Si è già scritto tantissimo su questi primi concerti della reunion degli Oasis. Il contesto. I retroscena. L’ambiente. Che cosa è successo a Cardiff. Come si è rinsaldato il rapporto con la fanbase a Manchester. La mossa ‘Poznan. Il cartonato a grandezza naturale di Pep Guardiola sul palco. E sono arrivate anche alcune critiche — probabilmente, azzardo, da qualcuno che non ha mai visto un concerto in vita sua — sulla mancanza di ‘sceneggiatura’ dello show e sul fatto che le scalette dei vari show siano tutte uguali e che siano “solo” una sequenza di canzoni (tutto vero, per carità).
Ecco, forse dopo aver visto la prima data allo stadio di Wembley della ‘leg’ londinese del tour — che apre la serie di sette concerti nella capitale, dal 25 luglio al 3 agosto con reprise il 27 settembre — possiamo tirare le prime conclusioni ragionate su quella che è forse una delle reunion più significative degli ultimi anni e, senza ombra di dubbio, una di quelle meglio gestite dal punto di vista del marketing e della comunicazione: dalla strategia per tenere l’hype costante per un anno, alla partnership con Adidas fino alle experience in tempo reale che a Londra ti permettevano di scoprire i luoghi degli Oasis in cui succedeva sempre qualcosa (niente cancella però del tutto le ombre sul fenomeno del ‘dynamic pricing’: gli artisti non ne hanno responsabilità diretta e hanno fatto dichiarazioni e azioni specifiche per rimediare, ma resta uno schifo). Però, appunto, di tutti questi aspetti si è già scritto tantissimo: ciò su cui ha senso concentrarsi dopo Wembley è la musica.
In una biografia degli Oasis uscita qualche anno fa dal titolo Supersonic — libro che raccoglie materiale non utilizzato per il documentario del 2016 dallo stesso nome diretto da Mat Whitecross — Liam e Noel Gallagher, ai tempi ancora “litigati”, raccontano a più riprese come l’unica cosa che conta per capire gli Oasis sia la musica. Una band della working class inglese che voleva diventare la più grande del mondo non grazie ad aspetti riguardanti il contesto ma grazie appunto al “testo”, alle canzoni, e alla loro capacità di comunicare qualcosa a quante più persone possibili.
Oasis plays “Supersonic” at their first London show of the reunion tour. pic.twitter.com/NBPHXdF9EW
— Variety (@Variety) July 25, 2025
E poi c’è Wembley. Ok, l’impianto è quello nuovo. Non ci sono più le due torri dell’architettura imperiale che facevano da sfondo a tanti raduni di massa della cultura pop del novecento (dai Queen al Live Aid agli stessi Oasis) ma il portato simbolico di quel luogo resta intatto. I latini lo chiamavano genius loci, l’entità naturale e soprannaturale che protegge e abita un luogo specifico e a Wembley, questo genius loci, ancor più che il calcio, è la musica.
Questo per dire che la prima data londinese è carica di significato. Nessuno nega il rapporto speciale e l’atmosfera incredibile che c’era a Manchester, anzi, ma Wembley è uno di quei luoghi che, se ci vai, non devi sbagliare in nessun modo. Forse anche per questo il capitolo londinese arriva solo come terzo, dopo il kick off di Cardiff e il consolidamento “riportando tutto a casa” nella loro città.
Momento personale. Pur essendo uno dei gruppi che ha segnato la mia esperienza e la mia biografia di ascoltatore e appassionato di musica, sono riuscito a vedere gli Oasis nella loro ‘prima vita’ solo una volta. Vuoi per mancanza di soldi, occasioni o compagnia adeguata ad andare a vederli. Era al festival di Benicassim durante il tour di Don’t Believe the Truth. La delusione fu incredibile. La band sembrava non avere voglia di suonare, Liam era senza voce, le canzoni — anche quando arrivavano quelle fondamentali — scorrevano come acqua fresca e non significavano niente. Era questa la band che aveva cambiato la storia della musica e rappresentato uno degli ultimi fenomeni collettivi del rock’n’roll? Bisognava verificare, e dove meglio se non Wembley?
All’annuncio della reunion avevo pensato che l’unico modo per fare bene questa cosa, dal punto di vista musicale, sarebbe stato dare al pubblico esattamente quello che il pubblico voleva. E cioè quegli inni generazionali, quei cori da stadio da cantare tutti insieme che riescono a essere collettivi e personali allo stesso tempo. Niente velleità. Niente esperimenti. Solo canzoni. Solo quelle canzoni. Non ci voleva uno scienziato ma il concerto degli Oasis — ormai lo sapete — segue esattamente questa idea. Fatti salvi due pezzi da Be Here Now (D’You Know What I Mean e Stand By Me) e uno da Heathen Chemistry (Little by Little, a chiudere il “momento Noel” piazzato strategicamente prima del finale per permettere forse a Liam di far riposare la voce) il concerto è Definitely Maybe + Morning Glory + relative b-side (poi parleremo di come quelle degli Oasis siano spesso migliori di tantissime canzoni uscite nei dischi ufficiali). Solo musica. Niente fronzoli. Niente prese per il culo.
