Sono le 4 di mattina di un giovedì d’ottobre zuppo di brandy quando una ventina di amici e vari altri habitué si ritrovano all’Other End nel Greenwich Village, chiuso al pubblico, per ascoltare Bob Dylan e i suoi fare qualche pezzo. David Blue ha chiuso il suo set alle 2:30 del mattino e ora la maggior parte dei presenti sta attorno a Dylan, seduto al pianoforte sul palco.
Roger McGuinn, chiaramente ben carburato, non fa che incitare Dylan a cantare il suo nuovo pezzo su Joey Gallo, intonando il ritornello “Joooey” ogni volta che può. Allen Ginsberg sta chino sul pianoforte, lo fissa intensamente, pende dalle sue labbra. Ronee Blakley, la nevrotica del film Nashville, s’avvicina a Dylan, siede con lui al pianoforte per suonare i tasti più alti e aggiungere armonie vivaci. Ramblin’ Jack Elliott vaga in fondo alla sala alla ricerca di un po’ di «tee-keela» mentre Bobby Neuwirth è il direttore e la guida di questo circo folk.
Sembrano tutti in preda a una sorta d’isteria, gli alcolici scorrono che è un piacere. Sono tutti belli presi tranne Lou Kemp, l’amico d’infanzia di Dylan di quando stava in Minnesota e oggi factotum. Osserva la scena da bordo palco con aria diffidente. «Non posso crederci», dice senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Siamo in città da quattro giorni e non siamo mai andati a dormire prima dell’alba. Sono a pezzi e non abbiamo nemmeno ancora iniziato questa maledetta tournée».
La maledetta tournée è ovviamente la Rolling Thunder Revue, la carovana musicale messa in piedi da Bob Dylan e composta da zingari, vagabondi, solitari strangolatori di chitarre e berretti verdi spirituali. Nel giro di quattro giorni i bus del tour partiranno dal Gramercy Park Hotel, dove la Revue s’è acquartierata, per poi dirigersi vero Plymouth, Massachusetts, per la prima tappa di un tour lampo nel nordest della durata di quattro-sei settimane.
Il tour è stato concepito all’Other End in estate mentre Dylan, immerso nell’atmosfera del Village, ha scritto con Jacques Levy canzoni dal sapore spiccatamente newyorkese come l’inno a Joey Gallo e Hurricane, un appello a favore di Rubin Carter, un tempo contendente numero uno al titolo di campione dei pesi medi, ora rinchiuso nel penitenziario statale di Trenton dove sconta una condanna per omicidio. L’idea alla base del tour, ha detto Dylan, è «suonare per la gente», per quelle persone che non riescono ad aggiudicarsi i posti migliori ai concerti, solitamente occupati da giornalisti e celebrità.
«Bob lo voleva fare, ma non aveva nessuno che lo coordinasse», dice Lou Kemp. «Mi ha chiesto di aiutarlo quando sono tornato dall’Alaska, dove ho un impianto di lavorazione del salmone. Per gli aspetti tecnici ho chiamato Barry Imhoff, che aveva già lasciato Bill Graham». Mentre era con Graham, Imhoff aveva dato una mano a coordinare il tour di Dylan di 39 concerti in 21 città all’inizio dello scorso anno. Anche Kemp ha accompagnato Dylan in molte tappe di quel tour.
Sia Imhoff che Kemp non vogliono rispondere a domande relative al lato economico del tour. Dylan ha espresso il desiderio di suonare principalmente nei club, ma le prime tappe si tengono in sale con una capienza compresa tra i 1800 e i 3000 posti e biglietti al prezzo unico di 7,50 dollari. Nella seconda settimana del tour sono previste date in due auditorium da 12 mila posti, a Providence, Rhode Island, e a Springfield, Massachusetts. «Dobbiamo pagare gli affitti, le spese», dice Dylan secondo il quale ci saranno solo «uno o due» concerti di quella grandezza durante il tour.
