Brad Mehldau: in memoria di Elliott Smith, senza nostalgia | Rolling Stone Italia
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Brad Mehldau: in memoria di Elliott Smith, senza nostalgia

Intervista al più celebrato dei pianisti jazz contemporanei. Il nuovo ‘Ride into the Sun’ dedicato al cantautore di ‘Either/or’, gli inizi al Largo, le droghe pesanti e la fuga da New York, la musica ieri e oggi, la politica

Brad Mehldau: in memoria di Elliott Smith, senza nostalgia

Brad Mehldau

Foto: Yoshika Horita

Gli ingredienti sono chiari, semplici e al tempo stesso strani e sorprendenti: prendete il pianista jazz più celebrato e rispettato dai tempi di Keith Jarrett, ovvero Brad Mehldau, e fategli fare un disco dedicato ad Elliott Smith e al suo pop storto, crepuscolare, irregolare (più anche un cenno e un inchino a Nick Drake). Mondi apparentemente distanti, quelli contenuti nell’album che uscirà venerdì Ride into the Sun, ma nella lunga conversazione che abbiamo avuto col pianista americano tantissimi fili si riannodano: non solo quelli più facili e immediati, che partono dalle session al club losangelino Largo, dove a un certo punto della sua vita e della sua carriera Mehldau si ritrovò a suonare accompagnando proprio Smith (e che fecero da scintilla ispirazionale, sotto la benedizione della produzione di Jon Brion, per l’album omonimo Largo, anno 2002 quello dove Mehldau si apre al rock e al pop, vedi la clamorosa reinterpretazione di Paranoid Android dei Radiohead), ma anche per ragioni personali, complesse.

Parliamo di questo, ma parliamo anche degli anni ’90, del grunge e di Beck, così come dei precedenti anni ’80 e di Reagan, e delle colpe e dei limiti della generazione X: con partecipazione, con lucidità analitica, ma senza nostalgia. Quando parla Brad Mehldau è come quando suona, è come il suo jazz: elegantissimo, sensibile, mentalmente aperto, apparentemente delicato, in realtà pronto a tuffarsi nell’autoanalisi e nell’autocritica, nella decostruzione senza sconti.

Allora, vorrei partire dalle serate al Largo di 20 e passa anni fa: che poi è anche quando hai incontrato Elliott Smith di persona e avete pure condiviso il palco, nelle session che si facevano lì settimanalmente promosse da Jon Brion. C’eravate voi, ma c’erano nei vari appuntamenti anche artisti come Fiona Apple, Rufus Wainwright… Ecco, se guardo a questo elenco, tolti te e Jon vedo artisti che hanno avuto un rapporto piuttosto complicato e accidentato con l’industria discografica. Semplice casualità?
Uh, in effetti è un po’ vero… Ecco, di sicuro non erano persone che si tenevano i propri pensieri per sé. Non si facevano effettivamente problemi a prendere posizioni forti, anche non semplici, nei confronti dell’industria. Ma sai cosa? Onestamente, sarà che magari vedo tutto con la prospettive dei giorni nostri, del 2025, ma se guardo a quell’epoca all’industria discografica, beh, finivi coll’esserle grato per il solo fatto che c’era. Nel senso: se avevi un’etichetta, e pure una persona non facile come Elliott ce l’aveva…

Dreamworks, all’epoca, quindi manco piccola…
Esatto… Insomma, se avevi un’etichetta succedeva che di regola arrivava qualcuno da te e ti diceva «Bene, vuoi fare un disco? Perfetto, eccoti un po’ di soldi per farlo!», una cosa che oggi è semplicemente inimmaginabile. Così come è inimmaginabile oggi, e invece al tempo accadeva, che tu potessi dire «E poi oltre a farlo, vorrei farlo con questa persona qui in questo e quest’altro brano, però la pagate voi, pazienza se costa», e funzionava. Credo che per XO Elliott Smith abbia fatto così con Joey Waronker, ad esempio, anche se potrei sbagliarmi… Però sì: le dinamiche più o meno erano queste. Oggi sono molto meno ripetibili.

