potrebbe dire che l’indie italiano esiste o resiste per la filmografia che lo precede, pensiamo per esempio che solo in Francia sono messi molto meglio di noi, però a guardare meglio non è proprio così. Ci siamo, nei festival soprattutto. In Italia si fanno ottimi film, è un dato di fatto».

«Già», si unisce Gelormini, «la nostra cinematografia è viva, fa i conti con la sua storia ma anche con il presente. Stiamo continuando a scriverla». «E per le robe assurde che stanno succedendo, mi viene solo da pensare», conclude Prestieri, «a come abbiamo prodotto La gioia: grazie a Vision come partner di distribuzione, con i contributi selettivi che si basano sulla qualità delle proposte e sono valutati da una commissione, con bandi della Regione Piemonte, e con il tax credit. Togliere il tax credit non vuol dire fare meritocrazia, ma eliminare una leva industriale a favore di tutto il comparto e dell’economia generale. È giusto fare controlli, ma è diverso mistificare la realtà». Ed è doveroso non farlo. Per continuare a esserci.