Bolzano è una grande casa di bambola che si anima al mattino presto e si spegne la sera sempre presto, con una vita cittadina governata dall’ordine e cristallizzata in una serie di tableau vivant: c’è quello in cui turisti, abitanti e persone senza fissa dimora si muovono fra la vie del centro in fila indiana, fermandosi qua e là; quello con le signore che fanno aperitivo con cappuccio e patatine, trascorrendo al tavolino del bar un pomeriggio che sembra iniziato quindici anni prima; quello serale dalla mitica Daniela per l’ultima birra, rigorosamente entro la mezzanotte e senza fare troppo rumore altrimenti dalle finestre sopra ti lanciano i secchi d’acqua.
Questa città circondata da monti e castelli medievali e piena di aree vuote, non corrotte da un’edilizia bulimica ma lasciate aperte per scatenare l’horror vacui, da quarantuno anni a questa parte nelle ultime due settimane di luglio si accende con il festival Bolzano Danza, organizzato e promosso dalla Fondazione Haydn di Bolzano e Trento. L’edizione attuale segna l’inizio del triennio di direzione artistica di Anouk Aspisi e Olivier Dubois, un nuovo capitolo che promette bene sia per la rara inclusività con cui si interfacciano con pubblico, artisti e operatori, creando un clima di benessere e condivisione effettiva e che non rimane un’aspirazione da comunicato stampa, sia perché si bilanciano nei ruoli, mescolando le competenze di lei, esperta di gestione budget, crescita del pubblico e comunicazione, e di lui, che da coreografo e performer riconosciuto a livello internazionale affronta l’incarico con la sensibilità di un artista e il rigore di chi sa scovare lo spazio, l’orario e l’allestimento per garantire a ciascuno spettacolo la massima resa.
Nei tre giorni di deliziosa full immersion nel festival, resa tale anche grazie al lavoro di tutto il team che sta dietro le quinte, ci siamo fatti attraversare dal concetto di insurrezione, termine scelto come titolo di questa edizione, da non intendere come idea di rivolta ma più come processo di rottura, trasformazione e scoperta di nuove consapevolezze. Una linea che risuona bene negli spettacoli Crowd di Gisèle Vienne e Delirious Night di Mette Ingvartsen, due lavori nati con l’intento comune di portare in scena quel mondo notturno di cui avevamo già parlato, che nasce come festa, assume una forma di rituale catartico per poi dissolversi nel buio come succede nei sogni.

Mette Ingvartsen, ‘Delirious Night’. Foto: Andrea Macchia
Gli esiti sono però un po’ diversi: in Crowd c’è un’ossessione maniacale per la cura del dettaglio, essendo una coreografia totalmente fondata su un’azzeccatissima slow motion, accompagnata dal sound di Stephen O’Malley, che in qualche modo riesce a dilatare anche la techno rendendo questo spettacolo un trip che ti risucchia e scombussola il cervello. Meno riuscito quello di Mette, che in modo molto più spontaneo e casinista vuole qui proporre un party espiatorio dove i performer passano dalla danza sfrenata al canto sottovoce, dall’abbaiare come cani al ridere di tutto questo continuamente, senza però riuscire a coinvolgere il pubblico che infatti arriva a un passo dallo sfinimento.

Mette Ingvartsen, ‘Delirious Night’. Foto: Andrea Macchia
«Abbiamo scelto consapevolmente di non dare una direzione specifica, in qualche modo narrativa a questa edizione, perché non voglio guidare il pubblico nella fruizione, non voglio che esperisca gli spettacoli come lo farei io», ci spiega davanti a un bicchiere di vino Olivier Dubois, ed effettivamente non sembra esserci una coerenza di tematiche o di forma fra gli spettacoli in programma. Si percepiscono piuttosto alcuni elementi che ritornano e che creano un qualche tipo di risonanza, per esempio l’utilizzo della voce come amplificatore dell’espressività corporea, di cui dà un esempio mozzafiato François Chaignaud in Radio Vinci Park, spettacolo che riconferma la bravura di questo artista, asso del canto lirico, della danza e della regia (condivisa con lo storico socio Théo Mercier, già Leone D’Argento per la Danza 2019).

François Chaignaud e Théo Mercier, ‘Radio Vinci Park’. Foto: Andrea Macchia
Che cosa si vede: un pilota seduto su una moto spenta osserva senza reazione la spasmodica ricerca di attenzioni di una creatura mutevole – sirena emersa dalle acque, cantante d’opera risorta da un altro tempo, felino ferito quasi morente, amante passionale in cerca di una fusione di carni? Una scena che regala picchi di eccitazione quando il pilota accende finalmente il motore e scatta con una partenza da gara nel parcheggio di Bolzano Fiera, lanciandosi in una serie di burnout, scoppi di marmitta e penne che manco i Centauri a Ponte Milvio, senza mai perdere il contatto fisico con Chaignaud, imperturbabile in sella: in questo momento gli astanti finiscono la scorta di lacrime.
In un canto non tecnico ma organico, visibilmente proveniente dalle viscere si imbatte invece Stefania Tansini, che con L’ombelico dei limbi riconferma di essersi meritata il Premio UBU 2022 come migliore performer Under 35: danzatrice precisa come una lama ma con un’aura fragile, indaga qui la dimensione della follia, facendo emergere, come ha raccontato nel talk post spettacolo, «uno stato del corpo che già esiste dentro e che risveglio con la pratica». Il che sfocia in un linguaggio coreografico geometrico e articolatissimo, unito a una una presenza liquida, lisergica e a tratti disturbante.

Gisèle Vienne, ‘CROWD’. Foto: Andrea Macchia

Stefania Tansini, ‘L’ombelico dei limbi’. Foto: Andrea Macchia
Da non dimenticare una piccola rivelazione, la giovane Zoé Lakhnati, che ha presentato una performance gustosa in cui trasfigura immagini immortali ispirandosi al Bilderatlas Mnemosyne di Aby Warbug, generando fra il pubblico un effetto-sorpresa più tipico di una sala di cinema che di uno spettacolo di danza. Il festival è terminato il primo agosto. Ma, per l’anno prossimo, il consiglio è di liberare le agende, e farvi un giro tra i tableau, pure dansant, della città.