Io allora ti tiro fuori un’altra differenza tra oggi e allora: oggi gli artisti anche un minimo importanti sono accuditi più che dalle etichette dai loro management personali, e molto più di prima. Accuditi in realtà è abbastanza un eufemismo. Sono marcati molto stretti. Per dire: oggi non permetterebbero ai loro assistiti di fare delle date in posti piccoli come il Largo. Come facevi invece tu.
Eh, vero, immagino. Penso sia così.

Perché è vero che quelle session settimanali al Largo sono una faccenda di vent’anni fa, ma tu eri già molto conosciuto. Molto, molto conosciuto. Eri già considerato uno dei pianisti jazz più talentuosi della tua generazione…
Beh, grazie…

Ed è pure troppo poco definirti così. Gli anni a New York ti avevano trasformato in uno dei nomi di punta della nuova generazione. Eppure, avevi la libertà di fare quello che ti pareva: anche di suonare in un posto piccolo di Los Angeles in una serie di piccoli eventi settimanali.
Devo comunque ringraziare la mia etichetta, la Warner, perché quando dissi loro «Ehi, mi piacerebbe fare qualcosa con Jon Brion, che ne pensate?», sono stati entusiasti fin dall’inizio, dandomi tutto l’appoggio e la libertà del caso, intravedendo il fatto che una collaborazione di questo tipo avrebbe potuto aprirmi a un pubblico ancora più vasto. Il fatto che ci fosse questo appoggio portò al fatto che nessuno ebbe niente da ridire quando Jon mi coinvolse nelle sue session settimanali al Largo.

Brad Mehldau - Southern Belle feat. Daniel Rossen (Official Video)

Ecco, fammi stare un attimo sul tuo incontro con Brion, al tuo averlo come produttore: non avevi paura che potesse comunque essere non facile? Tu eri già un artista fatto e finito, con un profilo molto forte, un seguito ben definito, e andare a lavorare con uno come lui avrebbe potuto portarti – come in effetti in parte è successo – fuori dai perimetri del jazz tradizionale, che era in qualche modo casa tua, e lo è ancora adesso.
Non è stato sempre facile, in effetti. Soprattutto all’inizio. Paradossalmente, uno dei problemi era proprio l’attitudine, come dire, jazz che Jon aveva alla produzione: con lui non capivi mai dove si sarebbe potuti andare a finire, improvvisava sul momento, era proprio una sua scelta deliberata… E poi, altro problema: lui era abituato ai budget delle produzioni pop e rock, dove puoi avere settimane e settimane per lavorare a un disco.

Già. Arriva da lì, così come dal mondo delle colonne sonore per il cinema, colonne sonore anche di livello.
Spesso passavamo anche cinque ore per definire il suono di un singolo rullante, e per me questo era… strano. Non ero certo abituato, diciamo. I dischi jazz hanno mediamente un budget che ti obbliga a finire tutto in pochissimi giorni. Ma ho imparato tantissimo, in questo modo. Ho scoperto cose che non avrei mai scoperto di mio. E molte di queste cose le ritrovi anche ora in Ride into the Sun. Un disco in cui un ruolo molto importante lo ha John Davis, con cui collaboro da quasi un decennio, e non solo per le parti di contrabbasso che ha suonato, ha proprio curato il mixaggio e in generale la direzione musicale: con lui abbiamo parlato tantissimo di come impostare questo progetto, e una delle prime cose su cui ci siamo trovati d’accordo era quanto fosse bello che era venuto fuori dalla mia collaborazione con Jon Brion, per quanto riguarda la produzione: non è che ora volessimo copiarla, ma era bello ed utile per entrambi avere un punto di riferimento così alto di cui tenere conto.