La Rolling Thunder Revue è stata concepita anche come una congrega spirituale della cerchia folk dei primi anni ’60, vale a dire l’asse Dylan/Blue/Neuwirth/Elliott/Ochs. «Bob è un tipo normale», dice David Blue, «un grande cantautore che è stato travolto dalla fama ed è stato abbastanza intelligente da saperla controllare e cavalcare. È stato astuto, parecchio astuto. E ora sta ripagando tutti con questo tour. È un affare di famiglia».
Nel mentre il cast si è ampliato a dismisura, soprattutto perché Dylan diventa espansivo quando gira per i bar e finisce per invitare a unirsi a loro ogni buttafuori, barista, giocoliere o altro spirito affine che incontra. Joan Baez è stata la prima aggiunta al trio Dylan/Elliott/Neuwirth, seguita da Ronee Blakley, grazie alla sua ottima performance alla jam session dell’Other End. Allen Ginsberg è arrivato dopo, con la sua nebbia, la sua adrenalina e il suo harmonium. Roger McGuinn, che era così concentrato sulla bottiglia da non sentire Dylan le prime due volte che lo ha invitato, ha cancellato ogni impegno ed è entrato nella banda con la sua chitarra a 12 corde e il banjo. L’unico musicista che ha incontrato la Thunder Revue senza esserne travolto è stato Lou Reed.
La storia di Baez è tipica: «Bob mi ha chiamato e mi ha chiesto cosa avrei fatto a novembre. Avevo già un tour in programma. Di solito non lavoro pensando solo ai soldi, ma questa volta sì, ho voluto rifletterci bene. Sono abbastanza intelligente da capire cosa avrebbe significato questo tour. All’inizio non mi fidavo granché. Mi sono chiesta: e se poi Ramblin’ Jack decide invece di vivere su un treno merci per tutto il mese di novembre? Conosco questi ragazzi da molto tempo e voglio loro bene, ma sono tutti ingestibili. Però è fantastico lavorare di nuovo con Bobby. È impossibile stargli dietro, è una sfida, ma ho bisogno di cose del genere».
Stando a Dylan, lo show non si tiene nei grandi auditorium perché «l’atmosfera delle sale piccole è più adatta a ciò che facciamo». Tuttavia, è parso naturale che tutto venisse filmato per essere poi distribuito, così Dylan ha chiamato il suo vecchio amico Howard Alk, noto per Eat the Document. «Lo avevamo realizzato per recuperare una serie di filmati scadenti che la ABC aveva girato durante il nostro tour del 1966», spiega Dylan. «Non è mai stato distribuito perché il film non interessava a nessuno. Il progetto è fallito, ma Howard e io abbiamo deciso che se avessimo avuto di nuovo la possibilità di girare del buon materiale prima di arrivare in sala montaggio, qualcosa che potessimo trasformare in un film fantastico da portare sullo schermo, lo avremmo fatto. Abbiamo già tanto materiale. Probabilmente finiremo per realizzare quattro o cinque film, e il pubblico apprezzerà».
Non è quindi uno shock arrivare alla festa di compleanno a sorpresa per Mike Porco, il proprietario del Gerde’s Folk City che ha dato a Dylan il suo primo ingaggio retribuito negli anni ’60, ed essere accolti da una troupe cinematografica di quattro persone che hanno spiegato la loro presenza a Porco con una balla, dicendo che fanno «riprese per NET». Gira voce che Dylan potrebbe palesarsi e prima di mezzanotte la gente, normalmente scarsa nei giorni feriali, imballa il locale. Phil Ochs si aggira con un drink in mano tenendo una lezione sulla «mafia ebraica» e sullo strano caso di Sonny Liston. Patti Smith si è timidamente piazzata in un angolino, mentre Commander Cody è arrivato su due limousine piene di casinisti. Roger McGuinn sta seduto fuori, nella sua limo: non è uno a cui piace arrivare in anticipo. Poi, poco dopo l’1, una Cadillac Eldorado rossa si ferma e Dylan entra di corsa, tallonato da Kemp e Neuwirth. Salutano la signora Porco, abbracciano Mike e si rintanano in un angolo del locale prima della presentazione: «Signore e signori, la più grande star di tutti: Bobby Dylan». Sale sul palco coinvolgendo Baez per un duetto in Happy Birthday e One Too Many Mornings, ma la musica si interrompe bruscamente quando il ponte del basso di Rob Stoner si rompe.