Il punto è che la musica degli Oasis è sempre stata una questione di e per le persone. Le centinaia di migliaia di fan che avranno assistito a questi concerti avranno sì una storia personale da condividere ma dentro una cornice collettiva che gli ha permesso per due ore di sentirsi parte di un tutto. È la curva di uno stadio di calcio ma senza avversario, che vibra con l’elettricità di un gol che dura 120 minuti. Per questo dentro Wembley la musica rimbomba con una potenza molto superiore alla media, con un volume più alto del solito e che riesce a essere sovrastato comunque da centomila voci che diventano una sola e non smettono un maledetto secondo di cantare.
La band scarica e senza voglia degli anni zero non esiste più. Adesso c’è una macchina che funziona alla perfezione, che mette insieme passato remoto (Bonehead), prossimo (Gem Archer e Andy Bell), presente (Noel e Liam Gallagher) e, forse, futuro (Joey Wawronker alla batteria e Christian Madden alle tastiere). Una macchina consapevole dei propri limiti — la voce di Liam che va dosata per permettere di trasmettere tutte le emozioni necessarie per un concerto rock — ma soprattutto che sa come potenziare l’effetto dei propri pregi: le canzoni come inni, la musica a volumi elevati e suonata con la massima potenza, come rito.
Quando il pubblico di Wembley viene investito dal tris iniziale Hello, Acquiesce, Morning Glory, ne esce come stordito. Entra in uno stato di ‘trance’ che termina solo dopo una fluviale e perfetta Champagne Supernova. Questo perché la musica degli Oasis si sviluppa tornando all’elemento base. Quasi il grado zero. Elementare, addirittura rozza, ma con una carica emotiva compressa capace però di esplodere grazie al volume, all’intensità e a quella vibe di “qui e ora” che da sempre contraddistingue il modo di suonare e cantare dei Gallagher. Non è una musica di sentimenti ma è una musica di “sentimenti potenziali”. Una musica fatta di you, me, us in cui le cose si vogliono dire but I don’t know how e in cui le cose si provano solo come si possono provare allo stadio, in un abbraccio primordiale e in una catarsi in cui pur senza dire nulla, ci si capisce e si arriva dritti al punto. Per questo persone che non si conoscono finiscono abbracciate tutto il tempo. Per questo la birra che ti finisce addosso (a fine concerto ne conto due, e stavo sugli spalti) è quasi un rituale iniziatico. Per questo non si smette un solo maledetto secondo di cantare. È pura togetherness.
81,000 fans from across the globe made their way to London’s iconic Wembley Stadium tonight for the kickoff of @oasis' 7-show run. Over 700,000 people will witness these legendary shows, as the band continues their Oasis Live '25 Tour.
Photo Credit:
Slide 1: Joshua Halling… pic.twitter.com/MfEXQfeRgr— Live Nation (@LiveNation) July 26, 2025
Per una band che dal vivo ha inanellato una grande quantità di figuracce, questa del 2025 non è una reunion, quanto l’autentico ‘Second Coming’ della musica rock. Da altre parti si è letto di come gli Oasis di oggi siano stranamente nel loro prime, ma per me si tratta semmai di un “secondo” prime. Come quei calciatori che hanno imparato come gestire l’età, cambiando modo di giocare e allungando la propria carriera di anni regalando soddisfazioni ai tifosi… che è quello che in fondo conta.
Per questo le canzoni più toccanti come Cast No Shadow, Slide Away e Live Forever risultano ancora più efficaci, con Liam che più che cantare accompagna il canto del pubblico. O i momenti più essenzialmente rock come Bring it on down oppure la fondamentale Rock’n’Roll Star (dedicata a Ozzy Osbourne) suonano ancora di più come dichiarazione d’intenti, come a rimettere la Chiesa al centro del villaggio. E i momenti in cui più si sente l’eredità dei Beatles come Whatever (che infatti diventa Octopus Garden), The Masterplan e Half The World Away vengono accolti con gioia dalle persone molto più di altri singoli di successo.
Poi c’è anche il fatto che ad un certo punto arriva la doppietta Don’t Look Back In Anger e Wonderwall dove tu la band non la senti. La intuisci. Eco lontana mentre tutto Wembley canta. E quando ascolti quelle canzoni ti rendi conto di cosa vuol dire aver assistito in diretta alla nascita di un momento capace di definire la storia di almeno due generazioni.
Quindi non credete all’hype, perché oltre al bisogno di esserci in questa “brat summer” dei Millennials, c’è che andare a vedere gli Oasis nel 2025 è un’esperienza di rock’n’roll pura e incredibile, con le persone felici, con un’energia trascinante e la sensazione, finito il concerto mentre sei sulla strada per la stazione della metropolitana per tornare a casa, di voler ritornare a vedere quel concerto, cantare quelle canzoni e condividerle con gli sconosciuti vicino a te ancora una volta. E se non è il senso della musica rock questo, io allora non so dove altro cercarlo.