A questo punto mi viene da chiederti: quanto tasso di nostalgia c’è dietro alla creazione di Ride into the Sun? Perché ruota attorno alla figura di Elliott Smith, che non c’è più, e alle session che facevi sotto la guida di Jon Brion a Los Angeles, che sono session di vent’anni fa, e sono quelle che in qualche modo hanno portato al tuo album omonimo, Largo, che è del 2002. Le cito perché è in quelle session che sei entrato in contatto con Elliott Smith…
È molto interessante questa domanda: anche perché nelle interviste che ho avuto finora nessuno aveva collegato in maniera così diretta le cose, e nessuno mi aveva chiesto se ci fosse anche un senso di nostalgia personale dietro alla scelta di dare vita a questo progetto. Io credo che la risposta stia nelle orecchie e nei pensieri di chi ascolta: chi mi conosce e segue ancora da quegli anni probabilmente collega tutto, perché in effetti il collegamento c’è, e c’è probabilmente anche un filo di nostalgia nell’aver da parte mia voluto tirare tutto fuori oggi, a più di vent’anni di distanza… Ma molti invece arriveranno a Ride into the Sun senza conoscere Largo, senza sapere bene la storia delle session con Elliott, e magari semplicemente scopriranno una musica che gli piace. Se questo lavoro serve a ridare vita a canzoni che trovo veramente belle e magari dare pure loro un pubblico nuovo, io non posso che essere contento. Sarebbe un gran risultato.

Sei uno che si riascolta molto?
Sia sì che no. Al momento di terminare la lavorazione di un album ascolto e riascolto il mio materiale mille volte, in particolar modo in sede di mix e mastering. Ma dopo me ne devo staccare per un po’. Ne ho bisogno, sai? Poi magari ci torno sopra a distanza di tempo, mesi o anche anni più tardi, tipo quando sono in tour.

Foto: Yoshika Horita

Della tua lunghissima discografia, c’è qualche album a cui sei particolarmente affezionato?
Uh…

È una domanda difficile, lo so.
Già. Forse dare una risposta è impossibile. Anche perché se guardi la mia discografia ci sono i dischi acustici, ci sono quelli in trio, ci sono quelli in solo, ma ci sono anche quelli più elettrici, ci sono quelli addirittura dove uso i synth: bisognerebbe forse analizzare una per una queste categorie, e scegliere il più importante in ciascuna di esse. Ma anche lì sarei in difficoltà.

Largo però penso sia stato oggettivamente molto importante per la tua carriera. Come aveva intuito la Warner, ha veramente portato il tuo profilo verso mondi molto più ampi, senza peraltro farti perdere credibilità in campo jazz, anzi.
Sì.

Mentre ci stavi lavorando, sapevi che sarebbe stato così cruciale nel tuo percorso?
Forse sì. Tra la traccia iniziale, When It Rains, e un altro paio diciamo che sì, avevo la percezione che forse stavolta sarei riuscito ad incrociare l’attenzione di molte più persone rispetto a prima… C’era un qualcosa di, come dire, universale. Non che fosse intenzionale, attenzione: non è stata in alcun modo una cosa pensata a tavolino. Semplicemente, è successo, stava succedendo… Vedi, mettersi davanti al pianoforte e pensare «Ora faccio qualcosa che piacerà a molte persone, ora faccio qualcosa che funziona» è il modo più sbagliato per lavorare. No, aspetta, fammi chiarire: è il modo più sbagliato per me. Per altri, penso invece sia il fulcro del proprio modo di lavorare, e lo accetto. C’è tutta una schiera di autori che sono molto richiesti perché sono in grado fin dall’inizio di creare qualcosa che abbia successo, che tocchi tante persone. Oggi poi ci si è messa pure la tecnologia, con gli algoritmi che ti sanno dire quali sono le successioni armoniche che funzionano di più. Benissimo, eh, ma tutto questo non fa per me. Non sarei mai in grado di lavorare così, di farlo in modo sistematico. Non fa per me, non sarei adatto. Ma anche a uno come me, refrattario a certe dinamiche, capita ogni tanto di lavorarare a un progetto o anche a una singola traccia e di rendersi conto, quasi subito, «Ehi, questa cosa in effetti potrebbe piacere a più gente del solito».

Sai qual è la cosa divertente? Se andiamo indietro nella storia della musica, c’è stato un momento in cui gli hitmaker, perché è di loro che stiamo parlando, erano proprio quelli che si dedicavano al jazz: era dal jazz che arrivavano i grandi successi popolari, a un certo punto della storia del Novecento, ed era lì che si concentravano quelli in grado di far funzionare le cose. Oggi invece è inimmaginabile che il jazz possa sfornare una hit da classifica, una hit radiofonica.
Ottima osservazione, assolutamente corretta. Credo che l’era del be bop sia quella che ha segnato una frattura: quando cioè il jazz ha deciso di essere molto meno popolare e molto più intellettuale. Però negli ultimi anni ho l’impressione che alcuni musicisti jazz della nuova generazione vogliano tornare a percorrere la strada di una maggiore popolarità.