«Lasciamo la scena a Ramblin’ Jack Elliott», dice Dylan prima di tornare alla relativa solitudine del suo tavolo. Jack suona una ballata di una bellezza struggente, South Coast Blues; Bette Midler sale sul palco per duettare con Buzzy Linhart; Allen Ginsberg canta alcune poesie/canzoni con il supporto della chitarrista Denise Mercedes; Eric Andersen e Patti Smith armonizzano un po’. Infine Neuwirth, che pare una pornostar cubana di fine secolo con maschera nera e cappello da cowboy, canta una toccante Mercedes Benz dedicata a «qualcuno che non ha potuto essere qui con noi stasera».
Sembra finita e invece Phil Ochs, che da qualche tempo è alle prese con certi suoi fantasmi personali, fa un medley commovente in salsa folk e country, con brani come Jimmy Brown the Newsboy, There You Go, Too Many Parties e The Blue and the Gray. Al tavolo di Dylan tutti sono in piedi, a bocca aperta.
Quando Ochs nota Dylan che va verso il bar gli dice: «Ehi Bobby, vieni qui con me». «Vado solo al bar, Phil». «Questa è una tua canzone che ho sempre voluto cantare», ribatte Ochs, intonando una versione funebre di Lay Down Your Weary Tune. L’atmosfera si alleggerisce quando Ochs, scendendo dal palco, inciampa finendo tra le braccia di David Blue, che insieme a Kemp e Neuwirth ha organizzato un’imboscata per recuperare il cappello da cowboy di Ochs che Dylan ha indossato in Pat Garrett e Billy the Kid.
Il giorno dopo, venerdì, le cose vanno benone. È in programma una session per registrare nuovamente Hurricane, che sarà pubblicata all’inizio del tour. L’idea è nata al Kettle of Fish, mentre Dylan parlava animatamente di Rubin Carter e della necessità di pubblicizzare il suo caso. Aveva scritto Hurricane in estate, l’aveva incisa e l’aveva eseguita durante la festa per il pensionamento di John Hammond della Columbia Records, registrata per il programma televisivo Soundstage della PBS. Ma la puntata non sarebbe andata in onda prima di dicembre. «Dobbiamo far uscire la canzone, dobbiamo farla uscire subito», ha detto Dylan, battendo il pugno sul tavolo.
Così martedì, Dylan, Kemp e la sua troupe televisiva, dopo aver ripreso una colluttazione con gli addetti alla security dell’edificio della CBS, fanno irruzione negli uffici di Irwin Segelstein, presidente della CBS Records, e di Walter Yetnikoff, presidente di CBS Records Group, chiedendo la pubblicazione immediata del singolo. A tarda notte Dylan entra nello Studio E interrompendo una session di ascolto di Janis Ian con la sua band: il bassista Rob Stoner, il batterista Howie Wyeth, la violinista Scarlet Rivera, il percussionista Luther e i coristi Steve Soles e Ronee Blakley. Quattro ore dopo, tocca al Don DeVito mixare, masterizzare e fare uscire la storia di Hurricane, secondo le parole di Dylan, «il prima possibile».
