I consumi culturali sono diventati una performance | Rolling Stone Italia
in cerca del piacere perduto

I consumi culturali sono diventati una performance

Che sia per brillare su una dating app o per dimostrarsi "aggiornati" nel proprio circolo sociale, la FOMO ha raggiunto anche ciò che si legge e si guarda, e pure le sue modalità di condivisione. E ci ha ampiamente stufato

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Foto: Hectór J. Rivas su Unsplash

Siamo quello che guardiamo, ascoltiamo e leggiamo. E, soprattutto, siamo giudicati per quello che guardiamo, ascoltiamo e leggiamo. In un certo senso, presentarci tramite i nostri consumi culturali è la via più breve per raccontare chi siamo al mondo esterno. Vedi alla voce app di dating, dove l’integrazione con l’account Spotify è attiva già da diversi anni, con lo scopo di aiutare a mostrarci meglio a chi vogliamo conoscere. Occhio però, perché se ascoltate qualcosa di assolutamente poco cool lo vedranno tutti, un po’ come con lo Spotify Wrapped che si pubblica, o si nasconde, oppure si condivide ma con infiniti disclaimer, a seconda che il riassunto dei nostri ascolti annuali dia una certa immagine di noi.

Quello che conta è che ci faccia apparire come vogliamo, non che rifletta realisticamente cos’abbiamo ascoltato. Ci dev’essere qualcosa di serio e qualcosa di leggero ma non troppo, qualcosa di nicchia e una spruzzata di pop. Se il risultato comprende un artista troppo “basic” allora lo si può sempre liquidare con un “è il mio guilty pleasure”. Se i nostri consumi culturali sono esposti, o per meglio dire, veniamo incoraggiati a metterli in mostra, l’effetto è quello boomerang di un ascolto, una lettura o una visione, fatti per restituire una certa immagine di sé.

Ne parla anche Thom Waite su Dazed, togliendosi diversi sassolini dalla scarpa contro le famose liste tipo I 100 migliori film del 21esimo secolo secondo il New York Times, i contenuti social in cui Pedro Pascal ci svela il suo film preferito, Charli XCX snocciola recensioni cinematografiche su Letterboxd. Attorno a questo tipo di opinioni sembra regnare una frenesia generale. Una spasmodica attenzione nel seguire i consigli letterari di chi “ne sa”, di chi “è cool” o semplicemente di chi “arriva prima”. Ironia: invece di ampliare i nostri orizzonti, questo continuo stimolo ci porta a conformarci alle aspettative altrui.

È come se si generasse una grossa watchlist collettiva. Quando una nuova serie arriva su Netflix e schizza al primo posto, i social si riempiono di contenuti a riguardo, i colleghi cominciano a parlarne, poi gli amici, persino tua mamma ti manda un WhatsApp per chiedere cosa ne pensi e se vale la pena che inizi a guardarlo. E in questo caso non avere un’opinione, essere tagliati fuori dal discorso, non è un’opzione.

Dalle serie più pop, come La casa di carta e Squid Game, a quelle più chic, come Twin Peaks e Madman, passando per i fenomeni recenti di Adolescence e The Bear, almeno una volta ci saremo sentiti dire: “Ma in che senso non hai mai visto *inserire titolo a piacere*?”. Se l’80% delle conversazioni in pausa pranzo ruota attorno all’educazione di Jamie Miller e la responsabilità dei suoi genitori, allora ammettere sommessamente di non avere la più pallida idea di chi sia questo tredicenne – non per mancanza di interesse ma perché semplicemente abbiamo dedicato il nostro tempo ad altro – porta con sé uno sguardo di shock o compassione.

In maniera più o meno critica, ma sicuramente divertente, contenuti come la serie social del creator Lorenzo Luporini «Come fingere di aver letto un libro» in pochi consigli, è un buon esempio di cosa siamo disposti a inventarci pur di non ammettere una lacuna. Basta un riassunto per sommi capi della trama, un commento a effetto da utilizzare come bio di Tinder o al bar con gli amici e un suggerimento pratico per individuare la categoria più adatta di persone con cui fingere di aver letto questo o quel romanzo. A onor del vero, una FOMO sui libri a oggi non c’è, perché non leggere altro che i foglietti illustrativi è inspiegabilmente più accettabile che esserti perso l’ultimo album pubblicato su Sound Cloud da un artista indie, ma se ci viene richiesto un parere ci sentiamo comunque in dovere di darlo.

 

 
 
 
 
 
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A post shared by Lupo (@lorenzoluporini)

Prendiamo Letterboxd. Un universo meraviglioso, in cui poter spulciare tra infiniti film, infinite liste – “Film che tutti dovrebbero vedere una volta nella vita”, “Film classici per principianti”, “Film comfort” – e infinite opinioni. Leggere le recensioni degli utenti sui lungometraggi è utile per sapersi orientare e, a volte, diventa persino più divertente del film stesso. E prendiamo più nello specifico la pagina Instagram @letterboxd_fuoricontesto, un piccolo capolavoro (con circa ventimila follower) in cui vengono raccolte le critiche cinematografiche più selvagge, divertenti e memabili.

 

 
 
 
 
 
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Ed è giusto così, perché non possiamo sempre perderci in lunghissime e articolate recensioni intellettuali. Ma se anche Letterboxd diventa un mezzo per fare a gara a chi lascia il commento più sarcastico e brillante, allora dove finisce la complessità del discorso? Leggere, guardare, ascoltare, non sono più un gesto di pura curiosità ma la risposta a uno stimolo: un’opinione sull’ultimo Tiny Desk di un artista, la battuta pronta su un film di cui tutti parlano, il bisogno di capire perché il nostro feed social è intasato dalle immagini di una specifica serie. Consumiamo i prodotti culturali pensando già a quale sarà il nostro output, l’opinione che potremo condividere, come apparirà questa scelta sul nostro Wrapped, cosa quell’indizio ci aiuterà a comunicare di noi agli altri. Siamo noi a consumare o veniamo consumati dai prodotti culturali?

E se provassimo semplicemente a scegliere di leggere, guardare, ascoltare qualcosa perché ci incuriosisce sinceramente? Perché anche se alla fine non ne parlerà nessuno, se non dovremo per forza descriverlo con un’opinione brillante, se non finirà in nessun elenco di cose cool, andrà bene così. Perché dovremmo smettere di usare la definizione guilty pleasure e tornare a consumare libri, film e serie, solo per il nostro legittimo piacere.

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