E fanno bene?
Chi lo sa.

Sei diplomatico.
Guarda, tornando al discorso di prima: sono sempre un po’ scettico quando si crea musica portandosi dietro l’idea prioritaria di voler fare qualcosa che funzioni, qualcosa che possa essere popolare, più popolare della media, ed inneschi un certo tipo di meccanismi. Se questo è il primo obiettivo che hai in testa, non so. Non so onestamente se si sta facendo la cosa giusta, ecco. Guarda, ho appena finito di leggere un libro del regista russo Tarkovskij, e a un certo punto affrontava proprio questo punto: parlando di sé e della propria arte, spiegava di come da un lato voleva essere il più onesto e autentico nei confronti di se stesso, rendendo ciò la priorità assoluta, e però contemporaneamente il desiderio era quello di lanciare messaggi universali, che toccassero tutti, che fossero comprensibili da tutti. Cos’è questo, se non un paradosso? O addirittura una contraddizione in sé? In effetti credo di aver messo anche io sempre prima di tutto la voglia di essere me stesso, di esprimermi con la mia voce, senza mediazioni, senza compromessi. Questo non significa che io sia più bravo di altri o più profondo di altri, avendo fatto questa scelta di campo: semplicemente significa che ogni mio sforzo è stato quello di essere coerente con la mia visione. Se poi il risultato di questa coerenza ogni tanto assume connotati più popolari, più universali, fantastico; ma se non succede, pazienza. L’importante è aver sempre cercato di essere onesti con se stessi. A ciascuno il suo.

E ci sei sempre riuscito? O ci sono stati dei momenti in cui ti sei ritrovato a fare dei compromessi, magari rendendotene conto solo in un secondo momento?
Beh, da giovane ho fatto tanti di quei compromessi… Lo sai che una sera mi trovai a suonare la musica dei Village People, a fare i cori di YMCA? (Canticchia il ritornello, nda).

No vabbé, che meraviglia.
Ne ho fatte parecchie, di serate così… Ma ero giovane. Inizialmente avevo preso un lavoro come piano bar in una pizzeria, mi pagavano 6 dollari all’ora, una cosa deprimente. Poi però hanno iniziato a chiamarmi come tastierista alle band per matrimoni. Ed è stata una svolta.

Ah sì?
Beh: passavo da 6 dollari all’ora a 75 tutti in una notte, e per giunta non ero a solo a suonare in un posto in cui non mi si filava nessuno ma mi ritrovavo in queste band composte da musicisti navigatissimi, tutti quarantenni e passa, che un po’ suonavano, un po’ si davano alla pazza gioia nei camerini, non so se mi spiego… Quindi: non solo prendevo molti più soldi, ma improvvisamente ero anche obbligato a divertirmi! Un paradiso!

In effetti…
Insomma, capisci che certe cose sembrano dei compromessi solo a posteriori. In quel momento della mia vita ritrovarmi a suonare e cantare YMCA di fronte a un pubblico ubriaco e in festa mi sembrava la cosa più integra e nobile che potessi fare. Ed era in effetti così.

Brad Mehldau Performs Elliott Smith's "Tomorrow Tomorrow" feat. Daniel Rossen (Official Video)

Poi però è arrivata New York, gli studi alla New School, l’ingresso nei giri jazz che contano…
In effetti se ripenso al primo periodo a New York la sensazione che ricordo di più è: l’intimidazione. Improvvisamente, artisti che avevo solo ascoltato su disco erano lì, di fronte a me, mi insegnavano cose, suonavano per me, anzi, ad un certo punto pure suonavano con me…

Fred Hersch, ad esempio.
Già. E poi andavi a sentire i concerti nei club in città e incrociavi leggende viventi come Art Blakey, vedevi all’opera al piano musicisti come Tommy Flanagan, Kenny Barron, Cedar Walton… Ci credi che mi emoziono ancora adesso a ripensarci? Fino a cinque minuti prima, quei nomi per me erano qualcosa che potevo solo ascoltare, e leggere nei credits delle copertine dei dischi: all’improvviso erano di fronte a me. In carne ed ossa. Potevo ascoltarli. Potevo, volendo, parlarci. Chiaro che fossi intimidito da tutto questo, che ne avessi soggezione. Ma era una soggezione, fammi dire, positiva. Ha fatto da pungolo, non il contrario.