Il motivo della nuova incisione di Hurricane è stato oggetto di speculazioni, la maggior parte delle quali incentrate su una frase presumibilmente diffamatoria riguardante una persona coinvolta nell’arresto di Carter. Ken Ehrlich, produttore di Soundstage, ha detto di aver parlato con l’avvocato di Dylan riguardo al taglio di alcune parti della performance registrata «per evitare accuse di diffamazione». L’avvocato David Braun ha rifiutato di commentare la cosa. Alla Columbia, Segelstein ha detto solo che «si tratta di un caso molto comune di confusione di nomi, ha dovuto correggere un testo. Non conosco i dettagli». E DeVito, che ha prodotto la session, ha detto che Dylan ha apportato delle modifiche «proprio come l’anno scorso con Blood on the Tracks. Lui è semplicemente imprevedibile».
Dopo la nuova session, Dylan riflette su Rubin Carter. «La prima volta che ho visto Rubin, me ne sono andato con una certezza: la filosofia di quest’uomo e la mia sono allineate, e non capita spesso di incontrare persone così, di cui sai semplicemente che sono sulla tua stessa lunghezza d’onda. Non ho mai dubitato di lui, nemmeno per un secondo. Non è un assassino, non è quel genere di persona. Stiamo parlando di uno diverso. Insomma, non è il tizio che entra in un bar e inizia a sparare. Non è così. Non capisco come qualcuno sano di mente possa pensare che sia colpevole di una cosa del genere».
Hurricane è un pezzo di otto minuti, una difesa appassionata di Carter e un attacco al sistema che lascia che un uomo forse innocente marcisca in una cella per nove anni. Quella di Carter è il tipo di situazione che anni fa ha ispirato alcune delle più grandi canzoni di protesta di Dylan. «È stata commessa un’ingiustizia e Rubin uscirà», dice Dylan. «È fuori discussione, ma il fatto è che potrebbe succedere a chiunque. Dobbiamo prenderne atto; le persone, dai vertici alla base, devono essere consapevoli che può accadere a chiunque, in qualsiasi momento».
Rubin Carter, dal canto suo, è entusiasta. «All’inizio l’ho ascoltata e ho pensato che era solo un’altra canzone», dice dalla sua cella nella prigione statale di Trenton, nel New Jersey. «Qui dentro non ho tempo per la musica. Questo non è un posto dove ci si può rilassare. Ma più la ascoltavo e più capivo davvero cosa stava dicendo, e mi sono detto: wow! Insomma, ha preso questo caso, questi nove anni di chissà cosa, e li ha messi insieme, così, parlando di ogni aspetto. Mi sono detto: questo tizio è un genio. Sta dicendo la verità alla gente. Mi ha ispirato. Mi sono detto che dovevo continuare a lottare, che stavo facendo qualcosa di giusto se tutte queste brave persone venivano in mio aiuto».
Dopo altre prove, lunedì 27 ottobre tre autobus a noleggio partono per Cape Cod. Lì, la troupe si sistema al Seacrest Hotel e fa altri tre giorni di prove nel campo da tennis coperto dell’hotel.
Il tour inizia il 30 ottobre in una serata fredda e umida del New England, a Plymouth, pubblicizzato solo da volantini con una foto di Dylan e da qualche sporadico annuncio radiofonico a Boston. Il Plymouth Memorial Auditorium, con i suoi 1800 posti, è andato sold out, però ci sono volute circa 24 ore. Ma fin dai primi momenti dello show è chiaro che questo tour eterogeneo e la sua musica funzionano. Sembra che le contraddizioni pre-tour, tra il cameratismo allegro e alcolico di Neuwirth e la professionalità raffinata del direttore musicale Rob Stoner, si siano risolte in un mix equilibrato di suoni.
«Benvenuti nel vostro salotto», ha annunciato Neuwirth sul palco, ed era proprio così. Non c’è l’atmosfera forzata dell’ultimo tour di Dylan con i divani e le lampade Tiffany sul palco. Tutti i partecipanti al tour (Elliott, Blakley, McGuinn, Neuwirth, Baez, Dylan) hanno il loro spazio sotto i riflettori, davanti alla band composta da Mick Ronson, T-Bone Burnett, Stoner e Soles. Dopo le quattro canzoni di Elliott, Neuwirth presenta «un altro vecchio amico» e Dylan sale sul palco con una giacca di pelle nera, jeans e il cappello di Pat Garrett. Il pubblico gli riserva un’accoglienza calorosa. Dylan e Neuwirth aprono con una versione lenta di When I Paint My Masterpiece, con Dylan che canta l’armonia e Neuwirth che fa da voce solista.