Quand’è che hai iniziato a pensare «Beh, forse in mezzo a tutto questo talento un piccolo posto ce lo posso avere davvero anche io»?
Non c’è voluto molto tempo. A New York le cose accadevano veloci, in quegli anni. Ben presto altri musicisti hanno iniziato a chiamarmi, nelle loro formazioni. Tempo un paio d’anni, è arrivata la chiamata di Joshua Redman: ecco, lì penso di aver avvertito un tangibile salto di qualità, di percezione nei miei confronti. In effetti quell’organico lì ha attratto molta attenzione da parte del pubblico specializzato e degli addetti al settore. E quell’attenzione mi ha fatto pensare: »Ok, forse non saremo dei giganti del jazz, delle leggenda, però forse qualcosa da dire effettivamente ce l’abbiamo».

Rovescio la domanda: successivamente ti è mai capitato di pensare che pubblico e addetti al settore ti stessero sopravvalutando? Sei uno dei musicisti jazz più lodati e celebrati degli ultimi decenni.
(Lunga pausa, nda) Questa è davvero un’ottima domanda. Allora… (altra pausa, nda) Ecco, diciamo così: io cerco di non dare troppa attenzione a quello che la gente dice di me, però al tempo stesso non voglio mancare di rispetto a chi mi ascolta, il giudizio di chi mi ascolta è qualcosa a cui tengo molto. Quindi è difficile capire fino a che punto devi sbilanciarti nello scegliere a chi e a cosa dare attenzione, molto difficile. Una cosa è sicura: io sono molto critico verso me stesso.

Ancora oggi?
Sì, ancora oggi.

Ma non dovresti più, onestamente. Intendo: è talmente tangibile quanto sia importante il segno che hai lasciato e stai lasciando…
Restare profondamente autocritici verso se stessi è molto importante, sai? Perché io ho il terrore di iniziare a ripetermi, di diventare il luogo comune di me stesso: e il modo migliore per evitare questa trappola è mettersi continuamente in dubbio, anche quando sembra che le cose stiano funzionando molto bene. Ci sono molti artisti che amo che però sono un po’ più vecchi di me e… sinceramente…. vedo che ormai hanno preso a ripetere se stessi. Non dico che facciano brutta musica, per carità; ma evidentemente non sono più in grado – o semplicemente non gli interessa – di fare qualcosa di nuovo, qualcosa che li sfidi, che li porti lì dove non sono mai stati prima. Io non voglio arrivare a questo.

In effetti tu avresti potuto sfornare album in trio all’infinito, perché è in trio che sei diventato l’astro nascente per eccellenza del jazz, e invece…
Ecco, sì.

Elliott Smith nel ritratto via Kill Rock Stars

Elliott Smith. Foto: Kill Rock Stars

Anche incentrare un disco su Elliott Smith non è una mossa fatta per compiacere i puristi del jazz, ovvero del tuo campo musicale d’elezione. Però appunto, e qui torniamo alle session a Largo, lì a Los Angeles: tu Elliott Smith l’hai conosciuto, ci hai pure suonato assieme. Senti, che tipo era? Che impressione ti faceva? Anche lui ossessionato dall’autocritica?
La cosa divertente è che la prima volta che ho sentito della sua musica è stato non su disco, ma proprio vedendolo suonare dal vivo. Successe appunto al Largo: dove andavo, anche come semplice spettatore, non solo per suonarci, e manco mi informavo bene su cosa ci sarebbe stato, ci andavo a basta. Di Smith non conoscevo nulla. Lo vidi salire sul palco, assieme a Jon Brion e mi colpì subito. Perché era chiaramente una persona tutta chiusa nel suo mondo, impermeabile all’esterno. Me lo ricordo ancora come fosse oggi. Verrebbe da dire che sembrava una persona incredibilmente timida, ma timido non è probabilmente l’aggettivo corretto. Forse sarebbe più opportuno usare una espressione che di solito usano gli inglesi: era a disagio nella sua stessa pelle.

Rende l’idea.
Ho pensato subito: «Accidenti, questa persona non è felice. Non è felice per niente». E subito dopo: «Wow. Non deve essere facile per niente vivere così». Da lì è successo che siamo finiti anche assieme sul palco, ho suonato per lui più volte, ma non posso dire che abbiamo sviluppato un’amicizia vera e propria, che siamo arrivati a conoscerci bene. A questo punto devo però spiegare che io a Los Angeles mi ero trasferito dopo un lungo periodo newyorkese, un periodo contrassegnato a un certo punto dalla tossicodipendenza; e sì, Los Angeles mi era proprio servita per disintossicarmi. Non era solo questione di trovare nuovi stimoli musicali, il cambio di città: no, c’era una motivazione personale non facile e non leggera dietro a questo trasferimento. A Los Angeles sono riuscito a ripulirmi dalle droghe pesanti. Ecco perché quando ho visto salire Elliott Smith sul palco ho pensato subito «Ahia, so cosa sta succedendo…». Conoscevo la situazione. Ne ero appena uscito. E conoscendola, sapevo bene che non c’era in realtà molto da fare: da certi stati e da certe dipendenze esci solo se ne vuoi uscire tu, non esiste aiuto esterno che possa veramente fare qualcosa. Anche perché quando questo aiuto arriva, da parte di persone armate anche delle migliori intenzioni, di solito il tuo primo pensiero è che no, non vuoi essere aiutato, punto.

Come mai hai lasciato Los Angeles dopo pochi anni, visto che è stata così importante e direi anche così benefica dal punto di vista personale?
Oh, molto semplicemente perché ho conosciuto la donna che è diventata poi mia moglie. Il problema era che lei era olandese. Dall’Olanda a Los Angeles era un po’ lunga, ecco… E a un certo punto ci siamo detti «Beh, cerchiamo di trovarci almeno a metà strada». E così sono tornato a New York, dopo cinque anni ad L.A.

Ha funzionato, direi.
Ha funzionato perfettamente. Però Los Angeles, lo ammetto, un po’ mi manca. Sì.

Quanto è profonda oggi la differenza tra Europa e Stati Uniti? Sei un osservatore privilegiato sulla questione, non posso non chiedertelo.
Musicalmente parlando, credo sia molto ma molto più limitata rispetto al passato. Un tempo sentivi molta differenza tra il jazz fatto in Europa e quello fatto invece negli Stati Uniti; oggi gli interscambi culturali sono così continui, facili e veloci che questa differenza si è quasi annullata. Non del tutto, forse, ma quasi. Il jazz è diventato una musica internazionale molto più che americana, oggi.

E dal punto di vista invece politico, sociale?
Sai che pure lì mi sembra che la differenza si sia molto ridotta?

Dici?
Ma sì. Pensaci: sia in Europa che in America sempre più salgono al potere questi populisti con, ehm, tagli di capelli piuttosto discutibili… Se in America c’è Trump, in Olanda c’è Wilders. Capisci? Poi chiaro, di Trump si parla molto di più, ma questo perché l’America resta la nazione con più potenza e influenza dal punto di vista economico, inevitabile che tutto quella che la riguardi abbia maggior eco. Ancora oggi la moneta più diffusa al mondo per le transazioni economiche è il dollaro. Ma fra dieci anni non escludo per nulla che dovremmo occuparci di Cina molto più che di America: e lì vedremo come sarà. Che tipo di persone al potere avremo. Ma al momento, ciò che vedo succedere in America lo vedo succedere anche in molte parti d’Europa.

Io trovo tra le altre cose che Trump, ma lo rivendica ogni tanto lui stesso, sia una sorta di revamping dell’America reaganiana degli anni ’80, quella forte, potente, ottimista. Tu negli anni ’80 eri un teenager: che ricordi hai di quegli anni, da ragazzino americano medio?
Una differenza fra Reagan e Trump c’è, ed è che quest’ultimo aggiunge troppo spesso una colorazione razzista alle sue parole, alle sue prese di posizione. Trump non sta parlando a tutti: no, sta parlando alla sua gente, solo a quella. Sta parlando solo a un certo tipo di elettorato bianco. Il resto lo disprezza. Con Reagan non era così. Ma onestamente se ripenso a Reagan, ripenso proprio al fatto che è stato proprio lui il primo a darmi un minimo di coscienza politica: perché lo vedevo in televisione, lo sentivo parlare e mi sembrava semplicemente un buffone. Ora, non voglio insultare quello che è stato un Presidente degli Stati Uniti d’America, quindi della mia nazione, ma…