Dopo It Ain’t Me, Babe e A Hard Rain’s A-Gonna Fall, Neuwirth lascia il palco e Dylan fa entrare la violinista Scarlet Rivera per guidare la band in Durango. Poi fa da solo Isis senza chitarra e senza accompagnamento: solo lui al microfono che gesticola drammaticamente mentre racconta la storia della dea. «Ci vediamo tra pochi minuti», dice tra gli applausi scroscianti.
Dopo una breve pausa, il sipario si alza lentamente sulle note di Dylan e Joan Baez che cantano The Times They Are a-Changin’. Dopo Never Let Me Go (un vecchio brano di Johnny Ace) e I Shall Be Released, Dylan se ne va dando un buffetto a Baez e lasciandola sola a eseguire sette brani. Roger McGuinn prende il suo posto per Chestnut Mare per poi lasciare nuovamente il palco a Dylan per Mr. Tambourine Man e il pezzo tratto dal prossimo album Oh, Sister.
«Questa» spiega Dylan «è una canzone su Rubin Carter». Dietro di lui scende lentamente uno schermo e la band inizia a suonare Hurricane, il singolo che uscirà il giorno dopo, il 31 ottobre. Sullo schermo è proiettata un’enorme foto di Carter in tenuta da boxe: è l’unico commento che Dylan fa sulla canzone a cui seguono One More Cup of Coffee e Sara, un brano agrodolce dedicato alla moglie: “I’d taken the cure / And had just gotten through / Staying up for days / In the Chelsea Hotel / Writing ‘Sad-Eyed Lady / of the Lowlands’ for you / Sara oh Sara / Wherever we travel / We’re never apart / Sara oh Sara / Beautiful lady / So dear to my heart”.
Chiude con Just Like a Woman e tutto il cast torna per This Land Is Your Land, compreso Allen Ginsberg. Lo spettacolo di tre ore finisce con una standing ovation di dieci minuti. Il secondo show a Plymouth, anch’esso sold out, attira un pubblico più tranquillo, quasi educato nei confronti degli artisti navigati sul palco. Lo spettacolo è stato praticamente lo stesso, tranne che per la sostituzione di I Don’t Believe You al posto di Mr. Tambourine Man e Mama, You’ve Been on My Mind invece di The Lonesome Death of Hattie Carroll.
Da Plymouth, gli autobus e i camper proseguono verso North Dartmouth, Massachusetts, fino alla Southeastern Massachusetts University. I 3000 presenti sanno cosa aspettarsi: una settimana prima, un gruppo di ricognizione, accompagnato dall’immancabile troupe televisiva, alle 10 di sera ha fatto il giro dei dormitori per distribuire dei volantini della Rolling Thunder Revue.
La sera prima della partenza, Dylan è seduto al bar del Gramercy Park Hotel a sorseggiare Remy Martin. Qualcuno dell’entourage gli chiede il perché del nome Rolling Thunder e lui ci pensa un attimo: «Un giorno ero seduto fuori casa mia e pensavo a un nome per questo tour, quando all’improvviso ho alzato lo sguardo al cielo e sentito un boato. Poi un boom, boom, boom, boom che rotolava da ovest a est». Dylan dà un pugno in aria, come un pugile professionista: «Allora ho pensato che quello doveva essere il nome».
Dylan ordina un altro drink e il tizio gli domanda se sa cosa significa Rolling Thunder per gli indiani.
«No, cosa?».
«Dire la verità».
Dylan fa una pausa, si sistema il cappello e s’appoggia allo schienale. «Be’, mi fa piacere sentirlo, mi fa davvero piacere».