Beh, buffone è quasi diplomatica, come definizione. C’è chi dice di peggio.
Di sicuro è stato lui a svegliare la mia coscienza politica, ecco. A farmi capire che certe cose mi stavano bene e altre no. In particolar modo mi ricordo ancora oggi di come stroncò uno sciopero, mancando completamente di rispetto ai lavoratori, «Ora tornate a lavorare, pezzenti», una cosa così: no, non mi stava bene in questo modo. È grazie a Reagan che ho iniziato a maturare la mia coscienza politica e, diciamo, ho capito immediatamente che andava in una direzione opposta alla sua.

Brad Mehldau Performs Elliott Smith's "Better Be Quiet Now" (Official Video)

Però dopo gli anni ’80 sono arrivati gli anni ’90. E dall’edonismo reaganiano infarcito di yuppismo si è passati (anche) all’elogio dei losers, musicalmente c’è stata l’esplosione imprevista e imprevedibile del grunge, dei suoi antieroi, in perfetta antitesi rispetto al decennio precedente. La narrazione è diventata insomma più complessa e aperta alle diversità…
Già, Beck ci ha pure fatto una canzone sopra, sui losers

Esattamente. Ecco, se dopo gli anni ’80 di Reagan sono arrivati gli anni ’90, vuol dire magari che dopo Trump potrebbe arrivare qualcosa di più interessante, di più umano. Come la vedi?
Io ti posso dire una cosa: ho tre figli, hanno 17, 20 e 23 anni, e quando da adolescenti hanno scoperto la musica degli anni ’90 sono arrivati da me e mi hanno detto «Ehi papà! Ma lo sai che questi anni ’90 erano veramente ma veramente fighi?». Al che ho pensato di come noi, negli anni ’90, ci sentivamo invece tutto tranne che fighi. Al contrario: ci sentivamo, noi musicisti, in totale debito d’ispirazione e di forza. Ci sembrava che per dire qualcosa che ci sembrasse rilevante quasi sempre dovevamo prendere spunto da quello che era successo negli anni ’70 e ’60, se non addirittura nei decenni precedenti. E tutto questo, onestamente, ci pesava. Ora, trent’anni dopo, salta fuori che forse qualcosa di rilevante stava invece accadendo anche in quel decennio lì: qualcosa capace di lasciare una traccia, con una sua identità. Interessante, no? C’è però una grande differenza tra i ventenni di oggi, e quando avevamo vent’anni noi, noi della cosiddetta generazione X.

Ovvero?
Siamo onesti: noi della generazione X eravamo davvero troppo intenti a guardare il nostro ombelico, questo e poco altro. Nel farlo, a un certo punto abbiamo veramente abbandonato ogni tipo di velleità e di consapevolezza politica. Oggi però essere così avulsi e disconnessi è impossibile, semplicemente impossibile: perché che tu lo voglia o no, le notizie ti piovono addosso. L’informazione è ovunque.

Mmmh.
È banalizzata sotto forma di scenette su TikTok o post troppo semplificatori su Instagram? Forse. Può essere. Ma intanto, c’è. Intanto, non puoi evitare di sapere cosa sta accadendo in Ucraina, cosa sta accedendo in Palestina. Il fatto che magari ti arrivi liofilizzato sotto forma di contenuto social forse ti fa perdere il senso di gravità e di realtà delle cose, quello sì, ma intanto ci sono, certe cose le sai, le vedi, ti appaiono davanti; e prima o poi vedrai che ci sarà l’allineamento di pianeti corretto che creerà uno Zeitgeist in cui di nuovo politica e cultura marceranno insieme per costruire un modo diverso e con una tensione ideale molto più nobile. Oggi questo non sta accadendo, lo so. Ma proprio per questo penso che si avvicina il momento in cui accadrà, in un futuro più o meno prossimo.

Ecco, questa non è nostalgia.
Effettivamente, no. Penso proprio di no. E meno male.

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